Contrasto al COVID-19 e/o demolizione dello Stato di diritto? Le misure ungheresi e la Convenzione europea
Pasquale De Sena, Università Cattolica di Milano (membro della redazione)
1. L’esame delle misure di emergenza votate dal Parlamento ungherese accuratamente condotto nel post di Simone Benvenuti induce a svolgere qualche riflessione “a caldo”, anche sulla conformità di dette misure rispetto all’art. 15 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Dico “a caldo”, non solo per l’impossibilità di condensare, in poche righe, ed in pochissimo tempo, un’analisi che richiederebbe maggiori approfondimenti; ma anche perché una valutazione precisa di tali misure esigerebbe, evidentemente, di poterne considerare la prassi di attuazione di cui, allo stato, non può ancora disporsi.
Due sono allora gli aspetti di carattere generale sui quali, sin da ora, è possibile articolare qualche riflessione, fermo restando che su ulteriori questioni di tipo più specifico, considerazioni più meditate senz’altro potranno seguire.
2. Il primo di tali aspetti concerne l’ambito di applicazione delle misure disposte dalla legge organica, dal momento che il primo comma dell’articolo 2, specifica che esse mirano a salvaguardare la sicurezza e alla salute dei soli «cittadini ungheresi». Ebbene, se si considera che tali misure trovano la loro giustificazione nell’esigenza di meglio garantire diritti, quali il diritto alla vita e il diritto alla salute – direttamente o indirettamente protetti dalla Convenzione – emerge chiaramente la loro radicale contrarietà alla Convenzione medesima. Una simile disposizione è, infatti, in plateale contrasto con l’art. 1 della Convenzione europea, a norma del quale i diritti enunciati vanno assicurati dagli Stati a tutti gli individui che si trovino nella loro giurisdizione, indipendentemente – tra l’altro – dalla loro origine nazionale. In aggiunta a ciò, non deve dimenticarsi che l’art 15 stabilisce espressamente che la deroga ai diritti stabiliti dalla Convenzione debba avvenire nel rispetto degli obblighi derivanti dal diritto internazionale per gli Stati. Ebbene, l’Ungheria è parte del Patto sui diritti civili e politici – che contempla, analogamente alla Convenzione europea, la protezione del diritto alla vita – nonché parte del Patto sui diritti economici sociali e culturali – che contempla, naturalmente, la protezione del diritto alla salute. A questo proposito è appena il caso di ricordare che entrambi gli strumenti in questione stabiliscono che i diritti in essi enunciati debbano essere riconosciuti senza discriminazioni in base all’origine nazionale; e che, per quanto riguarda il diritto alla salute (di cui all’art. 12 del secondo Patto), il divieto di effettuare discriminazioni a causa dell’origine nazionale degli individui interessati, è espressamente sancito nel General comment no. 14 (par. 18).
3. Il secondo profilo su cui soffermarsi concerne, naturalmente, la necessità e la proporzionalità delle disposizioni restrittive contenute nella legge organica, rispetto all’emergenza in corso.
In via preliminare va osservato che la situazione sanitaria conseguente alla diffusione del COVID-19 costituisce senz’altro una circostanza idonea a rendere conforme all’articolo 15 la decisione di adottare misure di compressione di diritti sanciti dalla Convenzione, dal momento che tale situazione è chiaramente riconducibile alla nozione di «pericolo pubblico che minacci la vita della nazione». Né il numero (per fortuna) ancora limitato di contagi in Ungheria (qui i dati aggiornati al 6 aprile) può costituire una controindicazione a tal fine, ove si consideri: (a) che la prevenzione è senz’altro essenziale nella lotta contro la diffusione di epidemie come quella in atto; (b) che l’adozione di misure preventive è stata, nel caso del COVID-19, anche oggetto di appelli da parte dell’Organizzazione mondiale della sanità (v. per es. qui e qui); (c) che la stessa esperienza maturata nel caso italiano spinge in questa direzione. Non avrebbe, dunque, troppo senso discutere dell’utilizzazione del margine di apprezzamento statale in un simile contesto, ferme restando le perplessità che il riconoscimento di un’eccessiva discrezionalità agli Stati non ha mancato di suscitare nella stessa giurisprudenza della Corte (sul punto, v. Sommario, 2018 p. 45 ss. e Cataldi, 2012, p. 558).
Ciò detto, un aspetto decisamente problematico quanto alla necessità delle misure in questione non manca di affiorare dalla legge organica. Esso è rappresentato dal fatto che l’ambito di applicazione di tali misure si estende alla «sicurezza giuridica e della stabilità dell’economia nazionale» (art. 2); più esattamente, è anche in relazione a questa materia che il Governo, in virtù dell’art. 2 di detta legge – come puntualmente si osserva nel commento di Benvenuti – può esercitare poteri aggiuntivi rispetto a quelli già previsti dalla legge 128/2011 sulla gestione delle catastrofi naturali (ivi, anche per i corrispondenti riferimenti). Ebbene, se è innegabile, per un verso, che l’emergenza sanitaria in corso implichi, di per sé, gravissime ricadute di ordine economico e sociale, ci si può chiedere, d’altra parte, se l’esigenza della «stabilità dell’economia nazionale» richieda effettivamente che sia riservato al Governo l’esercizio di poteri eccezionali anche a questo proposito. Siffatta questione ben potrebbe ricevere una risposta negativa, ove la Corte europea fosse chiamata a pronunciarsi al riguardo (la questione della necessità dell’adozione di misure normative extra ordinem venne considerata – e positivamente risolta, seppure con una ridotta maggioranza – nel celebre giudizio Lawless, par. 36). Basti considerare che una situazione di instabilità economica, conseguente all’epidemia in corso, potrebbe in realtà durare per anni, e che una simile situazione può senz’altro essere affrontata con strumenti ordinari, com’è ampiamente dimostrato dall’esperienza italiana, nel cui ambito misure di sostegno all’economia sono state recentemente adottate con lo strumento del decreto legge, soggetto al controllo del Parlamento ai sensi dell’art. 77 della Costituzione. Perlomeno con riferimento a questo profilo, è perciò assai dubbio che la legge organica contenga delle misure realmente necessarie a fronteggiare la situazione di emergenza, e, dunque, conformi all’articolo 15 della Convenzione.
Per quanto attiene alla questione della proporzionalità delle misure, un profilo su cui si è appuntata l’attenzione di gran parte della stampa – ma anche dei commentatori di formazione giuridica (per le relative indicazioni, v. ancora Benvenuti) – è costituito dalla mancata fissazione di un limite temporale per la loro durata, come risulta dall’articolo 8 della legge organica, in virtù del quale esse saranno revocate «una volta terminata l’emergenza» (ivi). Ciò si traduce, con ogni evidenza, in una differenza piuttosto marcata rispetto alla prassi italiana, in cui i – pur discussi – d.p.c.m. limitativi di libertà individuali, succedutisi nel tempo sulla base del d.l. n. 6 del 23 febbraio 2020, recano tutti limiti temporali precisi, ancorché costantemente prorogati. La scelta così compiuta dal legislatore ungherese, che è senz’altro contraria all’articolo 4 del Patto sui diritti civili e politici nell’interpretazione datane dal Comitato dei diritti dell’uomo (v. General comment no. 29, paragrafi 2 e 4), appare, a ben vedere, anche in contrasto con l’articolo 15 della Convenzione europea. Sebbene la Grande Camera della Corte, nella sentenza relativa al caso A. and others v. the United Kingdom non abbia mancato di notare che il requisito della temporaneità delle misure di deroga (peraltro non previsto dall’articolo 15) non trova autonomo riscontro nella giurisprudenza in argomento (par. 178), è agevole osservare che la sua mancata previsione incide, per l’appunto, sulla proporzionalità di tali misure nel nostro caso. A differenza che nel caso appena citato, in cui la legge britannica – pur non fissando un limite temporale per l’efficacia della legislazione anti-terrorismo oggetto di scrutinio – ne contemplava una revisione annuale da parte del Parlamento (ivi), un’analoga disposizione non è infatti rintracciabile nei dieci articoli di cui si compone l’atto ungherese. Questa circostanza risulta ancor più indicativa della sproporzione delle misure in esame, se si pensa che le azioni di contenimento di un’epidemia consentono, sia pure entro certi limiti, di prevederne l’andamento, laddove una minore prevedibilità presenta l’evoluzione di un fenomeno squisitamente politico, quale il terrorismo internazionale, cui si riferivano le disposizioni dell’Antiterrorism Crime and Security Act 2001, oggetto di esame nel giudizio poc’anzi citato. In senso analogo può del resto richiamarsi quanto già evidenziato, ossia che la legge organica prevede che l’esercizio di poteri eccezionali riguardi anche la tutela della «stabilità dell’economia». Ebbene, non vi è chi non veda che l’ampiezza dei poteri così previsti rende ancora più “sospetta” – sul piano della proporzionalità rispetto alla situazione di emergenza – l’assenza di limiti temporali per il loro esercizio, anche di là dei dubbi già sollevati sulla necessità della stessa attribuzione di simili poteri in questo campo.
Un’ultima considerazione, sempre con riferimento alla questione della proporzionalità, va poi svolta proprio sui poteri conferiti al Governo da parte della legge organica. Tali poteri – come rileva Benvenuti – consistono essenzialmente nella facoltà di «sospendere l’applicazione di talune leggi» e di «introdurre deroghe a disposizioni normative», oltre che di «adottare altre misure necessarie» ai fini protettivi già indicati (sub 2 e in questo paragrafo). Allo stesso tempo, si prevede che il Parlamento sia informato di siffatte misure (tramite il suo Presidente e i capi dei gruppi parlamentari: art. 4), senza però che risultino prescritte forme di adunanza del Parlamento stesso, alternative a quelle tradizionali (ad es., telematiche), a differenza di quanto è invece espressamente previsto per le sedute della Corte costituzionale (art. 5, par. 2).
Può dirsi allora che la sostanziale sospensione dei poteri dell’organo legislativo, emergente da un simile assetto, sia conforme alla Convenzione, anche dal punto di vista del rispetto dell’art. 3, del Protocollo 1 aggiuntivo alla Convenzione europea? Malgrado il fatto che tale disposizione non rientri fra quelle inderogabili, ai sensi dell’articolo 15 (ma v., in senso contrario, lo studio della Commissione di Venezia del 1995 ), dubbi molto consistenti non mancano di porsi relativamente al caso ungherese, alla luce delle pur scarne indicazioni ricavabili dalla prassi in argomento, in particolare dal rapporto adottato della Commissione europea dei diritti dell’uomo nel celebre caso greco nel 1967. In un obiter dictum ivi contenuto (par. 321 ), la sospensione dell’attività di un’assemblea parlamentare in un periodo di emergenza continuata, pur essendo giudicata lesiva della Convenzione con specifico riferimento al caso della Grecia dei colonnelli, non venne tuttavia scartata in termini assoluti, ritenendosi, piuttosto, che una simile ipotesi sia da valutarsi, proprio nel quadro del giudizio di proporzionalità sulle misure di deroga (Starita, 2012, p. 852). Proprio un giudizio di tal tipo potrebbe però condurre, anche sotto il profilo in esame, ad un esito negativo, ove ad esso fosse sottoposta la legge organica del 30 marzo scorso; e ciò, non solo in ragione di quanto già si è visto con riferimento alla sospensione dei poteri parlamentari in relazione alla «stabilità dell’economia nazionale». Mi sembra infatti che l’assenza di un termine di durata dell’emergenza, in uno con la mancata previsione di forme alternative di riunione del Parlamento in caso di necessità, costituiscano, perlomeno prima facie, circostanze idonee a porre nel nulla la possibilità di un esercizio effettivo di controllo democratico sui poteri esercitabili dal Governo, rischiando dunque di rendere puramente formali gli obblighi di comunicazione che pure sono prescritti. Per effetto di queste due circostanze, nell’ipotesi di un’impossibilità di riunirsi (causata dalle misure di contenimento dell’epidemia), il Parlamento – già privato, in virtù dell’art. 3, par. 1 della legge, del potere di pronunciarsi sui decreti adottati dal governo sino alla fine dell’emergenza (peraltro in palese contrasto con l’art. 53, par. 3, della Legge fondamentale, sullo stato di pericolo: v. ancora Benvenuti) – rischierebbe, insomma, di vedersi de facto deprivato, sine die, del potere effettivo di revocare l’autorizzazione ad emanare tali decreti, pure formalmente previsto dal par. 2 dell’art. 3.
4. Anche a voler limitare l’analisi della legislazione di emergenza ungherese ai pochi profili qui considerati, è evidente che essa presenta più di un aspetto critico dal punto di vista del rispetto di principi fondamentali dello Stato di diritto, così come tali principi si configurano nella Convenzione europea. Ciò non può peraltro stupire, dato il quadro complessivo, nel quale l’adozione di detta legislazione si inserisce (v. ancora Benvenuti, nonché qui per il disegno di legge sull’eliminazione del riconoscimento giuridico delle persone transessuali); quadro, quest’ultimo, rispetto al quale neppure è sinora intervenuta una reazione da parte dell’Unione europea, malgrado gli strumenti previsti a tal fine (v. Casolari) Di questa situazione, aveva già mostrato consapevolezza il Segretario generale del Consiglio d’Europa, ancor prima che il disegno di legge venisse approvato dal Parlamento. Si tratta ora di vedere se anche gli Stati parti di quest’organizzazione sapranno mostrare analoga consapevolezza, considerando, fra le altre cose, l’eventualità di utilizzare gli strumenti loro offerti dalla Convenzione, in particolare lo strumento del ricorso interstatale.
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