«Nous sommes en guerre»: la lotta globale alla pandemia alla prova del Patto internazionale sui diritti civili e politici
Francesca Tammone, Università di Palermo
1. «Combattiamo un nemico invisibile, inafferrabile, che avanza». Con queste parole, il Capo di Stato francese Emmanuel Macron, lo scorso 16 marzo, ha annunciato alla Francia l’adozione di misure straordinarie da parte dello Stato per impedire la propagazione del Coronavirus (come noto, SARS-CoV2, o, più comunemente, COVID-19). «Nous sommes en guerre, guerre sanitaire» ha aggiunto il Presidente della Repubblica francese, che con Decreto del Primo ministro del 16 marzo 2020 ha dichiarato, sulla scorta di quanto già avvenuto in Italia, il total lockdown del Paese. Com’è noto, l’Italia, con Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 9 marzo 2020, ha appunto esteso le misure pesantemente restrittive – già applicate, nei giorni precedenti, nelle cc.dd. ‘zone rosse’, interessate dal maggior numero di contagi – a tutto il territorio nazionale. Sulla scorta del ‘modello italiano’ del governo Conte, anche Spagna e Grecia hanno successivamente adottato misure simili di contrasto alla pandemia, dichiarando il lockdown nazionale rispettivamente il 18 marzo e il 22 marzo. Nel frattempo, aldilà dei confini europei, 48 Stati degli Stati uniti d’America hanno proclamato lo Stato di emergenza sul proprio territorio, prescrivendo, nell’ambito delle proprie competenze, divieti ‘a geometria variabile’ circa riunioni, assembramenti e svolgimento di attività sportive e didattiche (v. qui). Il minimo comun denominatore di queste misure, su cui è impossibile soffermarsi approfonditamente in questa sede, è in ogni caso il forte impatto sulla libertà di movimento e circolazione, e sul diritto di riunione pacifica (v. infra).
Assodata l’impossibilità di contenere il contagio all’interno dei singoli Stati e addirittura all’interno di un singolo continente, sembra dunque utile fare chiarezza, anche al fine di cogliere gli sviluppi futuri di questi eventi, su quale sia lo standard applicativo dei diritti umani nell’ambito del sistema universale di tutela descritto dal Patto internazionale sui diritti civili e politici (d’ora in avanti, anche solo Patto o Pidcp).
2. Anzitutto, al pari delle più note convenzioni regionali a protezione dei diritti fondamentali, anche il Patto ammette restrizioni di alcuni diritti fondamentali in ragione della salvaguardia di interessi statali. Fra questi, rientrano anche gli artt. 12 e 21 Pidcp, che, ponendosi rispettivamente a tutela della libertà di movimento e di riunione pacifica, sono qui maggiormente rilevanti. Dette disposizioni disciplinano la facoltà dello Stato di limitare tali diritti per esigenze dovute alla legge, alla necessità di salvaguardare la sicurezza nazionale, la moralità collettiva e anche la sanità pubblica. In questi casi, la compressione del diritto, diversamente calibrata a seconda del suo contenuto, risponde a esigenze ordinarie di ordine pubblico e non necessita di comunicazione alle altre Parti del trattato.
Ben distinta è invece l’eventualità della sospensione temporanea del Patto in situazioni di emergenza, prevista dall’art. 4 Pidcp, e applicabile solo nel caso in cui non sia possibile fronteggiare una situazione eccezionale ed emergenziale se non incidendo in maniera sostanziale sul godimento del diritto, e dunque sospendendo, per una durata limitata a quella dell’emergenza, la protezione che gli è dovuta da parte dello Stato membro. La disciplina della clausola di deroga del Patto prevede che «[i]n caso di pericolo pubblico eccezionale, che minacci l’esistenza della nazione e venga proclamato con atto ufficiale» (art. 4 par. 1 Pidcp) gli Stati possano derogare agli obblighi imposti in virtù del trattato, restando impregiudicato il rispetto dell’obbligo di non discriminazione e un nocciolo duro di diritti, in cui figurano il diritto alla vita (art. 6), il divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti (art. 7), di schiavitù e servitù (art. 8 par. 1 e 2), e i principi di legalità e irretroattività della legge penale (art. 15). Dal punto di vista procedurale, a ogni Stato viene poi imposto, dall’art. 4 par. 3 Picpc, di comunicare alle altre Parti le disposizioni oggetto della deroga, unitamente ai motivi per cui si rende necessaria, tramite il Segretario generale delle Nazioni Unite. Sempre a quest’ultimo, gli Stati sono poi obbligati a notificare la cessazione dell’emergenza.
In queste ultime settimane, l’adozione delle misure finalizzate all’isolamento del virus da parte di un gran numero di Stati membri del Patto (fra i quali, ad esempio, quelli menzionati in incipit) ha inevitabilmente gettato luce sulla distinzione tra restrizioni ordinariamente ammissibili – e dunque non temporanee e indipendenti da emergenze – e vere e proprie deroghe. Il discrimine tra queste due fattispecie viene normalmente individuato, dalla dottrina maggioritaria, alla luce di una duplice valutazione, relativa sia alle dimensioni dell’emergenza che all’incisività dell’interferenza del potere statale sul diritto in esame.
Nel caso in questione, nessun dubbio sembra potersi sollevare in ordine alle dimensioni generalizzate dell’emergenza, se solo si considera la facilità di diffusione del virus ed il fatto stesso che tale diffusione abbia dato luogo ad una vera e propria pandemia, come riconosciuto dalla stessa Organizzazione mondiale della Sanità (d’ora in avanti OMS).
Il livello di severità di questi provvedimenti è invece variabile e dev’essere oggetto di una valutazione caso per caso. Per quel che concerne l’Italia, è indubbio che l’interferenza statale sia tale da incidere sulla sostanza dei diritti di cui agli artt. 12 e 22 del Patto. Infatti, secondo quanto stabilito dal General Comment n. 27 del Comitato dei diritti umani sul diritto alla libertà di movimento, par. 2, le restrizioni previste dall’art. 12 «must not nullify the principle of the freedom of movement», mentre il Draft General Comment on the Right of Peaceful Assembly, par. 40, stabilisce che limitazioni del diritto di riunione pacifica sono consentite, ma dovrebbero essere ridotte al minimo. Il Governo Conte, nell’ambito dei vari decreti susseguitisi ad integrazione del decreto legge n. 6 del 23 febbraio 2020 (si veda, oltre al Decreto del 9 marzo 2020, cit., anche qui, qui, qui e qui) ha imposto restrizioni sempre più drastiche dei diritti in esame. Tali decreti hanno, inter alia, stabilito la sospensione degli eventi e delle manifestazioni sportive, culturali e ludiche; il divieto assoluto di mobilità dal proprio domicilio per le persone sottoposte alla misura di quarantena; la sospensione dell’attività didattica negli edifici scolastici e la previsione di sanzioni amministrative e, financo, penali, per la violazione di dette disposizioni. Da ultimo, il Decreto del 22 marzo 2020 (qui) ha fatto divieto a tutte le persone fisiche di trasferirsi o spostarsi in un comune diverso rispetto a quello in cui attualmente si trovano, fatte salve straordinarie eccezioni.
In tutti i casi in cui l’ingerenza statale integri un tale livello di severità, si impone una vera e propria deroga rispetto ai diritti fondamentali di riunione e movimento di cui agli artt. 12 e 21 del Patto. D’altronde, la posizione finora assunta da numerosi Stati – come mettono efficacemente in luce le parole di Macron supra citate – tende ad equiparare l’emergenza sanitaria innescata dal COVID-19 a quella, grave ed eccezionale, dei conflitti armati, che ricade nell’ambito di applicazione della sospensione dei trattati (l’art. 15 della Convenzione europea dei diritti umani, d’ora in avanti Cedu, menziona espressamente l’ipotesi di guerra quale fattispecie in relazione alla quale va invocata la deroga). Come già messo in luce da Sommario in questo blog, Lettonia, Estonia, Romania, Moldavia e Armenia hanno del resto attivato le procedure di notifica della deroga ex art. 15 Cedu, e, vista la rapida evoluzione degli eventi, potrebbero essere seguite da altre Parti contraenti nelle ore a seguire (il numero delle dichiarazioni unilaterali di deroga notificate al Consiglio d’Europa può essere monitorato qui).
3. Dichiarazioni unilaterali di deroga, motivate dall’esigenza di contenere la diffusione del COVID-19, hanno interessato non solo la Cedu, ma anche il Patto. Sono infatti datate 16 marzo 2020 e 9 marzo 2020 le dichiarazioni di Lettonia e Guatemala, in cui si invoca l’applicazione dell’art. 4 Pidcp per la durata di 30 giorni. Attualmente, in entrambi gli Stati vige lo stato di emergenza, proclamato con ampia pubblicità, nonostante il contenuto numero di contagi in entrambi i Paesi (v. qui), dal Guatemala, in data 5 marzo 2020, e dalla Lettonia, il 12 marzo 2020. Il prerequisito dell’«ufficialità dell’atto», che stando al General Comment n. 29/2001 del Comitato dei diritti umani, par. 17, rappresenta una condicio sine qua non per l’esercizio della deroga, è dunque, in entrambi i casi, apparentemente rispettato. Sembra infatti soddisfatta la finalità della dichiarazione di emergenza mediante canali ufficiali, che è funzionale, come chiarito dallo stesso Comitato, a consentire al meglio il monitoraggio sulla corretta applicazione del Patto e a scongiurare eventuali abusi della clausola di deroga (General Comment 29/2001, cit., par. 17). Sia sulla conformità al Patto delle notifiche adottate in deroga, sia sulla conformità delle misure alle singole disposizioni oggetto di deroga, il Comitato, in virtù dei poteri che gli sono conferiti dall’art. 40 Pidcp, può, del resto, presentare rapporti e osservazioni, fermo restando che tale facoltà può essere esercitata riguardo al merito delle misure, anche in assenza dalla comunicazione di deroga (sul punto, Siehr). Per quel che riguarda l’Italia, è pur vero che la nostra Costituzione non contempla espressamente la dichiarazione dello stato d’emergenza, ma, alla luce di quanto esposto finora, è possibile ritenere che, vista l’ampia pubblicità che ha caratterizzato i decreti Conte già citati, essi possano considerarsi atti sufficientemente ‘ufficiali’ sulla base della ratio della norma stessa, e dunque soddisfare il prerequisito formale di cui all’art. 4 par. 1.
4. Ciò posto, ci si può quindi chiedere quali siano i tratti di fondo degli orientamenti del Comitato in materia, al fine di orientarsi nella prassi dei provvedimenti di contrasto alla diffusione della pandemia.
Occorre domandarsi, in primissima battuta, se l’emergenza innescata dal COVID-19 possa rientrare nell’ampia nozione di «pericolo che minacci l’esistenza della nazione». A tal proposito, il General Comment n. 29 (par. 3 ss., cit.) ha dettato un’interpretazione restrittiva dei presupposti applicativi dell’art. 4(1) Pidcp, in base al quale «[n]ot every disturbance or catastrophe qualifies as a public emergency which threatens the life of the nation» (par. 3). Conflitti armati (par. 3), catastrofi naturali, rivolte di massa e incidenti industriali (par. 5) vengono menzionati quali esempi di stati d’eccezione ed emergenziali, ma non si precisa più dettagliatamente cosa possa essere definita come «emergenza pubblica». Tuttavia, a stare a quanto sostenuto da Siehr (op. cit., p. 582), la nozione di «pericolo pubblico che minacci la vita della nazione» ai sensi dell’art. 15 Cedu, così come interpretato dalla Corte edu (v. Lawless c. Irlanda, Greek case, Ireland v. United Kingdom) potrebbe essere rilevante anche ai fini dell’interpretazione dell’art. 4 Pidcp, vista la nota tendenza alla cross-fertilization fra organi internazionali di tutela dei diritti umani (sul punto, v. tra i tanti Hennebel).
Criteri ermeneutici utili ai nostri fini sono poi ricavabili da alcuni atti di soft law. Tanto i Paris Minimum Standards of Human Rights Norms in State of Emergency e i Siracusa Principles on the Limitation and Derogation Provisions in the International Covenant on Civil and Political Rights forniscono linee guida piuttosto univoche per la ricostruzione della nozione in esame.
In base alla definizione dei Paris Minimum Standard, sez. A., lett. B, l’«emergenza pubblica» deve essere intesa come una situazione eccezionale di crisi o pericolo pubblico, attuale o imminente, che affligge l’intera popolazione o l’intera popolazione dell’area in cui la deroga si applica, tale da costituire «una minaccia alla vita organizzata della comunità di cui lo Stato è composto» (traduzione di chi scrive). In questi termini si esprimono i Siracusa Principles, che alla sez. II, lett. A(b), aggiungono anche che tale minaccia deve costituire un pericolo per la «integrità fisica della popolazione […] e l’esistenza del funzionamento basilare delle istituzioni indispensabile per tutelare e proteggere i diritti tutelati dal Patto».
Muovendo ora sul piano della prassi relativa al Patto, l’eventualità che un’emergenza sanitaria di eccezionale gravità possa rientrare nell’ambito di applicazione dell’art. 4 par. 1 si è, in verità, già posta, quantomeno – a quel che risulta a chi scrive – in un’occasione. Nel marzo 2006, la Georgia ha infatti esercitato la propria facoltà di deroga al fine di far fronte all’epidemia di aviaria (scientificamente nota come «virus H5N1») in tutto il territorio nazionale. L’influenza aviaria, secondo la definizione dell’OMS, è un virus che non si propaga mediante il contatto tra esseri umani, potendosi contrarre solo dalla vicinanza con uccelli infetti. Dato che, secondo un comunicato stampa del governo georgiano, nei pressi di un lago nella città di Devia, nella regione del Khelvachauri, erano stati trovati morti 11 cigni, risultati poi infetti da aviaria a seguito di analisi condotte in laboratorio, la Georgia, sulla scorta delle indicazioni dell’OMS (e qui si presenta un’altra analogia con il caso del Coronavirus), che già nel 2005 aveva allertato la comunità internazionale circa il possibile sviluppo di una pandemia di aviaria, aveva successivamente dichiarato lo stato di emergenza in Khevalchauri con il Decreto n. 173 del 28 febbraio 2006. Più specificamente, nella comunicazione al Segretario Generale delle Nazioni Unite veniva dichiarata l’intenzione di derogare ai diritti di proprietà e movimento, in linea con quanto previsto dagli artt. 21, 22 e 46 della Costituzione della Georgia «al fine di impedire la diffusione del virus sul territorio nazionale». Tale dichiarazione suscita, in verità, qualche perplessità, dato che il virus dell’aviaria non si trasmette mediante il contatto umano, non risultando dunque, né necessarie, né proporzionate, le misure adottate. La notifica georgiana non è stata però oggetto di disamina da parte del Comitato, né venne posta in discussione da parte degli altri Stati contraenti (Sommario et al., 2018). Probabilmente, tale circostanza è dovuta al fatto che, in data 23 marzo 2006, lo stato di emergenza in Georgia cessava di avere effetto come risulta dalla comunicazione al Segretario generale.
Nessuna indicazione può quindi ricavarsi dal caso in questione ai nostri fini. Assumendo che in linea di principio l’ipotesi di epidemia – e dunque, a fortiori, di pandemia – ricada nell’ambito di applicazione dell’art. 4(1) Pidcp, occorre allora procedere in base alle premesse normative interpretative più generali, poco sopra indicate.
Alla luce della rapidità e facilità di contagio caratterizzanti il COVID-19, così come della mancanza di terapie o vaccini in grado di garantire la sussistenza di cure adeguate per tutti (o anche solo per un gran numero di contagiati in alcuni Stati), nessun ostacolo sembra, in verità, porsi all’invocazione della deroga. È noto, infatti, che il virus costituisce una minaccia all’integrità fisica di intere collettività umane, visto che nessun membro della popolazione risulta immune dal contagio, nemmeno individui giovani e senza patologie pregresse, i quali possono sviluppare, analogamente agli anziani, disfunzioni gravi dell’apparato respiratorio. Le modalità correnti di trattamento della polmonite interstiziale bilaterale cagionata dal virus, secondo quanto sperimentato sia in Cina che in Italia, richiedono inoltre periodi mediamente lunghi di degenza e apparecchiature mediche che, se insufficienti, mettono a rischio la stessa garanzia del diritto inderogabile alla vita di cui all’art. 6 del Patto. Pertanto, nel caso in cui sussistano questi elementi, e vi sia un numero di contagi tale da rendere il pericolo di una rapida diffusione del contagio attuale o anche solo imminente, la sospensione dei diritti di movimento e riunione, previsti dagli artt. 12 e 21 del Patto, così come del diritto alla libertà di circolazione, non parrebbe configurare un utilizzo abusivo della deroga di cui all’art. 4 Pidcp. A proposito dell’attualità ed imminenza del pericolo, basta poi ricordare che lo scorso 7 marzo 2020, l’OMS ha ufficialmente comunicato agli Stati il superamento di 100 mila contagi da COVID-19 in tutto il mondo, incitando gli Stati a intraprendere «ogni sforzo possibile al contenimento del virus». Proprio in forza di questi dati – peraltro richiamati espressamente dalla dichiarazione di deroga al Patto presentata dal Guatemala due giorni dopo – può dunque non ritenersi decisivo, ai fini dell’individuazione del confine tra «prevenzione» e «imminenza», il superamento di una certa soglia di contagi in un determinato territorio nazionale. Requisito, quest’ultimo, che sarebbe stato invece determinante, ove l’epidemia non avesse avuto una dimensione internazionale.
Quanto appena sottolineato vale peraltro in situazioni incerte, come quelle in corso di svolgimento; vale a dire, in assenza di basi scientifiche certe che consentano di dimostrare che gli Stati dispongano di mezzi differenti e altrettanto efficaci per salvaguardare la popolazione ed evitare il collasso del sistema sanitario, che non siano la compressione generalizzata di alcuni diritti, a fini di tutela della salute collettiva, e dunque della vita. È invece ragionevole ritenere che, in presenza di differenti presupposti, sarebbe possibile servirsi di restrizioni ordinarie di taluni diritti, senza pervenire alla loro sospensione generalizzata, come sta per lo più avvenendo, e come avviene oggi in Italia (v. ancora supra). Secondo i Siracusa Principles, la valutazione circa i provvedimenti restrittivi, da assumersi per ragioni di sanità pubblica, va compiuta infatti con «dovuto riguardo alle indicazioni in materia sanitaria dell’Organizzazione Mondiale della Sanità» (Siracusa principles, cit., sez. I lett. B, n. iv). Pertanto, l’ipotetica ammissibilità di una deroga non esclude che, alla luce di un avanzamento degli studi scientifici sul COVID-19, che consentano di mettere in evidenza modalità ugualmente efficaci di contenimento della malattia, ma non altrettanto limitative di diritti individuali, tale posizione non debba essere rivista.
Per ora va però va detto che lo stesso Comitato, messo in allarme dalla situazione di estrema gravità palesatasi ai primi di marzo, è stato tenuto ad adottare misure di prevenzione alla diffusione del contagio: in data 13 marzo la 128esima sessione di lavori del Comitato è infatti stata sospesa.
5. In sintesi, il drammatico incremento dei contagi in tutta Europa – soprattutto in Italia – rende assai difficile negare la sussistenza di una situazione d’emergenza di estrema serietà, tale da rientrare nell’ambito di applicazione dell’articolo 4 del Patto. Il numero di notifiche finora effettuate al Segretario generale delle Nazioni unite risulta peraltro esiguo in rapporto agli Stati parti del Patto stesso che al momento hanno imposto restrizioni assai rilevanti delle libertà da questo tutelate.
Per quanto concerne, nello specifico, l’Italia, alla luce delle premesse svolte, la comunicazione della deroga – che, ribadiamo, costituisce un vero e proprio obbligo, ai sensi del Patto, in caso di sospensioni generalizzate dei diritti tutelati – è quantomeno auspicabile. Posto che finora dal nostro Paese non è stata invocata nemmeno la clausola di deroga prevista dal sistema regionale della Cedu, sarebbe opportuno considerare di attivare i meccanismi procedurali relativi ad entrambi i trattati. D’altra parte, la comunicazione di una doppia e contestuale richiesta di deroga, in presenza dei medesimi presupposti fattuali, trova specifici riscontri nella prassi. Basti ricordare che nell’attuale contesto dovuto all’epidemia di COVID-19, la Lettonia ha già provveduto agli adempimenti previsti dagli artt. 15 Cedu e 4 Pidcp; e che in maniera analoga avevano proceduto la Francia nel 2015, in risposta agli attentati compiuti dall’ISIS (v. qui e qui, e la Turchia a partire dal 2016, in conseguenza del tentato coup d’état (v. qui e qui).
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