A margine dei recenti atti di riconoscimento di Israele: spunti di riflessione sulla responsabilità internazionale per violazione dell’obbligo di non riconoscimento e sulla sua giustiziabilità
Agnese Vitale (Università di Firenze)
Con l’annuncio da parte degli Emirati Arabi Uniti (EAU) e poi del Bahrain di voler ristabilire normali relazioni diplomatiche con Israele, sale a quattro il numero di paesi arabi ad aver riconosciuto lo Stato ebraico (Egitto nel 1979, Giordania nel 1994), e altri paesi arabi potrebbero seguire. Secondo i palestinesi, Emirati Arabi e Bahrain avrebbero in tal modo minato il consenso del mondo arabo, leva politica e diplomatica assai importante, riguardo alla posizione per cui il riconoscimento di Israele sarebbe stato concesso solo in caso di importanti progressi nei colloqui di pace con le autorità palestinesi per la creazione di uno Stato palestinese indipendente (riconoscimento c.d. condizionato, v. Arab Peace Initiative del 2002). Formalmente, tuttavia, la questione palestinese è stata tenuta fuori dai tavoli di discussione su espressa richiesta dei paesi arabi. Non è quindi chiaro se i nuovi accordi con Israele siano da intendersi estesi ai territori palestinesi occupati, concretizzando un riconoscimento dell’acquisizione territoriale israeliana. Nel frattempo, Netanyahu tiene a sottolineare che tale questione è sospesa solo in maniera ‘temporanea’. Non a caso, poco dopo aver firmato gli accordi con gli EAU e il Bahrain, il presidente israeliano ha da più parti affermato che il piano di pace (‘Deal of the century’) di Trump non è venuto meno. Alla domanda di un giornalista israeliano, Amnon Lord, sul giornale ‘Israel HaYom’, riguardo al fatto che Israele avrebbe ‘nascosto’ ai paesi arabi le proprie mire di sovranità per concludere gli accordi di normalizzazione, il presidente ha risposto che non vi è stata nessuna mossa ‘segreta’ e che, appunto, è tutto ‘scritto’ pubblicamente nel piano di pace statunitense. Secondo il piano, ribadisce il presidente, Israele guadagnerà il trenta per cento dei territori occupati nella West Bank, senza che gli insediamenti israeliani, asseritamente necessari per la sicurezza del paese, subiscano alcuna modifica. Ciò rende sospettosa la mossa diplomatica araba, che può essere interpretata, e a ragione, da alcuni attori internazionali come il primo passo verso un pieno riconoscimento delle aspirazioni israeliane. Uno sguardo ad ampio raggio alla politica estera americana spiega perché questi timori sembrano fondati. Come primo atto della ‘Pax Americana’ sotto la regia di Trump, Serbia e Kosovo si sono infatti impegnati a trasferire la propria ambasciata a Gerusalemme entro luglio 2021, riconoscendo quindi quest’ultima come capitale di Israele.
A questo punto viene da chiedersi: quali conseguenze di diritto internazionale si profilano qualora divenga chiaro che i paesi arabi abbiano, per così dire, abbandonato la causa palestinese e riconosciuto l’annessione? E allo stesso modo, quali conseguenze potranno applicarsi a Serbia e Kosovo qualora trasferissero effettivamente la loro ambasciata a Gerusalemme, seguendo l’esempio statunitense? Questi casi di riconoscimento rappresentano infatti un’ottima occasione di studio sulle conseguenze derivanti da una violazione dell’obbligo di non riconoscimento e sulla sua giustiziabilità davanti alla Corte Internazionale di Giustizia (CIG).
Vale la pena ricordare, innanzitutto, che l’occupazione israeliana dei territori palestinesi è stata oggetto di condanna da parte degli organi politici delle Nazioni Unite sin dalla Guerra dei Sei Giorni del 1967. Varie risoluzioni sia del Consiglio di Sicurezza che dell’Assemblea Generale (v. inter alia, CS: 252 (1968), 267 (1969), 298 (1971), 446 (1979) e 465 (1980), 478 (1980), 2334(2016); AG: 2253 (ES-V) (1967), 2254 (ES-V) (1967), 31/106A (1976), 33/113 (1978); ES-10/2) hanno dato inizio a una duratura ‘politica’ di non riconoscimento delle pretese di sovranità israeliane sui territori occupati. Nel 2004, inoltre, nel Parere Consultivo sulle Conseguenze giuridiche dell’edificazione di un muro nel territorio palestinese occupato, la Corte Internazionale di Giustizia (CIG) ha affermato che la costruzione del muro di separazione fra Israele e i territori palestinesi occupati e il suo ‘associated regime’ configura una violazione del diritto internazionale, in particolare viola le norme sul divieto di minaccia o uso della forza (§121), il principio di autodeterminazione dei popoli (§122), alcuni principi di diritto internazionale umanitario e molteplici diritti umani (§134). Dalla natura erga omnes di alcuni di questi obblighi, derivava, secondo la Corte, un obbligo per ciascuno Stato di non riconoscere la situazione illegittima data dalla costruzione del muro e un obbligo di non prestare aiuto o assistenza nel mantenere tale situazione.
Molto importante è sottolineare che, nel parere appena citato, la Corte ha aperto la strada ad un’interpretazione dell’obbligo di non riconoscimento in senso distonico rispetto a come il medesimo si trova disciplinato nel Progetto di Articoli sulla responsabilità internazionale degli Stati del 2001. Quest’ultimo, infatti, all’art. 41(2) concepisce l’obbligo di non riconoscimento come una delle conseguenze derivanti dalla violazione grave di una norma perentoria di diritto internazionale. La Corte, invece, sembra collegare l’obbligo alla violazione di qualsiasi norma erga omnes, dunque comprese quelle che non hanno natura di jus cogens. D’altra parte è stato sottolineato in dottrina come «there are no grounds for the effects of the ex iniuria ius non oritur principle […] to be limited to the most serious infringements of standards of fundamental importance to the international community» (v. Czaplinski). Questi autori, infatti, proprio alla luce della massima ex iniuria ius non oritur, prospettano un’applicazione dell’obbligo di non riconoscimento alla violazione di qualsiasi obbligo di diritto internazionale, a prescindere, cioè, dal carattere erga omnes del medesimo. Forse è in questa prospettiva che si potrebbe spiegare come mai l’applicazione dell’obbligo di non riconoscimento non si sia limitata nella prassi alla situazione di fatto creatasi dalla violazione della norma “primaria”, ma si sia estesa anche a tutti gli atti di riconoscimento che successivamente avallano quella violazione. A conclusioni diverse si giunge, tuttavia, se si concepiscono gli atti di riconoscimento della situazione illegittima, su cui vige un obbligo di non riconoscimento, non come violazioni di quest’ultimo ma come ‘propaggini’ della violazione principale di una norma perentoria o solidale: in altre parole, come vi è l’obbligo di non riconoscere una situazione illegittima creatasi in conseguenza della violazione di una norma perentoria o solidale, così la violazione di tale obbligo di non riconoscimento produce, a propria volta, una situazione illegittima che esige, come tale, di non essere riconosciuta da alcuno Stato perché contraria alle suddette norme perentorie o solidali.
Il caso del trasferimento dell’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme nel 2017 è paradigmatico. Questo avvenimento, infatti, è stato considerato dalla comunità internazionale come implicante il riconoscimento, da parte degli USA, della sovranità israeliana sulla città, la quale invece gode secondo la comunità internazionale di uno status speciale fin dal 1947, costituendo dunque una violazione del diritto internazionale. Il veto posto dagli Stati Uniti in sede di Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha precluso l’adozione di un progetto di risoluzione avanzato dall’Egitto (ottenendo tuttavia 14 voti favorevoli). Un testo simile è stato poi avanzato in Assemblea Generale da parte di Turchia e Yemen il 21 dicembre 2017, finalmente adottato nella risoluzione ES-10/19 con 129 voti favorevoli, 9 contrari e 35 astensioni. Qui si legge che: « [The General Assembly] 1. Affirms that any decisions and actions which purport to have altered the character, status or demographic composition of the Holy City of Jerusalem have no legal effect, are null and void and must be rescinded in compliance with relevant resolutions of the Security Council, and in this regard calls upon all States to refrain from the establishment of diplomatic missions in the Holy City of Jerusalem, pursuant to Council resolution 478 (1980); 2. Demands that all States comply with Security Council resolutions regarding the Holy City of Jerusalem, and not recognize any actions or measures contrary to those resolutions». La maggioranza dei membri dell’Assemblea Generale ha sottolineato come l’azione statunitense fosse contraria al diritto internazionale, dimostrando quindi di rimanere ancorata all’obbligo di non riconoscimento riguardo a qualsiasi modificazione territoriale nella regione. L’Assemblea ‘estende’ l’obbligo di non riconoscimento al trasferimento dell’ambasciata USA a Gerusalemme agli Stati terzi perché la considera azione o misura contraria alla Ris. 478 (1980) del Consiglio (verso la quale vige obbligo di esecuzione ai sensi dell’Art. 25 della Carta) (vedi anche il Parere della CIG sulla Namibia del 1971: «§125. […] no State which enters into relations with South Africa concerning Namibia may expect the United Nations or its Members to recognize the validity or effects of such relationship, or of the consequences thereof»). È essenziale sottolineare, dunque, che con questo caso di specie si è fatta strada, in dottrina, l’idea che anche l’obbligo di non riconoscimento abbia necessariamente carattere erga omnes, e che quindi la sua attuazione possa essere pretesa da tutti i membri della comunità internazionale rispetto agli altri membri. Il regime di responsabilità aggravato, innescato dalla violazione dell’obbligo, comporta che gli Stati terzi siano legittimati a richiedere l’immediata cessazione dell’illecito (ovvero la revoca del riconoscimento precedentemente accordato), assicurazioni di non ripetizione e la riparazione del danno a favore dello Stato leso (o della popolazione lesa). Se si ammette infatti la vigenza, nei termini appena esposti, di un obbligo di non riconoscimento erga omnes, non troverà applicazione alcuna la regola consuetudinaria dell’estoppel:ogni atto di riconoscimento, pertanto, sarà revocabile. Inoltre, in tali casi, la revoca del riconoscimento precedentemente concesso avrà effetti retroattivi, come sottolineato da taluni autori: “For, what is null and void [..] must be invalid from its inception; this means that by virtue of the declaration the effects of the previously granted recognition are deleted ‘nunc pro tunc’” (v. Langer).
Occorre introdurre una distinzione in materia di responsabilità internazionale per violazione dell’obbligo di non riconoscimento di una illegittima acquisizione territoriale. La violazione, infatti, può essere diretta o indiretta (v. Pert). Per violazione diretta si intende una dichiarazione espressa o un atto concludente a favore del riconoscimento de jure. Per quanto riguarda l’atto concludente, quale il trasferimento dell’ambasciata a Gerusalemme, si potrebbe comunque presentare la difficoltà di stabilire se questo costituisca o meno un riconoscimento ‘implicito’ o ‘tacito’ della situazione illegittima. Conviene a nostro avviso adottare l’impostazione avanzata da Lauterpacht: «[r]ecognition is primarily and essentially a matter of intention. Intention can be replaced by questionable inferences from conduct». È compito della comunità internazionale, preferibilmente tramite gli organi politici dell’ONU, stabilire se vi sia intenzione specifica di riconoscere la situazione illegittima e quindi avallare una violazione del diritto internazionale. Nel caso del trasferimento dell’ambasciata statunitense, la maggioranza degli Stati ha concluso che tale intenzione si era materializzata. Deve quindi presumersi che una situazione simile si verificherà quando Serbia e Kosovo trasferiranno effettivamente le loro ambasciate a Gerusalemme.
Ci occupiamo adesso della giustiziabilità di una violazione diretta dell’obbligo di non riconoscimento davanti alla CIG, al di là di un’estensione dell’obbligo che rende tale riconoscimento ‘null and void’. Ciò è tanto più importante se si ricorda che gli effetti dell’obbligo sono più sentiti quando mirano a negare un «asserted legal status such as statehood, or a claim to title to territory arising from the factual situation» (v. Talmon), mentre nel caso di non riconoscimento di ‘atti’, quale il trasferimento dell’Ambasciata, l’obbligo è tacciabile di essere «without real substance» o «without real impact».
È da rilevarsi che in nessuna sentenza rilevante ai fini dell’obbligo di non riconoscimento la Corte si è espressa riguardo alle circostanze necessarie a stabilire quando l’obbligo è stato violato né alle conseguenze scaturenti da suddetta violazione. Portare in giudizio uno Stato terzo per violazione dell’obbligo comporterebbe innanzitutto il rischio che la Corte decida di non esprimersi, in conformità al noto principio sancito nel caso Monetary Gold. La Corte dovrebbe infatti pronunciarsi sulla legittimità o meno delle pretese di sovranità sulla città di Gerusalemme da parte di Israele, il quale non sarebbe, di base, parte alla controversia. Ad esempio, nel caso relativo al Timor Orientale, la Corte ha applicato il suddetto principio in virtù del fatto, inter alia, che «the erga omnes character of a norm and the rule of consent to jurisdiction are two different things. Whatever the nature of the obligations invoked, the Court could not rule on the lawfulness of the conduct of another State which is not a party to the case. Where this is so, the Court cannot act, even if the right in question is a right erga omnes».
Nella stessa sentenza, tuttavia, una porta viene lasciata aperta. La Corte, infatti, ha rigettato uno degli argomenti avanzati dal Portogallo riguardo alla non applicabilità del Monetary Gold standard al caso di specie (in base al fatto che le risoluzioni dell’Assemblea e del Consiglio dell’ONU si erano già pronunciate sulla questione dell’uso della forza da parte dell’Indonesia in Timor Est e sulla sua presenza illegale nel paese e che quindi la Corte avrebbe dovuto semplicemente prendere tali decisioni come dato di fatto), precisando che «[t]he Court notes that the argument of Portugal under consideration rests on the premise that the United Nations resolutions, and in particular those of the Security Council can be read as imposing an obligation on States not to recognize any authority on the part of Indonesia over the Territory […] The Court is not persuaded, however, that the relevant resolutions went so far». Al di là delle criticità insite nell’affermazione della Corte, è da rilevarsi che effettivamente le risoluzioni dell’ONU sulla situazione in Timor Est non fanno riferimento esplicito ad un obbligo di non riconoscimento della sovranità indonesiana (risoluzioni 31/53 e 32/34: «[The General Assembly] rejects the claim that East Timor has been incorporated into Indonesia, inasmuch as the people of the Territory have not been able to exercise freely their right to self-determination and independence»).
La domanda da porsi allora è: nel caso la Corte avesse rinvenuto un preesistente obbligo di non riconoscimento in capo allo Stato australiano, come si sarebbe orientata la decisione? O ancora, posta la diversità tra le risoluzioni concernenti il Timor Orientale da un lato e la Palestina dall’altro, vi è un margine d’azione per la Corte per statuire in modo diverso? La dichiarazione di illegalità da parte degli organi politici dell’ONU sarebbe stata prova sufficiente ad ‘annullare’ il principio del Monetary Gold? D’altra parte, né la CIG né le risoluzioni dell’ONU, né il Progetto di Articoli sulla Responsabilità degli Stati, né la Dichiarazione sulle Relazioni Amichevoli fra Stati hanno mai chiarito definitivamente quale sia il ‘forum’ o quali gli attori deputati a sancire una situazione di illegalità ai fini dell’applicazione del non riconoscimento. Se gli indizi propendono verso il riconoscimento del ruolo preminente degli organi politici dell’ONU (e la sentenza sul Timor Orientale sembra confermarlo), è pur vero che la maggior parte della dottrina è oggi orientata verso il carattere self-executing dell’obbligo per la sua esistenza nel diritto internazionale generale (in particolare come norma secondaria nel regime della responsabilità internazionale) e non soltanto nel quadro del sistema di sicurezza collettiva dell’ONU. A noi pare che la via intermedia sia quella corretta: esiste un obbligo di non riconoscimento nel diritto generale indipendente dal sistema delle Nazioni Unite, ma le risoluzioni del Consiglio di sicurezza e dell’Assemblea generale, seppur dichiarative di una preesistente norma, sono essenziali poiché «provide certainty by substituting for the decision of an individual State a collective determination of illegality and nullity» (v. Dugard). Parafrasando un importante internazionalista, le risoluzioni dell’ONU rendono ‘oggettiva’ – e dunque dichiarabile – una situazione di illegalità già esistente (v. Chen). In particolare, sembra profilarsi un doppio standard: mentre l’obbligo di non riconoscimento scaturisce dal diritto generale senza per forza passare attraverso le risoluzioni dell’ONU, la responsabilità internazionale degli Stati terzi per violazione dell’obbligo di non riconoscimento necessiterebbe di una determinazione delle Nazioni Unite riguardo alla vigenza di quest’ultimo, almeno per un pronunciamento da parte della Corte.
Proprio su questo ragionamento si può avanzare l’ipotesi che nel caso in cui gli Stati Uniti, la Serbia o il Kosovo siano portati in giudizio davanti alla CIG per violazione di risoluzioni delle Nazioni Unite (le quali sanciscono l’obbligo di non riconoscimento) la Corte potrebbe esprimersi sul punto e verosimilmente condannare questi Stati per violazione del diritto internazionale (ferme restando le regole – e le conseguenti limitazioni – in materia di consenso alla giurisdizione). Tuttavia, occorre rilevare che la prassi in tal senso non è abbondante: limitandosi alla giurisprudenza della CIG, l’unico caso in specie è quello portato proprio dalla stessa Palestina contro Israele di fronte alla Corte per violazioni della Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche del 1961.
Veniamo ora alla circostanza in cui la violazione dell’obbligo avvenga in maniera indiretta, ovvero tramite un trattato, che può avere varia natura (commerciale, di sfruttamento delle risorse etc.) concernente la situazione territoriale illegittima. Tale trattato, infatti, presuppone la sovranità di uno Stato sulla parte di territorio in cui si è verificata la situazione illegittima: concludere un trattato con tale Stato e con tale portata territoriale equivale, di fatto, al riconoscimento della situazione illegittima. Viene di nuovo in rilievo la già citata sentenza della CIG sul Timor Orientale. Qui la Corte non ha contestato la dichiarazione dello stesso Ministro degli Affari Esteri australiano in base alla quale il riconoscimento di un ‘treaty-making power’ dell’Indonesia riguardo al territorio in questione comportava un riconoscimento de jure dell’incorporazione di Timor Est da parte dell’Indonesia. Sembra dunque, che la Corte accolga l’interpretazione per cui l’attribuzione di capacità di concludere trattati a una parte contraente riguardo ad un territorio dove questa esercita sovranità in modo illegittimo equivale ad un riconoscimento de jure. Come già aveva affermato la Corte nel Parere sulla Namibia, definendo i requisiti minimi del contenuto dell’obbligo di non riconoscimento: «§124. The restraints which are implicit in the non-recognition […] impose upon member States the obligation to abstain from entering into economic and other forms of relationship or dealings […] which may entrench its authority over the Territory […]». Anche in caso di violazione indiretta, dunque, lo Stato è soggetto a responsabilità internazionale aggravata.
Così come per la violazione diretta, è opportuno interrogarsi circa la possibilità di contenzioso internazionale per violazione indiretta dell’obbligo. Sempre nel caso sul Timor Orientale, il Portogallo sosteneva che «Australia, in negotiating and concluding the 1989 Treaty, in initiating performance of the Treaty, in taking internal legislative measures for its application, and in continuing to negotiate with Indonesia, has acted unlawfully, in that it has infringed the rights of the people of East Timor [..]». L’Australia, invece, replicava che la Corte non avrebbe avuto giurisdizione riguardo alla validità del trattato del 1989 fra Australia e Indonesia, in quanto ciò avrebbe inevitabilmente portato la CIG ad esprimersi sulla liceità della condotta indonesiana. In risposta, il Portogallo tentava una separazione fra il rapporto Australia-Timor Orientale e Australia-Indonesia. Mentre la Corte non aveva giurisdizione nel secondo caso, nel primo sì: «[…] Portugal contends […] that its Application is concerned exclusively with the objective conduct of Australia, which consists in having negotiated, concluded and initiated performance of the 1989 treaty with Indonesia, and that this question is perfectly separable from any question relating to the lawfulness of the conduct of Indonesia». Sebbene la Corte abbia rigettato la richiesta del Portogallo sulla base del principio Monetary Gold, l’argomentazione portoghese sarebbe stata rilevante nell’ipotesi in cui la Corte avesse rinvenuto l’esistenza di un obbligo di non riconoscimento in capo all’Australia. Così come ribadito dal giudice Weeramantry nella sua opinione dissenziente: «What the Court [would be] invited to consider […] is not the unlawfulness of the bilateral treaty, but the unlawfulness of the Respondent’s unilateral actions which went into the making of that treaty». Sembra corretto quindi ipotizzare che la CIG avrebbe potuto pronunciarsi sulla responsabilità australiana per aver concluso un trattato con l’Indonesia, senza che la validità del trattato e quindi la condotta di quest’ultima fosse oggetto della controversia.
Quanto segue, invece, pertiene alla possibilità che il trattato stesso venga dichiarato invalido. Se assumiamo, come abbiamo fatto in questo scritto, e come concorda la maggioranza della dottrina, che un’azione contraria all’obbligo di non riconoscimento è una violazione della norma primaria e non dell’obbligo stesso, viene in rilievo l’art. 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969: poiché la norma primaria violata in caso di acquisizioni territoriali illegittime è quasi sempre una norma di jus cogens – mentre l’obbligo di non riconoscimento non ha carattere cogente –, il trattato sarebbe nullo in quanto contrario a norme perentorie. Al contempo, tuttavia, è stato sottolineato che «it is hard to regard a treaty provision recognising sovereignty as being in direct conflict with the duty to refrain from acts of aggression or the duty not to impede the exercise of the right to self-determination» (v. Pert). Sarebbe questa a nostro avviso una questione che dovrebbe risolvere l’interprete, alla luce delle diverse circostanze caso per caso. Come sappiamo, tuttavia, l’art. 66(a) della Convenzione di Vienna non è mai stato utilizzato nella prassi (vedi anche l’incertezza su chi sia intitolato ad invocare la nullità di un trattato confliggente con norme di jus cogens, qui e qui). Detto ciò, gli Stati terzi possono sempre applicare il principio di non riconoscimento al trattato in questione, dichiarandolo ‘nullo’ (v. Gianelli).
Da sottolineare, infine, che la CIG nel caso sul Timor Orientale ha menzionato fra gli aspetti che avrebbe considerato per pronunciarsi sulla validità del Trattato del 1989 (a quanto pare con una base giurisdizionale più ampia rispetto all’art. 66 della Convenzione di Vienna) il fatto che «several States have concluded with Indonesia treaties capable of application to East Timor but which do not include any reservation in regard to that Territory». Nel caso dei territori palestinesi occupati, invece, la prassi mostra una tendenza da parte degli Stati terzi, a concludere trattati con Israele precisando che l’ambito territoriale di applicazione dei suddetti è confinato al territorio israeliano così come delineato dal diritto internazionale, dunque non alla Striscia di Gaza, alla West Bank e Gerusalemme Est. Viene in rilievo soprattutto la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea che, in più occasioni, ha ristretto l’ambito di applicazione di regimi tariffari preferenziali con suoi partner commerciali che esercitavano illegalmente la sovranità su certi territori (v. qui specificatamente su Israele, anche se la Corte ha infine risolto il caso in base al principio pacta tertiis, §52 ; successivamente, nel 2018, la Corte ha esplicitato la violazione di norme internazionali perentorie alla base di una illecita estensione dell’ambito territoriale di applicazione di un trattato, v. causa 266/16 sul Sahara occidentale, §§63, 71). Anche alla luce di questa prassi consolidata, e dato il loro ruolo preminente nella decennale disputa fra Palestina e Israele, i paesi arabi avrebbero dovuto opportunamente dichiarare l’ambito di applicazione dei nuovi accordi, per lo meno per dimostrare la loro buona fede. La CIG potrebbe tenerne di conto qualora sia chiamata a stabilire la responsabilità dei paesi arabi per violazione indiretta dell’obbligo (più che, come abbiamo visto, a pronunciarsi sulla invalidità dei trattati in questione).
Per complicare ancora di più il quadro, è da rilevarsi che nella violazione dell’obbligo di non riconoscimento, vi potrebbero rientrare anche gli atti volti a prestare aiuto o assistenza nel mantenere la situazione illegittima. È vero, infatti, che l’obbligo di non riconoscimento e l’obbligo di non prestare aiuto o assistenza sono due obblighi distinti secondo il diritto internazionale; tuttavia, nel Progetto di Articoli del 2001 questi sono intimamente connessi, tanto che il secondo appare come un’estensione dell’obbligo di non riconoscimento. Anche nel Parere della CIG sulla Namibia è difficile distinguere concretamente le misure volte a negare riconoscimento de jure da misure volte a non prestare aiuto o assistenza nel mantenere la situazione illegittima. Un’analisi più approfondita, che esula da questo scritto, potrà mostrare qual è in questo caso la natura della violazione e la sua giustiziabilità.
In conclusione, abbiamo dedotto che per quanto riguarda l’annunciato trasferimento di ambasciata da parte di Serbia e Kosovo a Gerusalemme a luglio 2021 ci troviamo di fronte ad un caso di violazione diretta dell’obbligo di non riconoscimento. Così come per il trasferimento dell’ambasciata statunitense nel 2017, questi atti saranno verosimilmente condannati dalla comunità internazionale, anche tramite gli organi politici dell’ONU, per aver violato le norme primarie che determinano l’illegalità dell’occupazione israeliana: divieto di uso della forza, principio di autodeterminazione dei popoli, diritti umani e principi di diritto umanitario. Gli Stati terzi potranno infatti ‘estendere’ l’obbligo di non riconoscimento ai suddetti atti di Serbia e Kosovo, rendendoli ‘null and void’, richiedere la cessazione dell’illecito (ovvero la revoca del riconoscimento precedentemente accordato), assicurazioni di non ripetizione e riparazione per lo Stato leso. Qualora Serbia o Kosovo siano portati dinanzi alla Corte Internazionale di Giustizia, si può presumere, alla luce del precedente caso sul Timor Orientale e, soprattutto, della presenza di chiare risoluzioni dell’ONU sul punto (ciò che, come si è dimostrato, non era avvenuto nel caso del Timor Orientale), che la Corte decida di pronunciarsi disapplicando il principio del Monetary Gold. Per quanto riguarda invece, il caso dei paesi arabi abbiamo concluso che, anche in presenza di violazione indiretta dell’obbligo di non riconoscimento (ovvero tramite trattato concernente il territorio palestinese), la responsabilità aggravata di EAU e Bahrein è ugualmente configurabile (ovviamente sempre qualora divengano chiari i termini dei nuovi accordi con Israele e da questi emerga un’applicazione incondizionata a tutti i territori sotto controllo israeliano). Per quanto riguarda la possibilità di contenzioso internazionale davanti alla CIG, la Corte potrebbe esprimersi sulle conseguenze derivanti dalla violazione dell’obbligo. Anche in questo caso, infatti, il principio del Monetary Gold verrebbe meno a causa del vigente obbligo di non riconoscimento sancito dalle Risoluzioni ONU sulla situazione in Palestina. Inoltre, la Corte potrebbe valutare il comportamento unilaterale e oggettivo dei paesi arabi nello stipulare gli accordi con Israele senza dover questionare la validità dei medesimi.
1 Comment
Il dotto intervento di Agnese Vitale è inficiato da un errore fondamentale nella sua premessa. Il CdS con le ris. 478/1980 e 2334/2016, e l’AG n. ES10/L.22 del 2017 ( a seguito dello spostamento dell”Ambasciata USA a Gerusalemme) condannano le modifiche unilaterali di status dei territori conquistati da Israele a seguito della guerra “dei sei giorni” del 1967, compresa Gerusalemme Est e ne intimano il non riconoscimento da parte dei paesi terzi. Non riguardano il territorio di Israele ad ovest della “linea verde” che da demarcazione armistiziale israelo-giordano del 1949, è di fatto riconosciuta da tempo come confine di Israele e non è oggetto di occupazione. (Così pure la CIG nel Parere del 2004, par.67 e 69). L’ambasciata USA è stata spostata a Gerusalemme ovest, parte di Israele dal 1949. La ris.AG del 2017 si limita a “regret” ( senza menzionarla) tale azione nel preambolo. Nella parte operativa l’AG “calls upon all States to refrain from the establishment of diplomatic missions in the Holy City of Jerusalem, pursuant to resolution 478 (1980)”. Una raccomandazione, quindi, che non assimila legalmente un simile passo ad una violazione del principio dell’inammissibilità dell’acquisto di territori con la forza, e come tale, in ipotesi, soggetto ad un obbligo di non riconoscimento. Quanto al recente stabilimento di relazioni e riconoscimenti tra Israele e vari paesi arabi, essi non implicano, per loro natura, alcun riconoscimento di territorio o confini. Anzi, politicamente, hanno evitato la ventilata annessione israeliana di parte della Cisgiordania, lungi dal riconoscerla. Suggerisco di documentarsi meglio sui fatti prima di lanciarsi ad elaborazioni giuridiche di dubbio fondamento. Un po’ di sano realismo anche da parte dei giuristi, specie se internazionalisti, non guasta.