“La disabilità è negli occhi di chi guarda” (e resta a guardare): lo iato tra previsioni normative e attuazione concreta in tema di educazione inclusiva nella prospettiva della Corte europea. Considerazioni a margine del caso G.L. c. Italia
Maura Marchegiani, Università per Stranieri di Perugia
1. A ridosso dell’inizio di un nuovo, atteso e particolarmente problematico anno scolastico, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha rivolto all’Italia un severo monito su una questione tanto urgente quanto sistematicamente irrisolta, relativa all’esigenza di garantire, in modo concreto ed effettivo, una educazione realmente inclusiva, qualificata e continuativa agli studenti in situazione di disabilità. Con una sentenza adottata il 10 settembre 2020, nel caso G. L. c. Italia, i giudici della Corte europea hanno infatti accertato, all’unanimità, la violazione, da parte dello Stato italiano, dell’art. 14 della Convenzione europea, che vieta ogni forma di trattamento discriminatorio, in combinato disposto con l’art. 2 del Protocollo 1, che assicura a sua volta il diritto all’istruzione (per un primo commento alla pronuncia, Castellaneta).
A proposito di disabilità, troppo spesso accade che le previsioni normative adottate dallo Stato italiano, in astratto perfettamente conformi agli obblighi internazionali e agli standard europei esistenti in materia, rimangano mere affermazioni di principio, senza ricevere concreta attuazione da parte delle amministrazioni a vario titolo e livello preposte, determinando di conseguenza un grave pregiudizio per gli individui appartenenti alle categorie più vulnerabili della società.
Questo è quanto accaduto anche nel caso sottoposto all’esame della Corte europea. La questione aveva in particolare ad oggetto le vicende di una bambina affetta da autismo non verbale, che si è vista completamente privata, per i primi due anni di scuola primaria, del sostegno e dell’assistenza specifica in orario di lezione, cui avrebbe invece avuto diritto di beneficiare, in virtù dell’art. 13 della legge quadro 104 del 5 febbraio 1992.
Le reiterate richieste avanzate dai genitori della bambina sono ripetutamente cadute nel vuoto, nel sostanziale silenzio delle autorità locali tenute all’attivazione delle misure di sostegno, mentre le istanze introdotte dagli stessi, in nome e per conto della loro figlia, presso il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania e, successivamente, presso il Consiglio di Stato, sono state rigettate. Secondo i giudici amministrativi infatti, le autorità locali, preposte per legge all’adozione delle misure intese a garantire alla bambina l’effettivo beneficio del sostegno scolastico, si erano trovate nell’impossibilità materiale di dare attuazione alle disposizioni normative contenute nella legge 104 e dunque non avrebbero potuto essere considerate responsabili di questo diniego, che era invece essenzialmente da imputarsi ad una generale riduzione delle risorse allocate dallo Stato e destinate a far fronte ad esigenze educative specifiche (si confrontino in proposito sentenza TAR Campania del 27 novembre 2012 e sentenza Consiglio di Stato 26 maggio 2015).
L’orientamento della Corte europea si è tuttavia mosso in una direzione completamente diversa. Pur prendendo atto delle difficoltà, degli oneri e delle risorse necessariamente limitate nell’organizzazione e nella gestione del servizio di istruzione, la Corte ha innanzitutto sottolineato il carattere fondamentale ed indispensabile del diritto all’istruzione in ogni società democratica (Velyo Velev c. Bulgaria, par. 33), diritto che peraltro, a differenza di altre prestazioni legate ai servizi pubblici, risulta direttamente tutelato e protetto dalla Convenzione stessa (G.L. c. Italia, par. 49). Nel riconoscere la necessità che ogni Stato provveda a garantire un equilibrio tra le esigenze educative degli individui soggetti alla propria giurisdizione e i mezzi a disposizione, la Corte ha accertato che l’Italia ha, nel caso di specie, determinato una violazione del diritto della bambina a ricevere un’educazione in condizione di uguaglianza con gli altri studenti.
2. Per giungere a questa conclusione, la Corte ha proceduto ad un’accurata ricostruzione delle caratteristiche, del contenuto e della portata del diritto all’istruzione ai sensi della Convenzione europea, attraverso il ricorso, come è peraltro sua abitudine, a tecniche interpretative intese a favorire un’armonizzazione intersistemica. L’obiettivo è quello di garantire, nella misura del possibile, una interpretazione delle norme convenzionali che tenga conto dell’esistenza e del contenuto di norme appartenenti a sistemi normativi estranei alla Convenzione, rilevanti per gli Stati parti e che possano contribuire a chiarire il significato e il tenore dell’obbligo rilevante nel caso di specie (si confrontino, in generale, Golder c. Regno Unito, par. 29; Melchers & Co. c. Germania; Al-Adsani c. Regno Unito, par. 55; Neulinger et Shuruk c. Svizzera, par. 131; Waite e Kennedy c. Germania; Bosphorus c. Irlanda, par. 150; Gasparini c. Italia e Belgio; M.S.S. c. Belgio e Grecia; Michaud c. Francia; Al-Dulimi c. Svizzera; Hassan c. Regno Unito). In questa prospettiva, la giurisprudenza della Corte risulta innanzitutto costellata di frequenti richiami al meccanismo di coordinamento tra norme riconducibile all’art. 31 par. 3 lett. c) della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati (con specifico riferimento all’art. 31 par. 3 lett. c) v. ancora Al-Adsani c. Regno Unito, par. 55; Bosphorus c. Irlanda, par. 150), di cui la Corte ha nel tempo proposto un’interpretazione articolata e a tratti problematica, che sembrerebbe oltrepassare le rigorose condizioni di applicazione proprie di questo criterio ermeneutico (si confrontino in proposito i lavori della Commissione di diritto internazionale su Fragmentation of International Law: Difficulties arising from the Diversification and Expansion of International Law, UN doc. A/CN.4/L.682 del 13 aprile 2006, specialmente par. 410. In giurisprudenza v., in particolare, WTO Panel in EC-Measures Affecting the Approval and Marketing of Biotech Products, 7 febbraio 2006, WT/DS291-293/INTERIM, specialmente par. 7.70-7.72). Nel richiamare, a fini interpretativi, altre regole di diritto internazionale, la Corte non si preoccupa invero di ricercare necessariamente un fondamento giuridico che ne giustifichi la rilevanza nel sistema della Convenzione europea. Questo dato emerge con particolare evidenza anche nella sentenza in commento, che contiene frequenti riferimenti al Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali, alla Convenzione per i diritti delle persone con disabilità, alla Carta sociale europea e ad altri strumenti adottati in seno al Consiglio d’Europa, prescindendo dall’individuazione di qualsivoglia base giuridica e limitandosi piuttosto ad affermare come si renda necessario «tenir compte de toute règle et de tout principe de droit international applicables aux relations entre les parties contractantes, et que la Convention doit autant que faire se peut s’interpréter de manière à se concilier avec les autres règles du droit international, dont elle fait partie intégrante» (G.L. c. Italia, par. 51. In questa medesima prospettiva, si confrontino anche Timichev c. Russia, par. 64; Catan et a. c. Moldavia e Russia, par. 136; Çam c. Turchia, par. 53; Konstantin Markin c. Russia, par. 126; Fabris c. Francia, par. 56). Questo atteggiamento induce a ritenere che la Corte reputi che l’esistenza e la rilevanza di norme, pur esterne al sistema convenzionale, finiscano in qualche modo per incidere inevitabilmente sul contenuto di alcune sue disposizioni, la cui interpretazione non può dunque prescindere dalla considerazione di un orizzonte normativo più ampio, in una logica di profonda e dinamica commistione intersistemica, che tenga costantemente conto dell’evoluzione del diritto internazionale ed europeo in materia di tutela dei diritti fondamentali.
3. Nella definizione e nell’interpretazione del diritto all’istruzione nel più ampio contesto del diritto internazionale, la Corte europea si è soffermata sull’importanza dei principi di universalità e di non discriminazione, che sono consacrati in molteplici strumenti normativi convenzionali e che, con particolare riferimento al tema del diritto all’istruzione delle persone con disabilità, promuovono una educazione di tipo inclusivo, fondata sull’uguaglianza di opportunità e sull’assenza di qualsiasi forma di discriminazione (si confrontino in particolare la Convenzione ONU sui diritti del fanciullo del 1989, la Dichiarazione mondiale sull’educazione per tutti del 1990, le Regole per le pari opportunità delle persone disabili del 1993, la Dichiarazione di Salamanca il Piano di Azione sui principi, le politiche e le pratiche in materia di educazione e di esigenze educative speciali del 1994, la Convenzione UNESCO sulla lotta contro la discriminazione nell’istruzione, del 14 dicembre 1960. Si confronti in proposito anche l’Obiettivo 4 dell’Agenda 2030 sullo sviluppo sostenibile, che considera il carattere inclusivo dell’insegnamento come un elemento essenziale per garantire un’istruzione di qualità, funzionale a realizzare una società egualitaria, pacifica e giusta). È proprio sulla nozione di educazione inclusiva, nozione dal contenuto molto ampio e in continua evoluzione (si confronti in proposito il General Comment No. 4 (2016) on the right to inclusive education, adottato dal Comitato sui diritti delle persone con disabilità il 25 novembre 2016), che si snoda il ragionamento della Corte europea nella definizione del caso G.L. c. Italia.
La progressiva affermazione della nozione di educazione inclusiva come contenuto del diritto all’istruzione è invero un’acquisizione piuttosto recente nel panorama internazionale. La prima norma internazionale giuridicamente vincolante a fare esplicito riferimento al carattere inclusivo dell’educazione come contenuto del più ampio obbligo per gli Stati di garantire il diritto all’istruzione è infatti l’art. 24 della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità del 2006 (in proposito, Arnardòttir, The right to inclusive education for children with disabilities-innovations in the CRPD, in Eide, Moller, Ziemele (eds), p. 197–227; Shaw, Inclusion or choice? Securing the right to inclusive education for all, in Sabatello, Schulze (eds), pp. 60–68). I lavori preparatori di questa Convenzione danno peraltro atto di una iniziale mancanza di convergenza, nel corso delle negoziazioni, circa l’eventualità di inserire un esplicito riferimento all’esistenza di un vero e proprio obbligo, in capo agli Stati, di garantire un sistema educativo di tipo inclusivo (si vedano in proposito le considerazioni di De Beco 2014, p. 263 ss.), che fu in effetti il risultato di una serie di pressioni esercitate in particolare da alcune organizzazioni non governative, che indussero a modificare le iniziali stesure dell’attuale art. 24, espungendo dal testo qualsivoglia riferimento alla possibilità per gli Stati di prevedere forme educative c.d. speciali, fondate sull’individuazione di percorsi educativi separati e di fatto segreganti (i lavori del Comitato ad hoc sono consultabili qui). La Corte europea ha in particolare ricostruito la portata dell’obbligo di garantire un sistema educativo di tipo inclusivo come corollario al diritto all’istruzione previsto dalla Convenzione europea, richiamando espressamente l’art. 24 della Convenzione ONU del 2006, che ha in effetti contribuito ad estendere considerevolmente il contenuto del diritto all’istruzione come diritto fondamentale (in argomento, Della Fina, Article 24, in Della Fina, Cera, Palmisano (eds), in particolare p. 444).
Ancorché la Convenzione del 2006 non ne fornisca una esplicita definizione, il concetto di diritto ad un’educazione inclusiva può essere descritto come «a process that transforms culture, policy and practice in all educational environments to accommodate the differing needs of individual students, together with a commitment to remove the barriers that impede that possibility. An inclusive approach involves strengthening the capacity of an education system to reach out to all learners» (General Comment No. 4 (2016), Article 24: Right to inclusive education, par. 11).
Accogliendo questa definizione, la Corte europea ha riconosciuto come il diritto ad un’educazione inclusiva si configuri come uno strumento fondamentale per rendere effettivo il godimento da parte delle persone con disabilità del diritto universale all’istruzione (Çam c. Turchia, par. 64), che rappresenta «an example of the indivisibility and interdependence of all human rights on account of its key role in the full and effective realization of other rights» (OHCHR (2013) Thematic study on the right of persons with disabilities to education, par. 9). Sulla base di queste premesse, la Corte europea ha ricostruito e riaffermato l’esistenza di un obbligo che graverebbe sugli Stati e che imporrebbe loro di predisporre e garantire un sistema di istruzione inclusivo, deducendo di conseguenza che «l’education inclusive est donc sans conteste une composante de la responsabilité internationale des États dans ce domaine» (G.L. c. Italia, par. 53; nella medesima prospettiva, si veda anche Enver Şahin c. Turchia, par. 62), in quanto implicitamente deducibile dal diritto fondamentale all’istruzione così come tutelato dal Protocollo 1, all’art. 2 alla Convenzione europea.
4. Il ragionamento della Corte europea prosegue poi con la constatazione che la condizione della bambina ricorrente sarebbe caratterizzata da una particolare vulnerabilità. La giurisprudenza di Strasburgo in tema di vulnerabilità è ricca, articolata e complessa: nonostante un ricorso crescente a questo concetto, la Corte non ha, ad oggi, provveduto a fornire una puntuale definizione della nozione di vulnerabilità, né a chiarire compiutamente i criteri e i parametri per stabilirne la ricorrenza, anche se una simile mancanza potrebbe ricondursi alla volontà di non cristallizzare un concetto che per sua natura non è statico, ma suscettibile di evolvere nel tempo e variare a seconda del contesto. La Corte ha in effetti identificato alcune categorie di soggetti che ha qualificato come vulnerabili, tra cui figurano senz’altro le vittime di trattamenti discriminatori in ragione della specifica condizione di disabilità (Glor c. Svizzera, par. 84, Alajos Kiss c. Ungheria, par. 42; Kiyutin c. Russia, par. 63; Guberina, c. Croazia, par. 73), cui si aggiunge, nel caso si tratti di minori, la necessità di garantire, in ogni circostanza, il rispetto del principio del superiore interesse del fanciullo. In quanto minore e, contestualmente, in condizione di disabilità, la bambina di Eboli è senza dubbio qualificabile come appartenente ad una categoria particolarmente vulnerabile. Da una simile qualificazione nel caso in oggetto, la Corte ha dedotto una serie di effetti sul piano giuridico, che contribuiscono, nel loro insieme, a sistematizzare e completare l’individuazione delle implicazioni, sul piano procedurale e sostanziale, che derivano dall’applicazione, da parte della Corte, della nozione di vulnerabilità.
Con particolare riguardo alla giurisprudenza relativa al divieto di discriminazione di cui all’art. 14 della Convenzione, la constatazione di una condizione di particolare vulnerabilità dei ricorrenti ha finito frequentemente per incidere sull’estensione del margine di apprezzamento in capo agli Stati (Kozak c. Polonia; Genderdoc-M c. Moldavia; X. c. Turchia;Kiyutin c. Russia; I.B. c. Grecia; Z.H. c. Ungheria).
Questo è quanto accaduto anche nel caso di specie: l’effetto giuridico principale che deriva dalla qualificazione della ricorrente come particolarmente vulnerabile consiste in una sensibile riduzione del margine di apprezzamento di cui godrebbe l’Italia nell’individuazione e nell’effettiva attuazione di misure volte a comprimere l’esercizio dei suoi diritti fondamentali, fermo restando il presupposto per cui «il appartient à la Cour de statuer en dernier ressort sur le respect des exigences de la Convention» (G.L. c. Italia, par. 54, nonché, Konstantin Markin c. Russia, par. 126). Strettamente connesso a questo primo aspetto, ancorché non necessariamente coincidente con esso, è un secondo ordine di conseguenze derivanti dalla qualificazione della ricorrente come appartenente ad una categoria particolarmente vulnerabile. Emerge dalla sentenza infatti che l’accertamento dell’esistenza di una condizione di vulnerabilità incide sul meccanismo di ponderazione cui lo Stato è tradizionalmente tenuto nel tentativo di realizzare un bilanciamento adeguato tra esigenze contrapposte, volte a garantire una speciale protezione ai soggetti vulnerabili, in considerazione delle loro specificità, senza tuttavia perdere di vista gli interessi della collettività. In tema di educazione inclusiva, la considerazione della condizione di vulnerabilità imporrebbe l’adozione di misure generali e particolari, di natura materiale o immateriale, che gli Stati sono tenuti a predisporre, tenendo in particolare considerazione la condizione di disabilità degli allievi coinvolti, la cui vulnerabilità non può essere ignorata (G.L. c. Italia, par. 63 e 64). Tra tali misure, rientrerebbe in particolare la previsione di specifici trattamenti diversificati, la cui mancata previsione potrebbe integrare la violazione del divieto di discriminazione (G.L. c. Italia, par. 52), proprio in considerazione del fatto che si tratta di misure positive, volte a sanare e correggere le eventuali diseguaglianze di partenza, come l’accesso effettivo a forme di assistenza specializzata, la cui mancata erogazione ha, nel caso di specie, condotto la Corte ad accertare la violazione della Convenzione, in considerazione dell’assenza di appropriate giustificazioni oggettive e ragionevoli (in proposito si veda anche Guberina, c. Croazia, par. 72).
L’accertamento dell’esistenza di una situazione di vulnerabilità ha invero condotto la Corte a delineare un ulteriore ordine di conseguenze, che rappresenta con ogni probabilità l’aspetto più significativo della sentenza in commento. A fronte delle giustificazioni del Governo italiano, che ha essenzialmente fondato la sua tesi difensiva sui tagli di bilancio che avevano di fatto determinato l’impossibilità di garantire alla minore un’assistenza specializzata, funzionale a promuovere la sua autonomia individuale, a migliorare le sue capacità di apprendimento, la sua vita relazionale e la sua integrazione scolastica e in tal modo a ridurre il rischio di marginalizzazione, la Corte ha obiettato affermando che eventuali restrizioni finanziarie avrebbero dovuto avere un impatto sull’offerta formativa della totalità degli studenti, piuttosto che gravare esclusivamente sugli alunni con disabilità.
La considerazione della vulnerabilità si traduce dunque, nelle pieghe del ragionamento della Corte, nell’individuazione di un vero e proprio obbligo, per gli Stati, di agire secondo un criterio di solidarietà e di equa ripartizione degli eventuali sacrifici connessi al calo delle risorse economiche, attraverso «une réduction de l’offre éducative répartie équitablement entre les élèves non handicapés et les élèves handicapés» (G.L. c. Italia, par. 68), circostanza questa che invero le autorità italiane non avevano minimamente preso in considerazione, né in ambito amministrativo, né in sede giudiziaria. In proposito, la Corte richiama un passaggio particolarmente suggestivo della Raccomandazione del Consiglio dei Ministri del Consiglio d’Europa del 5 aprile 2006, secondo cui «[d]onner aux personnes handicapées la possibilité de participer aux structures d’enseignement ordinaires est important non seulement pour elles, mais aussi pour les personnes non handicapées qui prendront ainsi conscience du handicap en tant qu’élément de la diversité humaine» (Ligne d’action n. 4: Éducation, par. 3.4.1).
5. La responsabilità dell’Italia ai sensi della Convenzione risiederebbe dunque, secondo la Corte, nel fatto che le autorità competenti non si siano adeguatamente adoperate per individuare soluzioni idonee a garantire alla ricorrente la regolare frequenza della scuola primaria in condizioni equivalenti, nella misura del possibile, a quelle di cui beneficiano gli altri studenti, così come previsto anche dall’ordinamento giuridico italiano (G.L. c. Italia, par. 70). Nella prospettiva della Corte, in sostanza, la disabilità della minore e dunque la sua condizione di particolare vulnerabilità avrebbe dovuto indurre le istituzioni coinvolte, a livello amministrativo e giudiziario, ad una «ripartizione dei sacrifici», dettati dai tagli finanziari, in modo proporzionale tra la generalità degli studenti, piuttosto che farne gravare le conseguenze unicamente sugli alunni con disabilità. Questa circostanza non è tuttavia stata in alcun modo presa in considerazione, tanto che la Corte ha rilevato l’esistenza di una discrasia profonda tra il tenore delle disposizioni normative, astrattamente considerate, da un lato e la loro inadeguata, incompleta e lacunosa applicazione in concreto, dall’altro lato. In linea di principio infatti, l’ordinamento giuridico italiano appare pienamente conforme al dettato delle norme internazionali a tutela del diritto all’istruzione, in considerazione della previsione di un sistema educativo altamente inclusivo, che garantisce, astrattamente, un elevatissimo livello di istruzione dei bambini con disabilità in seno al sistema scolastico ordinario, teoricamente equipaggiato a soddisfare le esigenze educative speciali nelle situazioni più delicate: la normativa prevede infatti la regolare integrazione dei minori con disabilità in età scolare nelle classi ordinarie delle scuole pubbliche, l’istituzione di servizi psico-pedagogici, la presenza in classe di qualificati insegnanti di sostegno con funzioni di coordinamento e collaborazione con il corpo docente, la presenza di ulteriori figure professionali specializzate al ricorrere di specifiche esigenze (si confrontino in proposito i puntuali riferimenti alla legge quadro 104 del 5 febbraio 1992, contenuti nei par. 17 e 18 della sentenza G.L. c. Italia). Ciononostante, nel caso di specie (così come peraltro avviene in molte, troppe situazioni), il trattamento discriminatorio nei confronti della bambina, in ragione della sua condizione di disabilità e dunque in palese violazione degli obblighi convenzionali, risiede proprio in una condotta fattuale, che si pone in contrasto con gli stessi orientamenti normativi e giurisprudenziali nazionali e che sarebbe essenzialmente stata determinata, secondo l’Italia, da una progressiva riduzione di risorse finanziarie destinate alle misure di sostegno (sul difficile equilibrio tra l’effettivo godimento dei diritti e le esigenze di bilancio, Pallante 2017; Amoroso 2017). Tale violazione si rende ancora più grave in considerazione del carattere prolungato della mancata erogazione del servizio e del contesto di riferimento, quello della scuola primaria, che corrisponde al momento evolutivo in cui si pongono le basi dell’istruzione e dell’integrazione relazionale e sociale (G.L. c. Italia, par. 71). Nell’osservare che «les éventuelles restrictions budgétaires doivent impacter l’offre de formation de manière équivalente», attraverso un’equa ripartizione dei sacrifici tra la generalità degli studenti, senza ricadere unicamente sugli studenti in condizione di disabilità (G.L. c. Italia, par. 68), la Corte ha insistito su quei concetti di solidarietà e condivisione degli oneri e dei limiti derivanti dai tagli di bilancio, che le istituzioni coinvolte non hanno minimamente preso in considerazione nel caso di specie e che trovano invece, proprio nell’ordinamento giuridico italiano, puntuali riferimenti normativi e giurisprudenziali (si confrontino in particolare Cassazione, sentenza n. 25011 del 25 novembre 2014; sentenza n. 9966 del 20 aprile 2017; sentenza n. 25101 del 8 ottobre 2019).
6. La vicenda che ha dato origine al caso in commento racconta purtroppo una storia comune a tanti studenti, a tante persone, a tante famiglie, riaccendendo i riflettori sul divario che esiste in Italia tra l’affermazione di precetti e principi sul piano astratto e la concreta attuazione dei diritti nella realtà dei fatti. In tema di disabilità, questo iato risulta particolarmente grave, in quanto impone ad individui, tra i più fragili e vulnerabili della società, di farsi carico ogni giorno di battaglie dolorose, nel tentativo di vedersi riconosciuti diritti che troppo spesso restano solo mere affermazioni di principio.
Nel suo General Comment No 4, il Comitato per i diritti delle persone con disabilità ha osservato come «the education of persons with disabilities too often focuses on a deficit approach, on their actual or perceived impairment and on limiting opportunities to pre-defined and negative assumptions of their potential. States parties must support the creation of opportunities to build on the unique strengths and talents of each individual with a disability» (par. 16).
La sentenza della Corte europea giunge in un momento delicatissimo: a ridosso della riapertura dell’anno scolastico, che da mesi si preannunciava particolarmente complesso e travagliato, sono state attivate procedure per l’immissione in ruolo di poco più di ventimila unità di personale dedicato al sostegno, a fronte di un’esigenza di circa ottantamila cattedre prive di titolari. Sono dunquecirca sessantamila i posti per il sostegno da assegnare in via provvisoria o attraverso supplenze, da ricoprire anche attraverso l’eventuale il ricorso a personale non specializzato (dati e fonti qui). Le esigenze degli studenti con disabilità che, trovandosi in una condizione di particolare vulnerabilità e dunque essendo titolari di specifiche tutele, rischiano dunque ancora una volta di non essere adeguatamente considerate, per giunta in un momento storico in cui l’assistenza, l’inclusione, l’integrazione delle persone più vulnerabili rappresenta una questione di “emergenza nell’emergenza”.
Risuonano allora come particolarmente significative, in questo contesto, le parole pronunciate dalla giudice statunitense Ruth Bader Ginsburg, recentemente scomparsa, «it is important to remember that law is not some kind of abstract exercise. It affects real people». Come tale, ogni norma, per sua natura generale ed astratta, deve poter tradursi in operante regola di azione, proprio al fine di realizzare quel principio di effettività cui il diritto dovrebbe sempre ispirarsi e aspirare.
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