Carcere, diritti, organismi internazionali al tempo del Coronavirus
Patrizio Gonnella, Università Roma Tre, Antigone
Gli effetti sociali del coronavirus costituiscono una metafora della condizione carceraria. Siamo tutti prigionieri nelle nostre case, costretti ad assaggiare forzatamente frammenti di detenzione. Fino a questo momento, però, questo stato globale e permanente di reclusione non si è tradotto in una spinta a produrre azioni dirette a favorire in modo significativo il distanziamento sociale all’interno delle prigioni. Un distanziamento reso complesso dalla situazione generalizzata, non solo dunque italiana, di sovraffollamento della popolazione detenuta costretta a vivere in prigioni spesso malsane. Tale situazione è stata posta al centro delle preoccupazioni degli organismi internazionali che si occupano di privazione della libertà a livello sovra-nazionale.
Il punto di partenza non può che essere di tipo numerico, rivolgendo uno sguardo ai numeri della detenzione e allo spazio vitale a disposizione per ciascuna persona reclusa. Sono oltre 10 milioni i detenuti nel pianeta, senza contare gli immigrati reclusi nei centri amministrativi di detenzione in attesa di espulsione. C’è chi ha evocato un’immagine suggestiva per descrivere l’impatto quantitativo della reclusione penale nel mondo: se tutti i detenuti si tenessero per mano potrebbero abbracciare l’intera circonferenza dell’equatore. Le ricerche dell’Institute for Crime & Justice Policy Research (ICPR) dell’Università Birkbeck di Londra offrono il più completo data-base sui numeri della detenzione a livello globale. Ci sono Paesi dove il tasso di sovraffollamento (numero di detenuti per numero di posti letto regolamentari) è spropositatamente alto. Le persone detenute vengono ammassate nelle celle, costrette a dormire per terra, e condividono un bagno alla turca in mezzo al camerone. Nelle Filippine i detenuti sono circa 215 mila e il tesso di affollamento è addirittura pari al 436% rispetto alla capacità ricettiva dichiarata (che già è poco rispettosa di standard abitativi dignitosi). Ovviamente siamo ben lontani da quel distanziamento sociale raccomandato dall’Organizzazione mondiale della sanità, non solo per i cittadini liberi, ma anche per chi vive negli istituti penitenziari. Ad Haiti, il Paese che svetta nelle classifiche mondiali per tasso di sovraffollamento, esso sfiora il 455%. I detenuti rinchiusi nelle carceri asiatiche (si pensi all’Iran così colpito dal COVID-19), centroamericane e africane sono quelli che più andranno a pagare le conseguenze dell’eventuale contagio che si diffonderà dentro. Gli Stati Uniti con i loro due milioni e 200 mila detenuti rinchiusi in ben seimila carceri federali, statali, locali, private, giovanili, militari producono un tasso di detenzione (rapporto tra il numero delle persone detenute e delle persone libere) tra i più alti al mondo. Un tasso di detenzione che però determina un sovraffollamento non generalizzato: in alcuni casi drammatico, in altri più gestibile. In Europa il riferimento all’Italia è paradigmatico. Il tasso di sovraffollamento è pari circa al 120% con punte tragiche in alcune carceri dove si sfiora il 200%. Secondo gli standard del Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura, fatti propri dalla Corte Europea di Strasburgo in una giurisprudenza che ha coinvolto anche l’Italia con la sentenza pilota Torreggiani, ogni detenuto dovrebbe avere almeno tre metri quadri a disposizione per evitare che il trattamento a cui è sottoposto risulti essere in violazione dell’art. 3 della Convenzione europea sui diritti umani che proibisce la tortura e ogni forma di trattamento inumano, crudele o degradante. Cosa significa in concreto vivere in condizioni di affollamento carcerario? L’osservazione empirica aiuta a trasformare in immagini quello che la statistica non sempre riesce a chiarire. Nel 2019 Antigone ha visitato circa cento istituti di pena: in quasi la metà c’erano celle senza acqua calda, in oltre il 50% c’erano celle senza doccia per cui i detenuti erano costretti a lavarsi in spazi comuni, in circa il 10% mancava il wc in cella, in un quarto delle prigioni i detenuti vivevano in camere con meno di tre metri quadri a disposizione. In alcune case circondariali metropolitane i detenuti non avevano lo spazio per leggere stando seduti e le celle ospitavano letti a castello con tre piani, di cui l’ultimo sfiorava il soffitto. Tutto ciò per spiegare in modo diretto come gli effetti tragici della pandemia nelle carceri risultino essere strettamente correlati alla condizione di vita quotidiana presente all’interno degli istituti di pena, all’affollamento ingestibile, a edifici malmessi, alla scarsa disponibilità di prodotti igienico-sanitari, all’assenza di adeguato personale sanitario, alla composizione sociale della popolazione detenuta che presenta al proprio interno un gran numero di persone che hanno una pregressa condizione psico-fisica vulnerabile (non pochi sono i malati oncologici, diabetici, immunodepressi, cardiopatici, affetti da demenza senile).
L’emergenza coronavirus nelle carceri non è però solo una questione di salute pubblica. Essa si innesta all’interno di un mondo, quello delle prigioni, che ha una sua tragica essenza patologica. I rischi da contagio producono ansia, solitudine, paura, panico, disperazione, disagio psichico che si aggiungono alla sofferenza connaturata alla pena e possono determinare una crescita esponenziale della violenza verso sé stessi e verso gli altri, nonché l’incremento di atteggiamenti auto-distruttivi.
Le Dichiarazioni di principi in materia di COVID-19 del Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura del Consiglio d’Europa (CPT) e del Sotto-Comitato Onu per la Prevenzione della Tortura (SPT) presuppongono tutto questo. Esse acquistano un particolare rilievo in quanto provengono da organismi sovra-nazionali che hanno compiti di monitoraggio e di ispezione fondati sull’osservazione diretta e non sull’analisi da desk del quadro normativo nazionale. Non è un caso che le due Dichiarazioni sono tra loro sovrapponibili e si muovono nella stessa direzione. Volendo sintetizzarne i contenuti, esse contengono raccomandazioni rivolte agli Stati dirette a: assicurare ai detenuti un’adeguata informazione sanitaria sui rischi da contagio, prevedere un’ampia disponibilità di prodotti igienico-sanitari sia per i detenuti sia per il personale, accrescere le forme di contatto a distanza con i familiari che compensino la riduzione o l’azzeramento dei colloqui visivi allo scopo di non trasformare le misure di prevenzione medica in azioni vessatorie, un impulso alle autorità statali affinché assumano provvedimenti diretti alla deflazione carceraria.
La Dichiarazione del CPT è del 20 marzo 2020. Essa si fonda sul principio di non-discriminazione nella promozione e protezione del diritto alla salute. I detenuti devono godere di prestazioni mediche (sia nella fase della prevenzione sia in quelle della diagnosi e della terapia) identiche a quelle assicurate ai cittadini in stato di libertà. Non è giustificabile una differenziazione in peius del trattamento. Il CPT ritiene legittimo ogni sforzo diretto a evitare il contagio internamente alle carceri purché i provvedimenti assunti non si traducano nella compressione di diritti fondamentali. È dunque ragionevole sospendere le attività di intrattenimento o di trattamento non essenziali, ma non si può comprimere il diritto di accesso quotidiano all’aria aperta per almeno un’ora al giorno. Sta all’amministrazione penitenziaria assicurare un godimento di questo diritto scaglionato nella giornata. Un tema di particolare rilievo è quello dei contatti con il mondo esterno e con i familiari. La legittimità delle restrizioni ai colloqui visivi è correlata dalla previsione contemporanea di un maggiore accesso a mezzi di comunicazione alternativi come le video-telefonate o le conversazioni tramite Skype. Seppur con colpevole ritardo, ciò è avvenuto anche in Italia: per la prima volta con circolare del 23 marzo il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha autorizzato l’uso di whatsapp tramite smartphone di proprietà pubblica. In molti Paesi europei si stanno sperimentando nuove forme tecnologiche di corrispondenza tra il dentro e il fuori, così come monitorato dallo European Prison Observatory. Il detenuto non deve essere isolato dal proprio contesto socio-affettivo. Un tema delicato affrontato dal CPT è quello della prevenzione della violenza. Le proteste dei detenuti, che è presumibile insorgano, devono essere contenute senza eccessi sproporzionati nell’uso della forza e delle armi. Le garanzie fondamentali contro i maltrattamenti restano in piedi anche in condizioni di emergenza, quali quelle date dalla pandemia. Lo stress a cui il personale è sottoposto richiede, a sua volta, supporto psicologico costante. Anche questa è una misura suggerita a prevenzione dei maltrattamenti: poliziotti in burn-out è più facile che commettano abusi e violenze. Ovviamente, il tema centrale, al fine di evitare contagi a catena, è quello della deflazione carceraria e della riduzione dell’affollamento carcerario. Il CPT insiste affinché si ricorra a misure alternative alla privazione della libertà sia nella fase cautelare che in quella esecutiva della sentenza. Le indicazioni non possono che essere generiche in quanto devono valere per Paesi che hanno legislazioni penali e penitenziarie molto differenti e tradizioni giuridiche tra loro molto distanti. Un’attenzione particolare è rivolta però ai gruppi vulnerabili e/o a rischio, come gli anziani e le persone con patologie preesistenti, auspicando forme di detenzione domiciliare. Anche l’SPT spinge verso l’adozione di misure non custodiali, richiamando le Standard Minimum Rules for Non-custodial Measures delle Nazioni unite, o Tokyo Rules del 1990. In Italia il Governo ha inserito alcune norme all’interno del Decreto-legge n. 18 del 17 marzo 2020, ancora in fase di conversione. Gli articoli 123 e 124 modificano, seppur a tempo, le norme sulla detenzione domiciliare e la semilibertà. In realtà si tratta di cambiamenti minimi: si velocizzano i passaggi interni all’amministrazione penitenziaria ai fini dell’istruzione dell’istanza di detenzione domiciliare di coloro che hanno ancora diciotto mesi di pena da scontare (anche se allo stesso tempo vengono imposti alcuni limiti ulteriori rispetto a quelli pre-esistenti nella legge n. 199 del 2010 ai fini del godimento della misura: il detenuto non deve essere stato sanzionato disciplinarmente nell’anno precedente per fatti di particolare gravità, non deve avere partecipato alle rivolte degli inizi di marzo 2020, deve esserci la disponibilità in concreto dei braccialetti elettronici, salvo che il richiedente abbia un residuo pena da espiare inferiore ai sei mesi); si prevede nel caso della semilibertà che il periodo notturno possa essere trascorso nel proprio domicilio anziché in carcere. Va detto che, prima ancora dell’entrata in vigore del citato Decreto-legge, il numero dei detenuti era già in calo di alcune migliaia di unità per almeno tre ordini di motivi: una parte della magistratura di sorveglianza ha velocizzato notevolmente le proprie decisioni interpretando in forma estensiva la legislazione in corso; la riduzione del numero dei reati nelle città ha determinato un abbassamento del numero dei nuovi ingressi in stato di custodia cautelare; alcune procure hanno sospeso l’esecuzione di provvedimenti restrittivi nei confronti di persone a piede libero.
L’emergenza sanitaria globale, dunque, ha investito drammaticamente il mondo delle prigioni e ha imposto un’attenzione istituzionale intorno allo stesso. Il monitoraggio da parte di organismi sovra-nazionali indipendenti, dei meccanismi nazionali di prevenzione (NPM) e delle organizzazioni non governative è ancora più necessaria in una fase complessa come quella attuale. Esso è una salvaguardia essenziale contro il rischio di maltrattamenti, discriminazioni, abusi. Gli Stati dovrebbero continuare a garantire, anche in piena pandemia, l’accesso degli organismi di controllo a tutti i luoghi di detenzione, in quanto l’emergenza, se non sottoposta a verifiche, rischia di tradursi in azioni illegittime.
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