Quale quantitative easing e quale Unione europea dopo la sentenza del 5 maggio?
Susanna Maria Cafaro, Università del Salento
Così percossa, attonita
La terra al nunzio sta (A. Manzoni, Il cinque maggio)
La Corte Costituzionale tedesca si pronuncia con sentenza del 5 maggio 2020 a conclusione del noto caso Weiss che aveva dato luogo a sentenza della Corte di Giustizia su rinvio pregiudiziale della stessa Corte Costituzionale, nel dicembre 2018. L’iniziativa partiva, nelle quattro cause riunite, da un numero sorprendentemente alto di ricorrenti concordi nel ritenere ultra vires il programma di acquisto Public Sector Purchase Programme (‘PSPP’) della Banca centrale europea, uno dei quattro programmi in cui si sostanzia il cd quantitative easing, quello specificamente indirizzato all’acquisto di titoli di debito pubblici.
I ricorsi erano diretti sostanzialmente contro l’acquiescenza a tali statuizioni degli organi di governo tedeschi in sede europea, nonché contro ogni attività interna che vi desse seguito (dunque specificamente per il tramite della Bundesbank).
La sentenza Weiss della Corte di Giustizia
Nel caso Weiss, la Corte di Giustizia era stata chiamata a pronunciarsi su una questione scottante – e non priva di ambiguità nei trattati – che aveva già avuto modo di trattare da differenti prospettive nei precedenti casi Pringle e Gauweiler: il confine tra politica monetaria e politica economica e la “intromissione” dell’istituto di emissione europeo in quest’ultimo campo. La sentenza Weiss conduce alle sue logiche conseguenze una premessa già posta nel summenzionato caso Gauweiler (par. 52) e nel caso Pringle (par. 56): la politica monetaria è suscettibile di produrre effetti indiretti inquadrabili nell’ambito della politica economica. (Ovvio, direte voi..)
Dopo aver ripreso i principi in base ai quali essa riteneva soddisfatto l’obbligo di motivazione della decisione della BCE 2015/774, in particolare ai punti da 31 a 33, la Corte si spingeva un passo più in là – al punto 50 – sostenendovi che «è importante rilevare che il Trattato FUE non contiene alcuna definizione precisa della politica monetaria, ma definisce al tempo stesso gli obiettivi di tale politica e i mezzi di cui dispone il SEBC per attuarla» e, ancora, al punto 53 «[r]isulta dalla giurisprudenza della Corte che, al fine di stabilire se una misura rientri nella politica monetaria, occorre fare riferimento principalmente agli obiettivi di questa misura. Sono altresì rilevanti i mezzi che tale misura mette in campo per raggiungere detti obiettivi». Infine, se è vero che «gli autori dei Trattati hanno compiuto la scelta di definire l’obiettivo principale della politica monetaria dell’Unione, ossia il mantenimento della stabilità dei prezzi, in maniera generale e astratta, senza determinare con precisione il modo in cui tale obiettivo doveva essere concretizzato sul piano quantitativo» (punto 55), è anche vero che questo compito spetta in prima battuta alla BCE, a cui peraltro il Trattato attribuisce, in subordine alla stabilità dei prezzi, l’obiettivo di sostenere le politiche economiche generali nell’Unione (art. 127.1 TFUE).
Tali effetti, tuttavia, non sono meri accadimenti esterni alla ratio dell’operare della banca, possono essere «prevedibili» e «scientemente accettati» (così al par. 63) e possono esser perfino ovvi, giacché, come si precisa nel paragrafo successivo «occorre ricordare che la gestione della politica monetaria implica in permanenza interventi sui tassi di interesse e sulle condizioni di rifinanziamento delle banche, il che ha necessariamente delle conseguenze sulle condizioni di finanziamento del deficit pubblico degli Stati membri», di conseguenza, come si precisa al par. 66, «al fine di esercitare un influsso sui tassi di inflazione, il SEBC è necessariamente portato ad adottare misure che hanno determinati effetti sull’economia reale».
E quindi la Banca, il cui obiettivo è garantire la stabilità dei prezzi e, fatto salvo questo, sostenere le politiche economiche generali nell’Unione (art. 127.1 TFUE), può benissimo contemplare nel proprio orizzonte tanto l’obiettivo principale quanto quello subordinato, i quali si sostengono a vicenda. Non solo, se così non fosse, si impedirebbe al Sistema europeo di banche centrali il perseguimento dell’obiettivo primario ogni qualvolta vi fossero effetti prevedibili sull’economia reale (cioè sempre).
Per quanto il principio di proporzionalità venisse in rilievo, al par. 72, nel successivo vi si leggeva però che «…poiché il SEBC è chiamato, quando elabora e attua un programma di operazioni di open market quale quello previsto nella decisione 2015/774, a procedere a scelte di natura tecnica e ad effettuare previsioni e valutazioni complesse, occorre riconoscergli, in tale contesto, un ampio potere discrezionale». Ed è proprio in questo passaggio (peraltro fondato su indirizzo giurisprudenziale tutt’altro che nuovo), che, come vedremo, la Corte Costituzionale tedesca vedrà una falla nel sistema giurisdizionale.
Questa giurisprudenza legittima un filone di comunicazione e di intervento della BCE chiarissimo che mette in correlazione diretta la stabilità dei prezzi con la stabilità finanziaria e arriva a teorizzare il salvataggio della zona euro e dunque degli Stati che ne fanno parte come precondizione per la stabilità dell’euro stesso. Dunque, la politica monetaria, intesa come la politica che un istituto di emissione persegue attraverso gli strumenti che gli sono propri, si allarga ad includere interventi nell’economia che hanno un raggio d’azione ed una finalità ben più ampi. Né in questo la BCE si discosta da ciò che altre autorevoli banche centrali fanno in tempi di crisi, da esse si differenzia semmai per la difficoltà di fondare tali interventi su un mandato altrettanto chiaro.
La valutazione della Corte costituzionale tedesca nel merito del caso concreto
Una volta pronunciatasi la Corte di Giustizia, secondo il normale funzionamento del rinvio pregiudiziale, il giudice che ha operato il rinvio applica al caso concreto il diritto europeo così interpretato. Tuttavia, la Corte costituzionale tedesca, che già nell’ordinanza di rimessione non aveva esitato a prendere posizione riguardo alle risposte che essa avrebbe dato ai quesiti che sottoponeva, non accoglie serenamente le indicazioni, ma le sottopone ad un vaglio che mette sotto scrutinio tanto la BCE – già accusata di agire ultra vires – quanto la stessa Corte di giustizia che sarebbe andata essa stessa ultra vires difendendone l’operato (per alcuni primi commenti, si vedano Poiares Maduro, Avbelj e Wilkinson). Per i ricorrenti nella causa principale, al di là delle limitate implicazioni pratiche della pronuncia, è una vittoria morale.
Proviamo ora a smontare e ricostruire il ragionamento del Bundesverfassungsgericht per comprendere come dal caso concreto abbia tratto delle conseguenze rilevantissime cha la portano a mettere in discussione una serie di assunti all’interno del sistema europeo di checks and balances. Si tratta di un precedente che – seppure non necessariamente destinato ad un impatto immediato – è atto a generare pericolose onde lunghe.
Punto nodale della decisione è la valutazione della legittimità dell’intervento della BCE ed il suo impatto di politica economica alla luce del principio di proporzionalità. Le misure adottate dalla BCE potrebbero o non potrebbero essere sproporzionate, se ne evidenziano i rischi e la necessità di limitarli agendo entro precisi limiti. Tuttavia, una serie di conseguenze sulla politica economica del PSPP sono minuziosamente elencate e quello che alla Corte tedesca appare grave è un inadeguato o lacunoso bilanciamento di rischi, costi e benefici, un bilanciamento che andava basato appunto sulla proporzionalità. «It is not ascertainable that any such balancing was conducted, neither when the programme was first launched nor at a any point during its implementation; it is therefore not possible to review whether it was still proportionate to tolerate the economic and social policy effects of the PSPP, problematic as they may be in respect of the order of competences, or, possibly, at what point they have become disproportionate. Neither the ECB’s press releases nor other public statements by ECB officials hint at any such balancing having taken place» (par. 176).
Come si chiarisce successivamente, in assenza del bilanciamento o della visibilità dello stesso, la BCE eccede il suo mandato di politica monetaria. E, tuttavia, se ne deduce che tale mandato richiede approfondite valutazioni di politica economica e sociale. La sentenza non condanna quindi la BCE per il suo operato, quanto per l’esistenza di lacune gravi nel suo dovere di spiegarsi.
Il vero bersaglio è tuttavia la Corte di Giustizia, che tali lacune ha tollerato, limitandosi a ricercare errori manifesti nell’operato della BCE, (Weiss, paras. 56, 78, 91) e attività manifestamente sproporzionate rispetto agli obiettivi (Weiss, paras. 79, 81, 92). Troppo poco per la Corte costituzionale, che lo ritiene un approccio che lascia mano libera alla BCE nel determinare da sé i confini delle proprie competenze (par. 156). Dalla Corte di Giustizia, baluardo della legalità del sistema ed interprete qualificata del suo diritto è legittimo – si legge tra le righe – aspettarsi di più. Ed una sentenza che ne mette per la prima volta in discussione una pronuncia interpretativa per violazione di principi generali e garanzie democratiche appare un vero e proprio schiaffo. La Corte costituzionale giunge ad evidenziare l’erosione della sovranità statale in materia di politica economica – a dispetto della chiara lettera del trattato che ne fa una loro competenza – frutto dell’acquiescenza della Corte all’operato della BCE, e non perde occasione di ricordare che sono ancora gli Stati i Signori del Trattato.
Ma cosa vuol dire che la Corte di Giustizia, giudice europeo delle leggi, può sbagliare? E cosa vuol dire che lo stesso giudice a quo nel giudizio post rinvio possa rilevarne l’errore? La conseguenza è presto detta: la parte della sentenza in cui la Corte di Giustizia ha violato il proprio mandato (art.19.1 TUE)) è ultra vires, non è coperta dalla legge di ratifica e, dunque, non è vincolante «at least in relation to Germany, these decisions lack the minimum of democratic legitimation» (par. 112). Siamo quindi ben oltre la dottrina dei controlimiti “alla tedesca” che, secondo costante giurisprudenza ha portato la Suprema Corte tedesca a verificare la compatibilità della propria costituzione con i Trattati europei ed il diritto che ne deriva fondandosi sul “contenuto democratico fondamentale” che il processo di integrazione europea è tenuto a garantire, perché in questo caso, non è oggetto del vaglio costituzionale un trattato o un atto, neppure la decisione PSPP di cui si tratta, ma un oggetto più ampio: la legittimità della decisione come interpretata – lacunosamente – dalla Corte.
Coerentemente, il richiamo insistente operato nel par. 158 e ss. dalla Corte Costituzionale tedesca ai principi democratici eleva al rango di garanzie democratiche il principio di attribuzione, il principio di proporzionalità e la ripartizione di competenze. La distinzione, nel caso pratico, tra politica economica e politica monetaria, per quanto artificiosa (e anche un po’ contradditoria nel testo della sentenza) diventa paradigmatica di un tentativo surrettizio di forzare il processo di integrazione europea al di là di quanto democraticamente accettato dagli Stati all’atto della ratifica. L’agenda europea, l’Integrationsprogramm, ci dice la Corte costituzionale tedesca, non può essere realizzata per sentenza o per via di prassi (par. 158)
Di fronte a simili questioni, sembra persino poca cosa il rischio di impatto sul risparmio o sui prezzi delle case e altre possibili conseguenze elencate nel par. 139: è, infatti, in gioco la democraticità del processo di integrazione europea, la tenuta del rinvio pregiudiziale come strumento di cooperazione tra le corti e la supremazia del diritto europeo.
Due le conseguenze dirette della pronuncia. La prima: data la mancanza della BCE nel giustificare la proporzionalità del programma PSPP, il Governo ed il Parlamento tedesco potrebbero prendere l’iniziativa di assicurarsi che essa svolga un proportionality assessment.
La seconda, consequenziale: a seguito di un periodo transitorio di tre mesi la Bundesbank cesserebbe di contribuire all’attuazione dei programmi di quantitative easing già deliberati o ad ulteriori decisioni di acquisto di titoli di debito pubblico, a meno che non ne sia comprensibilmente dimostrata la proporzionalità in relazione agli obiettivi di politica monetaria. Quindi, la Bundesbank potrebbe trovarsi davanti al dilemma se dare attuazione alla decisione dell’eurosistema di cui è parte integrante o alla propria Corte Costituzionale. E qualora scegliesse quest’ultima, dovrebbe la Commissione iniziare un ricorso per infrazione?
Difficile e anche discutibile che la BCE si presti ad un negoziato con la Germania, e perché poi non anche con gli altri Governi? Cosa ne sarebbe della sua indipendenza, che è stata, per inciso, la grande lezione della Germania all’Europa? Più probabile, per amore di quieto vivere, che gli atti vengano riadottati con un arricchimento di motivazione. Rimane comunque l’amarezza di vedere il dialogo tra Corti degenerare nell’invio di ultimatum.
Quali altre conseguenze?
Dice la Corte costituzionale tedesca che tutto questo ragionamento non riguarda le misure pertinenti alla crisi coronavirus e quindi sembrerebbe restarne fuori il Pandemic Emergency Purchase Program (PEPP). E, tuttavia, l’ombra di questa sentenza si allunga sul PEPP: come garantirne la proporzionalità? A seguito di quali valutazioni economiche e di impatto sociale da parte di un’istituzione che – per assurdo – si vuole al contempo tenere nei confini rigidi della politica monetaria? È il caso di ricordare che anche il quantitative easing nasceva dalla percezione emergenziale del rischio deflazione.
Di fatto, minando la credibilità della Corte di Giustizia, fulcro dell’ordinamento europeo, con questa pronuncia la Corte costituzionale tedesca indebolisce l’Unione e la sua capacità di rispondere alle emergenze. Peraltro, è proprio la gestione delle crisi, con l’esigenza di rapidità di reazione, che rischia di cadere più facilmente sotto la scure del duplice vaglio attribuzione/proporzionalità. L’ampiezza del ragionamento sviluppato nella decisione non esclude d’altronde che altre istituzioni e organi europei possano finire sotto il suo scrutinio per condotta ultra vires, come già la stessa Corte di Giustizia.
La sentenza, valida in diversi passaggi logici significativi e non priva di meriti, sembra mancare del filtro dell’opportunità politica, del bilanciamento tra principi astratti e minacce reali, responsabilità ineludibile di una Corte suprema. E tuttavia, se proprio volessimo trovarvi un risvolto positivo, sarebbe nella ulteriore spinta alla creazione di una capacità fiscale europea alimentata da nuove ulteriori risorse proprie, che sollevi la BCE dai difficili equilibrismi cui è chiamata come supplente della politica. Di fronte all’emergenza COVID-19, è stata la BCE ad attivarsi con il programma PEPP, già dal 18 marzo, con massicce iniezioni di liquidità che raggiungeranno il volume di 750 miliardi nel corso dell’anno e tale esigenza nasce da un lato dall’incapacità finora dimostrata dagli Stati, Signori dei Trattati, di far avanzare il negoziato sul quadro finanziario pluriennale per il prossimo settennato al fine di elevare il tetto, chiaramente inadeguato, del bilancio europeo, dall’altro, dallo specularmente arenato negoziato sulla revisione delle risorse proprie. C’è da sperare che la creazione del Recovery Fund, cui il Consiglio europeo dello scorso 23 aprile ha dato via libera, dia luogo ad una vera capacità fiscale europea sbloccando i due tavoli summenzionati e dando corso alla creazione di bond europei (anch’essi all’ordine del giorno da più di un decennio). In presenza di una politica economica europea, gestita nelle più opportune e democratiche sedi politiche, la BCE verrebbe finalmente alleggerita da questo eccesso di responsabilità di così difficile e controversa gestione.
3 Comments
Grazie per il commento molto analitico. Ho solo un dubbio circa la diversa natura del controllo ultra vires rispetto all’applicazione dei controlimiti cui tu accenni. In che senso avrebbe un oggetto più ampio? A me sembra che ci troviamo precisamente in un classico caso di applicazione di controlimiti: Karlsruhe giudica sulla legittimità della decisione della BCE così come interpretata da Lussemburgo, ritienendola incompatibile con la Legge Fondamentale proprio come la Consulta nel 2014 ha giudicato sulla legittimità della consuetudine internazionale così come interpretata dall’Aja ritenendola incompatibile con la Costituzione. Grazie, un caro saluto, GB
Grazie per la domanda! Non c’è dubbio che si tratti di controlimiti nell’uno e nell’altro caso, e certamente la nostra Corte costituzionale ha una certa esperienza in materia. Riguardo al processo di integrazione europea, tuttavia, a me sembra che le due Corti supreme abbiano ciascuna un proprio “stile” (mi si passi…) nel ricorrere ai controlimiti. La Corte Costituzionale tedesca invoca generalmente a fondamento del controlimite il principio democratico parlamentare. E dunque, avendo il Parlamento ratificato i Trattati europei ne ha, per così dire, irrigidito il contenuto. Questo fa si che ogni violazione ( vera o ritenuta tale) dei trattati – principi di proporzionalità, di attribuzione, di ripartizione di competenze, in questo caso – darebbe luogo ad atti e attività ultra vires non coperti da ratifica parlamentare. E quindi inefficaci e non meritevoli di attuazione. La nostra Corte Costituzionale invece applica i controlimiti al diritto europeo (tutto: trattati, diritto derivato, sentenze) ritenendo che esso sia arginato dai valori fondamentali della nostra Costituzione (ma senza identificarli precisamente se non , volta per volta, con riguardo al caso di specie). Quindi questi possono essere i principi democratici, ma può anche essere il principio di legalità nel diritto penale, dipende… Da un lato la nostra Corte è più vaga quanto all’assunto di partenza, dall’altra è più specifica nella singola pronuncia. Quindi è difficile che una singola sentenza possa destare così tante preoccupazioni come quella in oggetto, che invece procedendo per categorie generali fa temere un effetto domino. Insomma, lo strumento del controlimite è lo stesso, ma se ne fa un uso diverso. Tuttavia, è possibile che mi sfuggano casi giurisprudenziali dell’una o dell’altra Corte che mi smentiscono e in tal caso sarei ben felice di allargare le mie conoscenze.
La sottile distinzione di Susanna Cafaro mi pare estremamente calzante. La differenza dell’uso dei controlimiti tra Consulta e Karlsruhe, in particolare nell’ultima elaborazione di questa, mi sembra stia nelle conseguenze che i giudici prospettano per la violazione dei “controlimiti”. In questo caso i giudici tedeschi lasciano trasparire la possibilità che gli atti ultra vires per errata interpretazione possano “essere legittimati ex post attraverso una
revisione dei trattati con la procedura prevista dall’articolo 48 TUE” (così Giulia Rossolillo, sempre in questa Rivista) mentre la violazione di un principio fondamentale o di un diritto inviolabile, nella lettura italica, presuppone un contrasto che può essere sanato solo con interventi sostanziali di modifica.