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IL DECRETO INTERMINISTERIALE PER GESTIRE L’EMERGENZA COVID-19 NELL’AMBITO DEGLI OBBLIGHI DELL’ITALIA AI SENSI DELLA CONVENZIONE SAR: L’INSOSTENIBILE “INTERMITTENZA” DEL LUOGO SICURO PER I MIGRANTI DIRETTI VERSO L’ITALIA

Francesco Munari, Università di Genova e LUISS “Guido Carli”

Sull’onda dei copiosi provvedimenti adottati nell’era del coronavirus, il 7 aprile 2020 è stato adottato anche un decreto interministeriale col quale si sancisce che, per l’intero periodo di durata dell’emergenza sanitaria nazionale derivante dal COVID-19, i porti italiani non assicurano i «necessari requisiti per la classificazione e definizione di Place of Safety (luogo sicuro)» ai sensi della convenzione SAR, limitatamente tuttavia ai casi di soccorso effettuati da parte di navi straniere al di fuori dell’area SAR italiana.

Si tratta di un decreto quanto meno insolito, che merita alcune riflessioni, preliminarmente alle quali va innanzitutto ripercorso l’iter motivazionale alla base del medesimo: segnatamente, dopo una serie di richiami alle disposizioni adottate in via generale per fronteggiare il contagio, il decreto:

(a) dà atto di una complessiva situazione di “criticità” del sistema sanitario obiettivamente determinato dall’emergenza COVID-19, idonea a mettere in dubbio la capacità del sistema di far fronte anche a richieste di Place of Safety (POS) ai sensi della Convenzione SAR;

(b) dà altresì atto del fatto che, tra le persone eventualmente soccorse «non può escludersi la presenza di contagio COVID-19», ciò richiedendo quindi trattamenti specifici sul territorio;

(c) avverte che è comunque necessario garantire l’applicazione delle misure adottate per il contenimento del virus, la cui efficacia (implicitamente) potrebbe essere messa in pericolo dallo sbarco di migranti sulle nostre coste;

(d) precisa, in tal senso, che devono essere adottate misure nei confronti delle navi straniere che hanno soccorso naufraghi fuori della zona SAR italiana, dando atto che le relative attività SAR possono essere svolte dai rispettivi Stati di bandiera.

Sulla base di tali premesse, il decreto quindi unilateralmente autoesclude che i porti italiani possano essere considerati un POS «in virtù di quanto previsto dalla Convenzione di Amburgo», quando il soccorso sia avvenuto fuori della zona SAR italiana da parte di navi non italiane.

In questi termini, il decreto suscita più di una perplessità.

Innanzitutto, nel metodo, perché – al di là di quanto in appresso precisato sull’ambito di applicazione della SAR – non pare che uno Stato aderente a una convenzione internazionale possa unilateralmente limitarne la portata senza assumere precise iniziative sul piano internazionale nei confronti degli altri Stati contraenti. E non risultano comunicazioni di alcun tipo del nostro Governo presso l’Organizzazione Marittima Internazionale (IMO), che svolge la funzione di Segretariato della Convenzione di Amburgo. Sul piano interno, poi, è anche quanto meno dubbio che un decreto interministeriale possa modificare o rendere anche temporaneamente inefficace la fonte mediante la quale il nostro ordinamento ha provveduto all’adattamento della Convenzione di Amburgo. Quindi, abbiamo un atto che pretende di avere rilievo internazionale, i.e. interstatale, in quanto volto a “sospendere” l’applicazione di un trattato, che non viene veicolato nelle sedi all’uopo deputate, né viene assunto con le forme che, dal punto di vista del sistema delle fonti, dovrebbero essere rispettate in ipotesi quali quella ipotizzata nel decreto. La circostanza, tuttavia, e come vedremo, forse non è casuale; e questo, se possibile aggrava la sensazione di disagio rispetto al provvedimento di cui trattasi.

Nel merito, poi, il decreto presenta numerosi profili eufemisticamente problematici.

Il primo di essi concerne una preoccupante confusione sull’applicazione della SAR da parte del nostro Governo: questa confusione è stata magari anche innescata da provvedimenti dei nostri giudici non esenti da imprecisioni – se non veri e propri errori – sia sugli obblighi dell’Italia (e al suo interno, delle diverse amministrazioni competenti) sulle condizioni in presenza delle quali essa possa/debba fornire un POS a unità delle ONG con migranti a bordo, sia sull’esistenza di “doveri” in capo al comandante di quelle navi comunque di entrare nei porti italiani anche contravvenendo a provvedimenti adottati dalle autorità italiane (v. la sentenza della Cassazione n. 6626/2020 nel noto caso contro la Com. Carola Rackete, quella del Trib. Min. Roma del 29 novembre 2019 relativa alla nave Alan Kurdi, ovvero la decisione del G.I.P. di Ragusa del 16 aprile 2018 sulla nave Open Arms). Nondimeno, ciò non esime il Governo e i ministeri competenti a fornire una corretta qualificazione della fattispecie sul piano internazionale.

E così, va innanzitutto precisato che uno Stato membro della SAR non ha alcun obbligo di fornire un POS quando il soccorso avviene fuori dalla propria zona SAR, salve circostanze particolari: tali circostanze sono costituite (i) dall’accordo con lo Stato che sarebbe altrimenti competente; (ii) dall’aver assunto volontariamente la funzione di Rescue Coordinating Centre (RCC) ai sensi della Convenzione e del Manuale IAMSAR (per comodità faremo riferimento all’edizione 2016, emendata nel 2019 ma senza alcuna modifica sostanziale); ovvero (iii) da situazioni emergenziali ai sensi della pag. 3.1 del predetto Manuale IAMSAR, nelle quali il comandante di una nave, tenuto a rivolgersi innanzitutto al RCC nella cui zona SAR il soccorso è avvenuto, può, in gradato subordine, chiedere un POS allo Stato costiero più vicino, poi a quello che può essere raggiunto, e se non ha alcuna di queste opzioni manda un messaggio diretto a «any communication facility». Va dato atto che, soprattutto nell’ottica di enfatizzare al massimo la tutela della vita delle persone in pericolo in mare, si può anche interpretare in modo ampio il novero dei casi dei quali lo Stato dovrebbe comunque indicare un POS a un’unità soccorritrice, pur al di fuori delle ipotesi previste dalla SAR.

Ciò premesso, se lo Stato non è quello in cui si trova il RCC competente, perché il soccorso non è avvenuto in propria zona SAR, questi – e quindi, nel nostro caso, l’Italia – deve agire, al più, come First RCC ai sensi del paragrafo 2.25.1 del Manuale IAMSAR, e cioè assumere provvisoriamente il coordinamento del (mero) soccorso, per poi passare appena possibile la gestione dello stesso (e l’individuazione del POS) al RCC dello Stato competente. Come si osservava, va sans dire che – quale First RCC o anche quale Stato che, riceve una richiesta di aiuto da qualunque nave soccorritrice, ovunque essa si trovi, abbia deciso di assumersi il coordinamento delle operazioni – l’Italia può fornire un POS anche ben oltre gli obblighi convenzionalmente assunti. Ma trattasi di una scelta volontaria (e a volte doverosa), non di obbligo internazionale scaturente dalla Convenzione di Amburgo.

Salvo quindi che, come diremo, il decreto non sia un messaggio subliminale con cui si “segnala” la futura indisponibilità dell’Italia a fare di più sull’accoglienza dei migranti rispetto agli obblighi che ha internazionalmente accettato, il quadro sopra delineato relativo alla lineare applicazione della SAR renderebbe sostanzialmente inutile e anzi sorprendente il decreto medesimo: infatti, e come osservavamo, sono davvero pochi i casi in cui, per soccorsi avvenuti fuori dalla propria zona SAR, uno Stato è comunque obbligato a fornire un POS.

Ciò posto, per quanto concerne il Mediterraneo è notorio che il quadro giuridico internazionale relativo alle operazioni di search and rescue sia complicato per due ragioni: la prima dipende dalla mancata accettazione di Malta delle modifiche alla Convenzione SAR varate in sede IMO nel 2004, e in vigore dal 2006, nell’ambito delle quali è stato appunto introdotto un nuovo Chapter 3.1.9 che dispone l’obbligo di fornire un POS da parte dello Stato nella cui zona SAR è avvenuto il soccorso. Malta quindi non è formalmente gravata da obblighi internazionali al riguardo quale Stato contraente della SAR, e in effetti usa questa sua posizione al fine di negoziare discrezionalmente con gli altri Stati interessati la fornitura di un POS, anche quando il soccorso è avvenuto in zona SAR maltese. La seconda complessità deriva dalla circostanza secondo cui, per ragioni di fatto, ma anche per precise (e ormai pacificamente condivise) prese di posizione dell’UNCHR, la Libia non è un in grado di fornire alcun POS, a causa delle note situazioni critiche nelle quali versa il controllo del suo territorio e il rispetto al suo interno dei diritti fondamentali delle persone. E questo benché dal luglio 2018 la Libia abbia ufficialmente ripristinato la propria zona SAR, e non abbia mai più cambiato la propria posizione in sede IMO (salva, come vedremo, una recentissima novità di cui diremo a breve).

Ambedue queste complicazioni, peraltro, non modificano l’ambito degli obblighi dell’Italia quale parte contraente la SAR.

Non nel caso di Malta, perché in questa ipotesi comunque la SAR non obbliga l’Italia a sopperire alla mancata adesione di Malta rispetto all’obbligo di fornire un POS: tanto è vero che, di prassi, il luogo di sbarco di migranti soccorsi in zona SAR maltese è oggetto di negoziati – anche tesi – coinvolgenti pure l’Italia, cui spesso partecipano altri Stati rivieraschi e lo Stato di bandiera della nave soccorritrice.

Ma neppure nel caso della Libia, poiché sul piano internazionale l’incapacità della stessa di ottemperare alla SAR non può che determinare la sospensione della convenzione nei suoi confronti (cfr. ex multis Bariatti, p. 117 ss.; Cannizzaro, p. 181 ss.; Shaw, p. 712 ss.): in tal senso, non potendosi pretendere dalla Libia di diventare un “luogo sicuro” quale condizione per ripristinare gli obblighi vigenti nei suoi confronti ai sensi della Convenzione SAR, qualunque soccorso avvenga nella (formale quanto inoperante) zona SAR libica non può essere gestito in base alla Convenzione di Amburgo. Tanto meno dopo che, a quanto risulta da notizie di stampa ancor più recenti, la stessa Libia (o chi formalmente la governa) si è parimenti auto-dichiarata “luogo non sicuro” per lo sbarco di naufraghi (rectius, di migranti che partano addirittura dalle sue coste).

Devono quindi trovarsi altre strade, che sono poi quelle indicate dalle rilevanti disposizioni dell’UNCLOS (cfr. specialmente gli art. 94 e 98, (a loro volta codificatrici del diritto internazionale generale) e della SOLAS (cfr. in particolare il Chapter V, Regulation 7). È pur vero che, rispetto alla SAR, e alle sue procedure attuative, la disciplina sopra individuata è certamente meno precisa. Ma ciò non toglie, da un lato, che all’inapplicabilità della Convenzione SAR alla Libia non possa conseguire un’automatica estensione della zona SAR italiana alle acque libiche; dall’altro lato, e soprattutto, che l’applicazione del regime “residuale” sopra evidenziato determini quale conseguenza immediata che una quota importante di responsabilità sulle operazioni di ricerca e soccorso in acque “non SAR” debba gravare sullo Stato di bandiera, finora quanto meno “defilato” nella gestione dei soccorsi effettuati dalle ONG rispetto agli Stati costieri.

Sicché ci si deve innanzitutto chiedere come mai il decreto assuma come pacifica l’esistenza di obblighi internazionali dell’Italia scaturenti dalla Convenzione SAR di fornire un POS a navi straniere che abbiano soccorso naufraghi o migranti fuori dalla nostra zona SAR, anche quando tali obblighi non sussistono. Tanto più per l’importanza del tema, anche sotto il profilo dei rapporti internazionali e con gli altri partner UE, maggiore attenzione sul punto sarebbe stata meritoria.

Ciò premesso, anche assumendo l’applicazione della SAR, il decreto, se possibile, lascia ancor più perplessi.

In primo luogo, appare oltre il limite della fake news l’inciso, pur contenuto in un passaggio dei “visti” di cui al decreto, secondo cui una delle ragioni del rifiuto annunciato del POS consiste nel pericolo di contagio che potrebbe subire l’Italia ad opera di migranti infetti di COVID-19. Un simile assunto, scritto nero su bianco in una norma dello Stato, ricorda le sconcertanti affermazioni fornite tempo addietro da qualche esponente politico per “chiudere i porti” italiani, quando si arrivava a sostenere – per finalità forse di consenso elettorale, ma obiettivamente vergognose – che i migranti potessero portare il virus ebola in Italia. Lo sconcerto è ancor più robusto se si pensa che (a) se chi arriva in Italia è un potenziale “untore”, allora dovrebbe essere impedito in generale l’ingresso nel territorio dello Stato a chiunque, a prescindere che entri legalmente o meno in Italia, ipotesi che non mi risulta essere presa in considerazione da attuali o prospettiche misure di lockdown; (b) le normali procedure per questi casi sono la quarantena, non certo il respingimento al largo, con conseguenze potenzialmente fatali per le persone.

In secondo luogo, incomprensibile – e criticabile – è la scelta di applicare queste misure solo ai migranti soccorsi in zone SAR non italiane, e solo da navi straniere in quanto non coordinate dal nostro MRCC: nella Convenzione SAR il POS è inteso come luogo nel quale la persona soccorsa sarà definitivamente in salvo, poiché ivi cessa la situazione di pericolo di vita del naufrago. In questa prospettiva, da un lato è falso (o almeno, è auspicabile che lo sia) che in Italia le libertà e la vita delle persone siano generalmente in pericolo: nell’espressione dell’UNCHR, l’Italia non parrebbe un posto in cui «lives and freedoms […] would be threatened»; dall’altro lato, anche a voler declinare (e non si dovrebbe) la nozione di POS come… COVID-19 oriented, il rischio che la persona venga infettata dal coronavirus una volta entrata in Italia non è diverso da altri rischi di patologie (anche gravi) cui i migranti non raramente sono esposti per le condizioni igienico-sanitarie esistenti in alcuni luoghi di accoglienza pur forniti dal nostro Paese. E soprattutto, visto il significato del POS per come scolpito nella Convenzione SAR, allora non ha alcun senso che l’Italia rimanga invece un “luogo sicuro” per i migranti recuperati nella nostra zona SAR, coordinati dal nostro Maritime RCC, ovvero recuperati da navi italiane ovunque il soccorso abbia avuto luogo: all’evidenza, se il problema sono le condizioni attuali del territorio italiano, queste persone non presentano meno rischi di essere contagiati di altre.

Insomma, nel metodo e nel merito il giudizio su questo decreto non può che essere negativo.

A voler essere molto generosi, ci si può almeno sforzare di capire quale sia la ratio del decreto. E a me pare che, sia pur in modo che appare totalmente inadeguato sul piano giuridico, se non effettivamente illegittimo sotto vari profili, il medesimo voglia recuperare spazi “politici” rispetto alla gestione dei migranti recuperati autonomamente da parte di unità navali di ONG battenti bandiera straniera, e cioè senza il coordinamento di alcun RCC competente. Di ciò si ha indiretta conferma nell’ulteriore decreto adottato stavolta al capo di compartimento della protezione civile il 12 aprile 2020, nel quale, in prosecuzione della disciplina qui commentata, si individua presso il Ministero dell’interno un “Soggetto attuatore” che deve assicurare le misure di isolamento e di contrasto dell’epidemia nelle fattispecie coperte dal decreto interministeriale. E in estrema sintesi si prevede che, mentre per i migranti per il quali non può essere fornito un “luogo sicuro” possono essere utilizzate navi per la sorveglianza sanitaria (senza poi che ben sia chiaro cosa ne sarà delle persone a bordo di tali navi una volta terminata detta sorveglianza), gli altri vengono invece comunque accolti sul territorio, sia pur ai fini di garantire da terra le misure di contenimento del contagio.

Tornando al nostro decreto interministeriale, mi pare indubbio che l’obiettivo, esplicitato in modo inspiegabilmente soft nello stesso decreto, sia quello di responsabilizzare gli Stati di bandiera di queste navi, che in effetti, lo si scriveva, in passato sono state effettivamente protagoniste di non commendevoli “disimpegni” nei confronti degli obblighi internazionali gravanti su tali Stati.

Col decreto di cui trattasi, quindi, l’Italia fondamentalmente “annuncia” alle ONG straniere (e ai loro Stati di bandiera) che assumerà una posizione non collaborativa quanto alla fornitura di un POS, segnalando anche a queste ultime di rivolgersi, ove del caso, appunto ai propri Stati di bandiera: emblematico, al riguardo, è il passaggio contenuto nel decreto secondo cui si ritiene che «le attività assistenziali e di soccorso da attuarsi nel “porto sicuro” possano essere assicurate dal Paese di cui le unità navali battono bandiera laddove abbiano condotto le operazioni al di fuori dell’area SAR italiana, in assenza del coordinamento del IMRCC Roma».

Se questa è la vera ratio del decreto, allora forse sarebbe stata meglio una dichiarazione formale sull’effettivo ambito degli obblighi dell’Italia quale parte contraente la SAR, magari veicolata soprattutto in ambito UE, dove non ritengo vi siano dubbi sull’esistenza di obblighi di solidarietà tra Stati membri ai sensi degli articoli 4, par. 2, TUE e 80 TFUE (v. Munari, p. 517 ss.). Usare l’emergenza COVID-19 per ricordare a tutti la necessità di fare la propria parte per salvare le vite umane in mare non sembra una buona idea. Soprattutto perché in questo momento stanno aumentando i viaggi in mare e i rischi per i migranti: a quanto pare, infatti, i trafficanti di esseri umani stanno approfittando della “distrazione di massa” causata dal coronavirus sugli Stati e sull’opinione pubblica, e del miglioramento stagionale delle condizioni meteomarine, per far partire un numero crescente di persone dalle coste libiche verso la sponda nord del Mediterraneo.

E a proposito di solidarietà, o della legge economica secondo cui la moneta cattiva scaccia quella buona, non è casuale che l’iniziativa italiana sia stata subito copiata da Malta, che pure, come abbiamo scritto, non ha gli stessi obblighi SAR dell’Italia, anzi non si è mai obbligata verso altri Stati a fornire un POS alle navi in distress. E quanto alla Libia, per quel che valga, si è appena scritto che anche il suo governo, in sequenza, si sia dichiarato porto non sicuro.

Insomma, siamo al solito braccio di ferro tra Stati, e tra loro e le ONG: e se così è, come pare, almeno ci risparmino di chiamare in causa il coronavirus, al quale, tra i tanti mali che porta, non credo sia seriamente plausibile attribuire anche un ruolo nella triste vicenda (e tragedia) dei migranti in mare.

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