Alcune questioni dell’emergenza COVID-19 in Italia in un’ottica di International Disaster Law (Parte II)
Giulio Bartolini, Università Roma Tre, Responsabile Jean Monnet Project ‘Disseminating Disaster Law for Europe’
Oltre alle questioni affrontate nel precedente contributo (v. qui) relative agli obblighi di prevenzione/preparazione alle pandemie e all’eventuale obbligo di assistenza per l’Italia, l’emergenza COVID-19 ha altresì attirato l’interesse dell’opinione pubblica e della stampa italiana rispetto a due ulteriori questioni, relative all’impiego di medici stranieri nell’emergenza e alle polemiche connesse all’invio di personale militare di soccorso da parte della Russia, che presentano anche dei rilievi giuridici, qui di seguito affrontati.
L’impiego di medici stranieri in Italia
Come ampiamente riportato numerosi sono stati gli interventi di personale sanitario straniero in Italia. Particolare copertura mediatica ha avuto la vicenda della c.d. Brigata Henry Reeve composta da personale sanitario cubano (qui e qui), parte di una più vasta risposta che ha visto coinvolti teams sanitari dell’Albania (e qui), Germania (qui), Norvegia e Romania, Polonia, Russia, Ucraina, la prospettata partecipazione di medici somali, oltre alla risposta di personale straniero al bando straordinario di assunzioni della Regione Emilia-Romagna, rispetto al quale vi è stato interesse di personale dell’Albania, Pakistan, Venezuela, Turchia, Ucraina, Norvegia e Regno Unito (qui).
Questa tematica solleva problemi giuridici comunemente ricorrenti nell’ambito dell’IDL ovvero, da un lato, il riconoscimento delle qualifiche professionali per il personale sanitario straniero, dato che l’esercizio di queste attività è normalmente soggetto a rigide regolamentazioni per motivi di tutela della salute pubblica e, dall’altro, la qualità delle prestazioni offerte, dato che in molti contesti emergenziali si sono riscontrate attività inferiori a comuni standard terapeutici (vedi il rapporto della Federazione internazionale di Croce rossa (IFRC/OMS).
Non stupisce quindi che, recentemente, l’OMS abbia varato un programma di certificazione e accreditamento per il personale che vuole operare in missioni di soccorso, denominato Emergency Medical Teams, basato su standard tecnici qualitativi elaborati dall’OMS (qui e qui) e verificati tramite un sistema di peer-review (v. Bookmiller). L’accreditamento non garantisce però un automatico superamento delle condizioni giuridiche per l’operatività di personale sanitario straniero nello Stato assistito, anche se il disporre di una certificazione OMS può ovviamente facilitare questi passaggi, garantendo lo Stato colpito dal disastro circa la qualità delle prestazioni irrogate.
Ugualmente, in ambito UE, si è registrata la creazione del Corpo medico europeo: con la Decisione di esecuzione (UE) 2018/142 si è disposta l’integrazione della componente sanitaria nell’ambito del Meccanismo, compreso nello European Civil Protection Pool che racchiude il personale e i mezzi di risposta pre-impegnati volontariamente dagli Stati membri al fine di beneficiare degli incentivi economici previsti, sulla base di un sistema di registrazione e certificazione qualitativa che, tra l’altro, richiama le menzionate linee-guida OMS quale standard di riferimento, così da attribuire valenza più stringente a questi standard tecnici originariamente non vincolanti. Team medici connessi allo Europen Medical Corps, provenienti dalla Romania e dalla Norvegia, sono stati effettivamente impiegati a Milano e Bergamo nell’ambito dell’emergenza COVID-19.
Nonostante il contesto emergenziale, anche in Italia si sono riproposti i problemi giuridici connessi all’impiego di personale medico straniero, dato il regime regolamentare che connatura l’esercizio delle attività sanitarie in Italia, dove l’operare in assenza della qualifica professionale (o del suo riconoscimento, per il personale straniero) integra una fattispecie di reato, punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e una multa da euro 10.000 a 50.000 (art. 348 codice penale).
La regolamentazione di questa problematica risente ovviamente dell’intrecciarsi della normativa nazionale con quella europea. Difatti, sulla scorta del decreto-legislativo 206/2007, che recepisce la Direttiva 2005/36, si determina un regime di vantaggio per i cittadini dell’UE che abbiano acquisito qualifiche professionali in uno Stato membro (o similmente per i cittadini della Confederazione elvetica o dell’Area SEE che abbiano acquisito i loro titoli in uno di detti Stati). In questo caso si prevede una richiesta di notifica al Ministero della salute circa l’intenzione di svolgere l’attività, corredata dalla documentazione rilevante, come le certificazioni delle autorità dello Stato di origine dove si attesta che il prestatore di servizi è legalmente stabilito in quello Stato e lì esercita detta professione, l’attestato di conformità alla Direttiva 2005/36 dei titoli di cui l’interessato intende avvalersi, ecc. La presentazione di queste informazioni deve avvenire almeno un mese prima dell’inizio della prestazione dei servizi, onde permettere al Ministero di verificarle ed eventualmente disporre misure compensative: tuttavia vi è la possibilità di derogare al requisito temporale in «caso di urgenza», soluzione che si attaglia ai contesti emergenziali. Molto più complessa si presenta la procedura per titoli professionali conseguiti in Stati non UE o da cittadini non europei, con la necessità della presentazione di molteplici documenti che saranno poi oggetto di validazione puntuale da parte del Ministero della salute, con un espresso riconoscimento nell’arco di quattro mesi, senza che si prevedano procedure facilitate in caso di urgenza. Si può infine sottolineare che le previsioni connesse alla tessera professionale europea, utilizzabile per la professione infermieristica, di cui al decreto-legislativo 28 gennaio 2016 n. 15 non risultano ugualmente particolarmente utili in situazioni di emergenza.
Le difficoltà giuridiche che si potevano presentare in Italia per l’operatività di personale medico straniero erano già state evidenziate nel rapporto ‘Il quadro giuridico per la risposta internazionale ai disastri in Italia’ (2015), realizzato al fine di testare l’adeguatezza del nostro sistema normativo-istituzionale rispetto ai casi di assistenza internazionale sulla scorta dei parametri forniti dalle IDRL Guidelines. Già all’epoca, fra le 20 raccomandazioni proposte, si sottolineava che «[i]l riconoscimento delle qualifiche UE ottenute da cittadini non-UE potrebbe essere eccezionalmente accettato, durante la risposta ai disastri, alle stesse condizioni applicabili ai cittadini UE con qualifica UE. Le autorità italiane potrebbero altresì considerare la facilitazione, procedurale e/o sostanziale, del riconoscimento delle qualifiche non-UE». Questa raccomandazione non aveva però trovato seguito, nonostante che anche in altri disastri già si fossero riscontrate difficoltà nel permettere l’operatività di personale sanitario straniero: al tempo dell’emergenza ad Haiti, per permettere al personale medico brasiliano imbarcato nella nave Cavour di operare, era stato necessario ricorrere all’Ordinanza n. 3849 del Presidente del Consiglio dei ministri dove si prevedeva che «il personale sanitario straniero può erogare prestazioni sanitarie a favore della popolazione di Haiti nelle strutture collocate su navi militari italiane in deroga all’art. 100 del regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265».
Era quindi evidente che l’ordinamento italiano avrebbe già dovuto predeterminare le procedure per facilitare l’operare di personale sanitario straniero in caso di disastro. Nell’ambito dell’emergenza COVID-19 è stato quindi necessario ricorrere a soluzioni ad hoc, realizzate per il tramite del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, dove si è previsto all’art. 13 «l’esercizio temporaneo di qualifiche professionali sanitarie ai professionisti che intendono esercitare sul territorio nazionale una professione sanitaria conseguita all’estero regolata da specifiche direttive dell’Unione europea» per il tramite di una «istanza corredata di un certificato di iscrizione all’albo del Paese di provenienza alle regioni e Province autonome, che possono procedere al reclutamento temporaneo di tali professionisti».
Sebbene tale dettato normativo non risulti particolarmente lineare, questa soluzione risulta applicabile sia al personale che voglia prestare la sua attività volontariamente sia in caso di una delle forme semestrali di impiego remunerato previste nello stesso decreto-legge, tramite speciali incarichi di lavoro autonomo ovvero assunzioni alle dipendenze della pubblica amministrazione. In questo ultimo caso, come sottolineato da alcuni osservatori, il personale sanitario straniero risultava comunque assoggettato alle limitazioni di cui all’art. 38 del decreto-legislativo 165/2001, secondo cui questa possibilità è limitata ai cittadini italiani e dell’UE, ai cittadini extra UE lungo-soggiornanti, ai titolari di protezione internazionale e ai familiari di cittadini dell’UE. Conseguentemente, in sede di conversione del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, per il tramite della legge 24 aprile 2020, n. 27, si è disposta altresì, attraverso il par. 1 bis introdotto nell’art. 13, una deroga al predetto art. 38 del decreto-legislativo 165/2001, onde garantire questa possibilità «a tutti i cittadini di Paesi non appartenenti all’Unione europea, titolari di un permesso di soggiorno che consente di lavorare», così da ampliare la platea del personale sanitario straniero da cui attingere ed evitare discriminazioni.
L’emergenza COVID-19 ha quindi determinato una celere semplificazione dei requisiti per il riconoscimento delle qualifiche professionali. Sarà però opportuno valutare, per una futura ottica sistemica, la congruità delle scelte operate. Se il regime derogatorio odierno si basa, sostanzialmente, sulla semplice iscrizione del personale sanitario straniero all’albo del rispettivo Stato di origine, altre esigenze potrebbero essere prese in considerazione, come il livello qualitativo nell’assistenza, che può sensibilmente variare.
Se risulta ovviamente difficile limitare una possibilità di intervento solo alle squadre certificate OMS, che pure hanno operato in queste settimane in Italia, vista la novità di questa iniziativa, si potrebbe ricorrere alle soluzioni ipotizzate in strumenti di IDL, come il Model Act elaborato dall’IFRC e dall’Office for the Coordination of Humanitarian Affairs delle Nazioni Unite (OCHA) per le IDRL Guidelines. In tale caso si potrebbe predefinire periodicamente una lista di Stati che, esclusivamente per il periodo dell’emergenza, godrebbero di un automatico riconoscimento delle qualifiche professionali per il personale sanitario che lì normalmente opera, così da creare un minimo di contemperamento fra esigenze di celerità e definizione di parametri qualitativi.
Il personale militare di soccorso della Russia
Fra il sostegno internazionale di cui ha beneficiato l’Italia una certa attenzione mediatica ha sollevato l’impiego di personale militare di soccorso della Russia. La missione era composta da 104 unità di personale, indicato nella nota congiunta degli Esteri e della Difesa come operatori sanitari dei reparti CBRN, bonificatori e altro personale di assistenza e interpretariato, giunto a Pratica di Mare con un imponente ponte aereo militare agli inizi di marzo, assieme ai mezzi di trasporto e materiale poi dispiegato in Lombardia, seguito da altri voli (qui). Come noto l’attenzione si è concentrata su alcuni dubbi sollevati da quotidiani nazionali circa l’effettiva composizione della missione, stanti gli ingenti asset militari impiegati e i timori che personale dei servizi segreti russi potesse essere coinvolto (qui, qui, qui), e sulla richiesta della Russia di rimborso dei costi (qui, qui e qui).
Nell’ambito dell’IDL, la partecipazione di personale militare straniero in operazioni di soccorso, sebbene ovviamente possibile, non è indifferente. Difatti, specie da parte degli operatori civili e delle organizzazioni umanitarie, l’attenzione è rivolta alle criticità che la presenza di personale militare straniero può determinare, specie in relazione alla compressione del c.d. spazio umanitario, ai maggiori costi ipotizzati per l’impiego di questa componente o al perseguimento di finalità non strettamente umanitarie.
Il tema è trattato dalle c.d. Oslo Guidelines on
the Use of Foreign Military and Civil defence Assets in Disaster Relief, realizzate da OCHA nel 1994, poi riviste nel 2007, tramite un approccio cooperativo ed informale nella sua stesura, derivante dalla collaborazione di Stati, Organizzazioni internazionali, ONG, IFRC, Comitato internazionale della Croce rossa e accademici. Le Oslo Guidelines si basano su un assunto basilare, ovvero che la partecipazione di personale militare straniero sia informato ad un principio di last resort, in ragione di uno «humanitarian gap» e in carenza di alternative civili comparabili. Sebbene le Oslo Guidelines abbiano come principale finalità quella di essere utilizzate per definire le modalità di utilizzo di asset militari stranieri in favore dello Stato colpito dal disastro da parte delle agenzie delle Nazioni Unite, le stesse linee-guida ne raccomandano l’uso da parte dei «decision-makers in Member States and regional organizations when considering the use of military and civil defence assets to provide assistance to civilian populations in natural disasters». Queste linee-guida rappresentano il documento di riferimento in materia e l’UE le ha richiamate nel processo decisionale circa l’eventuale impiego di asset militari in relazione al Meccanismo.
Rispetto al contesto italiano, è ovvio che le Oslo Guidelines non abbiano valenza vincolante, ma la loro presenza quale parametro di riferimento internazionale e i principi largamente condivisi nell’ambito della risposta alle emergenze che sono inclusi nel documento sicuramente testimoniano come queste soluzioni non siano totalmente indifferenti, come poi confermato dai puntuali dibattiti che si sono sviluppati nel caso concreto italiano.
Un ulteriore oggetto di polemica è risultata la copertura dei costi di questa missione, visto che articoli di stampa contestavano le apparenti richieste della Russia rispetto ai costi sostenuti, qualificati, solo per il trasposto dell’ingente dispositivo, in almeno mezzo milione di Euro (ad esempio qui, qui e qui). Nell’ambito dell’IDL non sussistono principi univoci quanto alla gestione dei costi del personale internazionale di soccorso e, limitandosi alla cooperazione inter-statale, si possono registrare varie soluzioni, ovvero la copertura dei costi interamente a carico dello Stato che presta assistenza oppure di quello che la riceve o soluzioni intermedie (per i rilevanti strumenti vedi qui).
Nel caso della cooperazione in oggetto, sebbene si sia ufficialmente indicato che la missione «non è stata gestita direttamente dal ministero degli Affari Esteri, bensì è frutto di un accordo raggiunto tra i rispettivi vertici politici di governo, italiano e russo» (qui e qui), si potrebbe ricordare che sussiste fra Italia e Federazione Russa un Accordo di cooperazione nel campo della protezione civile, in materia di previsione e di prevenzione dei rischi maggiori e di assistenza reciproca in caso di catastrofi naturali o tecnologiche, concluso nel luglio 1993 e indicato in vigore dal 14 maggio 1998, come comunicato in Gazzetta Ufficiale n. 135 del 12 giugno 1998. La finalità di questo trattato sembra ben attagliarsi alla situazione in oggetto dato che nelle situazioni di catastrofe naturale rientrano anche le situazioni in cui lo «hazard» è di natura biologica, come nel caso del COVID-19. Secondo l’art. 9 del trattato in oggetto «[i] costi dell’assistenza fornita dalle squadre di soccorso della Parte offerente […] non verranno assunti dalla Parte richiedente», salvo quanto previsto all’art. 9.2 che richiama l’art. 4, dove si specifica che le spese relative al sostentamento delle squadre di soccorso, nonché il normale rifornimento del loro equipaggiamento, saranno assicurate dalla Parte richiedente. Il dettato, e la divisione dei costi, era piuttosto lineare e risulta quindi inusuale che questo trattato, tuttora in vigore, anche se forse poco noto, non sia mai stato menzionato nel dibattito odierno, e meno si comprende su quali basi il trattato sarebbe stato superato da un «successivo accordo fra i rispettivi vertici di governo», come indicato da fonti governative (qui e qui).
Una chiosa finale
I temi trattati nei due contributi, sebbene ovviamente fortemente eterogenei stante l’agenda dettata principalmente dal dibattito mediatico, possono quindi confermare come i disastri siano in grado di sollevare molteplici questioni, atte a richiedere un’adeguata attenzione da parte delle autorità rilevanti rispetto a diversi aspetti, con una necessaria azione a livello nazionale e sub-nazionale che necessariamente coinvolge numerosi aspetti settoriali. In questi ambiti, la componente giuridica non può essere la soluzione definitiva ai problemi presenti, ma è sicuramente una parte integrante rispetto ai numerosi sforzi che devono essere perseguiti per la protezione delle vittime e delle comunità colpite.
È quindi auspicabile che si possa registrare una sempre maggiore attenzione rispetto a questi temi nell’agenda istituzionale, politica e altresì giuridica, specie perché occorre considerare come l’insorgere di disastri, e in specie la loro magnitudo, deriva non soltanto dai rischi che possono manifestarsi, ma altresì dalla loro combinazione con le «conditions of exposure, vulnerability and capacity» presenti nelle comunità colpite (vedi la definizione di disastro dell’Open-ended intergovernmental expert working group on indicators and terminology relating to disaster risk reduction, accolta dalla Risoluzione 71/276 (2017) dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite). La stessa emergenza COVID-19, come attestato dal diverso impatto che già si rileva fra gli Stati, sta nuovamente a dimostrare come le conseguenze di un medesimo rischio, in questo caso biologico, possono essere significativamente diverse in ragione del contesto complessivo in cui si presentano, dove anche la componente giuridica può avere un ruolo rispetto alla variabile della «capacity» dei vari Stati nel fare fronte a questi eventi e nel determinarne l’esito finale.
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