La sospensione dei termini processuali da parte della Corte europea per l’emergenza Covid-19
Andrea Saccucci, Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”
1. Le misure eccezionali adottate dalla Corte per fronteggiare la situazione di emergenza sanitaria
Con un comunicato stampa diffuso dalla Cancelleria della Corte europea dei diritti dell’uomo il 16 marzo 2020 (cfr. Press Release, Registrar of the Court, ECHR 094 (2020), 16.03.2020), è stata annunciata l’adozione da parte della Corte di una serie di misure eccezionali per rispondere alla crisi sanitaria globale senza precedenti dovuta alla diffusione pandemica del Covid-19, che tengono conto delle recenti decisioni adottate al riguardo dalle autorità dello Stato francese e dallo stesso Consiglio d’Europa (è proprio del 16 marzo 2020 il decreto del Presidente della Repubblica francese che, con effetto a partire dal giorno successivo, ha disposto una serie di misure straordinarie per il contenimento del contagio tra cui la limitazione degli spostamenti non giustificati da necessità di lavoro, di salute, di acquisto di beni di prima necessità, di assistenza e di esercizio fisico individuale e la chiusura degli esercizi commerciali non aventi ad oggetto servizi essenziali).
Stando a tale comunicato, saranno mantenute “in linea di principio” le “attività essenziali” della Corte, in particolare l’esame dei casi prioritari e delle richieste di misure cautelari ai sensi dell’art. 39 del Regolamento della Corte. Al fine di assicurare la continuità delle funzioni, (anche) la Corte ricorrerà in linea generale alle modalità del telelavoro. I locali della Corte non sono più accessibili al pubblico e le udienze calendarizzate per i mesi di marzo e aprile sono state cancellate in attesa di successive determinazioni.
La misura più rilevante (e sicuramente eccezionale) è costituita dalla sospensione “a titolo eccezionale per un periodo di un mese a partire da lunedì 16 marzo 2020” del termine di sei mesi per l’introduzione dei ricorsi individuali stabilito dall’art. 35 par. 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU). A ciò si aggiunge la “sospensione per la durata di un mese a partire dal 16 marzo 2020” di tutti i termini assegnati nei procedimenti pendenti.
Queste nuove modalità di funzionamento saranno costantemente riesaminate in funzione dell’evoluzione della situazione sanitaria, al fine di assicurare la continuità della Corte “nel rispetto della normativa adottata dallo Stato ospitante”.
Da sottolineare sin d’ora che, come per prassi, il comunicato stampa predisposto dalla Cancelleria della Corte “non vincola la Corte”, anche se in questo caso non vi sono altri documenti ufficiali pubblicati dalla stessa Corte europea al riguardo.
Con un successivo comunicato stampa del 27 marzo 2020 (cfr. Press release, Registrar of the Court , ECHR 103 (2020), 27.03.2020), oltre a confermare le misure eccezionali annunciate in precedenza, si è reso noto che “la Corte ha deciso di non notificare alcuna ulteriore sentenza o decisione fino alla ripresa dell’attività ordinaria” e che, di conseguenza, “con l’eccezione della Grande Camera e dei casi particolarmente urgenti, la Corte continuerà ad adottare sentenze e decisioni ma posticiperà la loro pubblicazione fino a quel momento”.
2. Il fondamento giuridico della sospensione del termine di sei mesi disposta dalla Corte
Rispetto alle misure straordinarie adottate dalla Corte, la prima (e forse la più rilevante) questione meritevole di approfondimento giuridico riguarda il fondamento giuridico della sospensione del termine di sei mesi stabilito dall’art. 35 par. 1 CEDU per l’introduzione dei ricorsi individuali.
È chiaro che detta misura è ampiamente giustificata sul piano pratico dallo stato attuale di evoluzione dell’emergenza sanitaria da Covid-19 a livello europeo e dalle severe restrizioni che sono state adottate in diversi Stati membri del Consiglio d’Europa, a partire dall’Italia, dalla Spagna e dalla Francia, restrizioni che incidono anche sullo svolgimento delle attività giudiziarie e difensive.
Ci si può chiedere tuttavia se la Corte abbia, in base alla Convenzione, il potere di disporre proprio motu una sospensione generalizzata del termine di sei mesi incidendo, così, sull’applicazione della relativa condizione di ammissibilità dei ricorsi individuali stabilita dall’art. 35 par. 1 CEDU.
A ben vedere, un siffatto potere non è previsto dalla Convenzione né può ritenersi implicitamente attribuito alla Corte come espressione della sua potestà regolamentare.
L’unica disposizione regolamentare riguardante specificamente le modalità di applicazione del termine di sei mesi è costituita dall’art. 47 par. 6 del Regolamento della Corte, così come modificato a partire dal 1 gennaio 2014, a norma del quale “la data di introduzione del ricorso ai fini dell’art. 35 par. 1 della Convenzione è la data in cui viene inviato alla Corte un formulario di ricorso che soddisfa i requisiti stabiliti nel presente articolo” (lett. a) con la precisazione che “ove lo ritenga giustificato, la Corte può, tuttavia, decidere che una data diversa debba essere considerata come data di introduzione del ricorso” (lett. b).
Benché nella prassi tale ultima disposizione sia applicata dalla Corte (recte: dalla Cancelleria) in modo estremamente intransigente, essendo di regola esclusa la “retrodatazione” del ricorso nel caso di riscontrate irregolarità formali nel primo invio (cfr. la Practice Direction on Institution of Proceedings, par. 1, adottata dal Presidente della Corte ai sensi dell’art. 32 del Regolamento; gli effetti della modifica dell’art. 47 del Regolamento ai fini del computo del termine semestrale sono analiticamente illustrati in Malysh e Ivanin c. Ucraina, ricorsi nn. 40139/14 e 41418/14, decisione del 9 settembre), nulla esclude che, caso per caso, essa possa stabilire – anche in rapporto all’attuale situazione di emergenza sanitaria – che debba considerarsi come “data di introduzione del ricorso” ai fini della regola dei sei mesi una data anteriore a quella di effettiva trasmissione di un formulario di ricorso completo di tutti gli elementi richiesti dall’art. 47 del Regolamento.
Ma non è questo il provvedimento adottato dalla Corte, almeno per quanto è dato evincere dal richiamato comunicato stampa della Cancelleria (che, come si è detto, “non vincola” la Corte stessa).
La Corte ha, infatti, disposto una sospensione generalizzata del termine di sei mesi svincolata dall’applicazione della norma regolamentare in questione, e quindi a prescindere sia dalle circostanze particolari esistenti nei singoli Stati parte (e dalle situazioni di oggettiva difficoltà, se non talvolta di vera e propria impossibilità, nella predisposizione e trasmissione del formulario di ricorso) sia dall’eventuale invio di un ricorso incompleto o non pienamente rispettoso dei requisiti formali di cui all’art. 47 del Regolamento.
Se, lo si ripete, detta misura è allo stato del tutto ragionevole e giustificata per fare fronte alla situazione straordinaria di emergenza, tanto più considerando la pacifica inoperatività delle singole legislazioni nazionali in tema di sospensione dei termini processuali (per costante giurisprudenza, il rispetto del termine di sei mesi è stabilito dalla Corte in base a criteri autonomi che non sono vincolati alle singole legislazioni nazionali, e ciò al fine di garantire la certezza giuridica, la corretta amministrazione della giustizia e l’effettivo funzionamento del meccanismo convenzionale: cfr. BENet Praha, spol. sr.o. c. Repubblica Ceca, ricorso n. 38354/06, decisione del 28 settembre 2010, Otto c. Germania, ricorso n. 21425/06, decisione del 10 novembre 2009; e Sabri Güneş c. Turchia [GC], ricorso n. 27396/06, sentenza del 29 giugno 2012, par. 56), essa non sembra avere un fondamento giuridico nella Convenzione, non essendo la Corte munita del potere di derogare alle norme convenzionali che stabiliscono i requisiti di ammissibilità dei ricorsi individuali. Ed un tale potere non può, neppure implicitamente, esserle riconosciuto (ad esempio, per “inerenza” alla sua funzione giurisdizionale principale o quale estrinsecazione dell’autonomia regolamentare conferitale dall’art. 25 CEDU), tanto più in relazione ad un criterio di ammissibilità che, per consolidata giurisprudenza, è espressione di una regola di public policy in quanto finalizzata alla garanzia della sicurezza dei rapporti giuridici nell’interesse generale degli Stati contraenti e degli stessi individui e che, come tale, è considerato tassativo e irrinunciabile.
In particolare, secondo la Corte, la regola dei sei mesi “marks out the temporal limit of the supervision exercised by the Court and signals, both to individuals and State authorities, the period beyond which such supervision is no longer possible” e “it reflects the wish of the High Contracting Parties to prevent past judgments being constantly called into question and constitutes a legitimate concern for order, stability and peace” (cfr. Idalov c. Russia [GC], ricorso n. 5826/03, sentenza del 22 maggio 2012, par. 128; Sabri Güneş c. Turchia, cit., par. 40, e Lopes de Sousa Fernandes c. Portogallo [GC], ricorso n. 56080/13, sentenza del 19 dicembre 2017, par. 129). Per questa ragione, la Corte ha costantemente affermato che il termine dei sei mesi è una regola di applicazione necessaria che essa ha giurisdizione ad applicare anche in assenza di un’eccezione da parte del Governo convenuto (cfr., ad esempio, Svinarenko e Slydanev c. Russia [GC], ricorsi nn. 32541/08 e 43441/08, sentenza del 17 luglio 2014, par. 85, Blokhin c. Russia [GC], ricorso n. 47152/06, sentenza del 23 marzo 2016, par. 102, Merabishvili c. Georgia [GC], ricorso n. 72508/13, sentenza del 28 novembre 2017, par. 247, e Radomilja e altri c. Croazia [GC], ricorsi nn. 37685/10 e 22768/12, sentenza del 20 marzo 2018, par. 138).
D’altronde, è la stessa giurisprudenza della Corte ad aver espressamente riconosciuto che “[i] t is not open to the Court to set aside the application of the six‑month rule” (cfr. Malysh e Ivanin c. Ucraina, cit., e Belaousof e altri c. Grecia, ricorso n. 66296/01, sentenza del 27 maggio 2004, par. 38).
Neppure può a nostro avviso ritenersi che la misura della sospensione generalizzata del termine di sei mesi trovi un fondamento giuridico plausibile nella competenza generale della Corte ad interpretare ed applicare le norme convenzionali stabilita dall’art. 32 par. 1 CEDU e nella sua correlata competenza a risolvere ogni controversia relativa alla propria giurisdizione di cui all’art. 32 par. 2 CEDU (c.d. Kompetenz–Kompetenz). Da un lato, infatti, l’esercizio di tali competenze presuppone che la questione sia stata “sottoposta” all’esame della Corte ai sensi degli artt. 33 (ricorso interstatale), 34 (ricorso individuale), 46 (richiesta di parere su questioni di esecuzione o avvio della procedura di infrazione per mancata esecuzione da parte del Comitato dei ministri) o 47 (richiesta di parere da parte del Comitato dei ministri), mentre la misura in questione è destinata ad operare per le questioni che potranno essere sottoposte in futuro alla Corte ma di cui essa non è stata ancora investita; dall’altro lato, nei termini in cui è stata annunciata, detta misura è chiaramente diretta a “sospendere in via eccezionale” il termine di sei mesi e non già a fornire una particolare interpretazione circa le modalità di computo dello stesso o circa i motivi che potrebbero giustificare, caso per caso, l’invio di un ricorso tardivo.
3. Le possibili alternative “derogatorie” per la sospensione del termine di sei mesi a garanzia dell’effettività del diritto di ricorso individuale
Ma quali potrebbero essere, allora, le alternative in concreto praticabili per dare fondamento giuridico alla (necessaria) sospensione del termine semestrale? Vi sono, a nostro avviso, tre possibili strade da seguire, tutte pienamente legittime sul piano convenzionale.
La prima è una soluzione di tipo puramente “statale” che implica un ricorso atipico all’istituto della deroga disciplinato dall’art. 15 CEDU, istituto cui alcuni Stati – tra i quali, piuttosto sorprendentemente, non figura tuttora l’Italia – hanno già fatto ricorso in relazione alle misure di contenimento del contagio da Covid-19 (allo stato attuale, gli Stati che si sono avvalsi ufficialmente della facoltà di deroga di cui all’art. 15 CEDU per l’emergenza Covid-19 sono l’Armenia, l’Estonia, la Lettonia, la Moldova e la Romania: per il testo vedi qui). Premesso che può ritenersi abbastanza pacifica nella specie la sussistenza di uno “stato di emergenza” ai sensi di tale disposizione (sul tema delle limitazioni dei diritti umani in situazioni di emergenza sanitaria globale si veda amplius S. Negri, Salute pubblica, sicurezza e diritti umani nel diritto internazionale, Torino, 2018), riteniamo che lo strumento della deroga potrebbe essere utilizzato dagli Stati anche per sospendere il decorso del termine semestrale stabilito dall’art. 35 par. 1 CEDU.
Vero è che tale istituto è stato congegnato originariamente per consentire agli Stati contraenti di adottare misure eccezionali in deroga ai loro obblighi convenzionali di protezione dei diritti umani, limitando così la loro responsabilità internazionale rispetto alle compressioni di tali diritti strettamente necessarie per fare fronte alla situazione di emergenza, ed è stato sino ad oggi utilizzato dagli Stati solamente a questo scopo (per una ricognizione della prassi in materia di deroghe si vedano, tra i più recenti autori italiani, V. Eboli, La tutela dei diritti umani negli stati di emergenza, Milano 2010, E. Sommario, Stati di emergenza e trattati sui diritti umani, Torino, 2018, e A.J. Palma, Gli stati di eccezione nel diritto internazionale, Napoli, 2019). Ma è vero anche che la regola dei sei mesi costituisce pur sempre un “obbligo convenzionale di natura procedurale” (i cui destinatari sono direttamente i singoli individui che intendano proporre un ricorso individuale ai sensi dell’art. 34 CEDU e di cui la Corte è tenuta ex officio a verificare il rispetto) e che rientra nel potere degli Stati quello di adottare misure derogatorie delle regole procedurali dirette ad assicurare l’effettività del diritto di ricorso individuale in tempo di crisi e che siano vincolanti per la stessa Corte europea.
In fondo, in una situazione di calamità sanitaria quale quella di cui trattasi, tutte le misure derogatorie adottate dagli Stati – pur comportando forti compressioni di talune libertà fondamentali – sono funzionali ad una maggiore tutela dei diritti individuali, ivi incluso il diritto alla tutela giurisdizionale effettiva, che altrimenti rischierebbe di essere compromesso. Ed è proprio in questa direzione che si muovono le misure eccezionali adottate dal Governo italiano con riferimento allo svolgimento delle attività giudiziarie e, segnatamente, l’art. 83 del d.l. 17 marzo 2020, n. 18, che ha disposto per il periodo dal 9 marzo al 15 aprile 2020 il rinvio d’ufficio di tutte le udienze civili e penali calendarizzate, con possibilità di un ulteriore rinvio sino al 30 giugno 2020 su disposizione dei capi degli uffici giudiziari; la sospensione dei termini per il compimento di qualsiasi atto dei procedimenti civili e penali per il medesimo periodo; e la sospensione della decorrenza dei termini di prescrizione e decadenza dei diritti che possono essere esercitati esclusivamente mediante il compimento delle attività precluse. Sicché non può escludersi che gli Stati formulino una deroga convenzionale avente l’effetto di “congelare” il decorso del termine semestrale al fine di consentire ai singoli individui di avvalersi in modo effettivo del diritto di ricorso individuale (così come prescritto dall’art. 34 in fine CEDU), ancorché ciò possa determinare, in linea astratta, un ampliamento (anziché una limitazione) della loro responsabilità internazionale per eventuali violazioni dei diritti protetti.
Il ricorso alla deroga potrebbe, inoltre, realizzarsi secondo due diverse modalità.
Da un lato, potrebbero essere i singoli Stati, nell’esercizio della propria discrezionalità e tenuto conto della specificità della propria situazione interna e dell’intensità delle misure restrittive adottate per farvi fronte, a formulare una deroga all’art. 35 par. 1 CEDU per il tempo ritenuto necessario, deroga che potrebbe riguardare tanto i diritti sostanziali particolarmente incisi dalle misure straordinarie di contenimento sanitario (ovviamente, nei limiti in cui l’art. 15 CEDU lo consente) quanto l’applicazione della regola dei sei mesi.
Dall’altro lato, una misura del genere potrebbe essere anche adottata da alcuni o da tutti gli Stati parte congiuntamente nella forma di una “deroga collettiva”, ove si ritenga che lo stato di emergenza causato dalla pandemia sia sostanzialmente equivalente in tutti detti Stati. Una siffatta “deroga collettiva” potrebbe anche consistere in un vero e proprio accordo internazionale stipulato in forma semplificata con il quale gli Stati potrebbero anche demandare alla stessa Corte europea il potere di stabilire la durata della sospensione in funzione dell’evolversi dell’emergenza sanitaria a livello europeo (nel qual caso, essa verrebbe formalmente munita del potere convenzionale di incidere sul termine di sei mesi).
La seconda soluzione possibile è di tipo “giudiziale” e potrebbe essere attuata in autonomia (e in modo convenzionalmente legittimo) dalla stessa Corte europea, senza il consenso degli Stati parte, mediante l’esercizio della propria potestà regolamentare al fine di derogare alle regole procedurali, da essa stessa dettate, per l’introduzione dei ricorsi individuali e per la determinazione della data di presentazione del ricorso.
Posto che, allo stato attuale di evoluzione della crisi sanitaria, le maggiori difficoltà scaturiscono proprio dalle numerose formalità richieste dall’art. 47 del Regolamento della Corte e dal fatto che solo l’invio di un ricorso valido dal punto di vista “amministrativo” interrompe il decorso del termine semestrale, ben potrebbe la Corte derogare a tale disposizione onde consentire a tutti i soggetti interessati di esercitare il proprio diritto di ricorso individuale con modalità di massima semplificazione, riservando ad un momento successivo la trasmissione di un formulario completo di tutti i requisiti formali richiesti.
In particolare, la Corte potrebbe “ripristinare”, almeno per il periodo di durata dell’emergenza sanitaria, la prassi in vigore fino al 1 gennaio 2014 della c.d. “lettera di denuncia”, in forza della quale l’invio (a mezzo posta o fax) di una comunicazione contenente una sintetica esposizione dell’oggetto del ricorso era sufficiente a interrompere il decorso del termine semestrale (alla data dell’invio e non della ricezione) con conseguente assegnazione di un termine (modulabile e prorogabile per comprovate esigenze) entro cui provvedere all’invio di un ricorso completo di tutti gli elementi e dei documenti richiesti dall’art. 47 del Regolamento (per una descrizione di tale prassi si rinvia a A. Saccucci, Art. 34, in Commentario alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, a cura di S. Bartole, P. De Sena, V. Zagrebelsky, Padova, 2012, p. 646).
Inoltre, ed anche a prescindere dall’invio di una “lettera di denuncia”, la Corte potrebbe stabilire espressamente che, nel caso di comprovate difficoltà legate all’emergenza sanitaria e per tutto il tempo di durata della stessa all’interno dei singoli Stati contraenti, il ricorso – anche se introdotto (in forma completa o incompleta) dopo il decorso del termine di sei mesi dalla data della decisione interna definitiva – si considererà presentato entro la scadenza di detto termine.
Questa soluzione di tipo giudiziale non risolverebbe certo tutti i problemi che l’emergenza sanitaria potrebbe porre, specialmente se – come purtroppo, alla data in cui si scrive, sembra ineluttabile – saranno ampliate e prorogate le misure di contenimento del contagio nei vari Stati europei. Ma certamente sarebbe un segno tangibile dell’impegno della Corte stessa volto a garantire l’effettivo esercizio del diritto di ricorso individuale.
La terza soluzione possibile è di tipo “misto” nel senso che alla sua realizzazione concorrerebbero sia gli Stati parte attraverso la propria legislazione nazionale emergenziale sia la stessa Corte europea attraverso l’esercizio delle competenze ad esse attribuite dall’art. 32 CEDU.
Come si è ricordato, sino ad oggi, la giurisprudenza della Corte (e prima di essa quella della Commissione) sull’interpretazione autonoma del termine semestrale ha escluso la rilevanza delle singole normative nazionali relative alle modalità di computo dei termini processuali, ivi comprese quelle che dispongono la sospensione del decorso di detti termini comunemente nei periodi feriali o nei giorni festivi (cfr., per tutte, Sabri Güneş c. Turchia [GC], cit., paragrafi 43-59, con ivi ulteriori riferimenti giurisprudenziali, ove la Corte ha altresì escluso la rilevanza della Convenzione europea sul computo dei termini del 16 maggio 1972, in quanto ratificata da pochissimi Stati e non espressiva di un consenso generalizzato in materia).
In una situazione di emergenza quale quella attuale in cui molti Stati, fra cui come si è detto l’Italia, hanno disposto come misura eccezionale la sospensione dei termini processuali per tenere conto delle difficoltà oggettive legate all’esperimento delle azioni giudiziarie, la Corte potrebbe derogare in via provvisoria alla sua precedente giurisprudenza e ritenere operanti le singole legislazioni nazionali sulla sospensione dei termini processuali anche in rapporto al termine di sei mesi previsto dall’art. 35 par. 1 CEDU. Ciò rientrerebbe a pieno titolo nel perimetro della sua giurisdizione esclusiva ad interpretare ed applicare le norme convenzionali ed a risolvere eventuali controversie relative all’estensione di tale giurisdizione di cui all’art. 32 CEDU, consentendo di tenere conto, in modo specifico, della situazione di emergenza sanitaria esistente nei singoli Stati contraenti (anche prima della data del 16 marzo 2020) sulla base delle valutazioni effettuate da questi ultimi alla luce dello sviluppo del contagio.
Non si tratterebbe, in questo caso, di una sospensione generalizzata del termine di sei mesi operata jure proprio dalla Corte, ma di una particolare interpretazione dei criteri di determinazione del dies ad quem di tale termine alla luce delle legislazioni nazionali funzionale alla salvaguardia dell’effettività del diritto di ricorso individuale e, quindi, perfettamente coerente con l’oggetto e lo scopo del trattato (al riguardo, la stessa Corte ha riconosciuto che l’interpretazione autonoma del termine di sei mesi è diretta “to ensure the effective exercise of the right to individual petition”: cfr., ad esempio, Sociedad Anonima del Ucieza c. Spagna, ricorso n. 38963/08, sentenza del 4 novembre 2014, par. 45, Sabri Güneş c. Turchia [GC], cit., par. 55, e Zakrzewska c. Polonia, ricorso n. 49927/06, sentenza del 16 dicembre 2008, par. 55). E nulla esclude che, per dare certezza ai ricorrenti in merito ai tempi di introduzione del ricorso, la Corte possa “preannunciare” la sua intenzione di ritenere rilevanti, ai fini del computo del termine di sei mesi, le singole legislazioni nazionali sulla sospensione dei termini processuali.
D’altro canto, se è pur vero che una scelta del genere potrebbe comportare una modulazione differenziata del termine di sei mesi per i vari Stati contraenti in funzione delle rispettive previsioni legislative (limite, questo, evidenziato dalla Corte in Sabri Güneş c. Turchia [GC], cit., par. 56), ci sembra che, nella situazione eccezionale di cui trattasi, essa sia del tutto accettabile proprio nell’ottica “to ensure legal certainty, proper administration of justice and thus, the practical and effective functioning of the Convention mechanism” (cfr. ibidem).
L’adozione di una delle soluzioni derogatorie sopra prospettate avrebbe comunque vari vantaggi, il primo e più importante dei quali sarebbe quello di consentire un adattamento costante all’evolversi della situazione di emergenza sanitaria che, allo stato attuale, non sembra destinata ad esaurirsi entro il periodo di un mese per cui è stata disposta la sospensione. Da un lato, infatti, la deroga statale, individuale o collettiva, potrebbe essere prorogata all’occorrenza. Dall’altro, la Corte potrebbe sempre “giustificare” il mancato rispetto del termine semestrale da parte di quei soggetti che alleghino di aver incontrato oggettive difficoltà nell’invio tempestivo del ricorso a causa dell’emergenza sanitaria ovvero in base alle legislazioni nazionali sulla sospensione dei termini di volta in volta rilevanti.
Altrimenti, vi è il rischio che, alla scadenza della prima misura di sospensione prevista per il 16 aprile 2020, la Corte si trovi nella necessità di valutare una proroga della stessa che – oltre a riproporre i dubbi espressi poco sopra in merito al fondamento convenzionale di una tale misura – finirebbero con il creare una situazione di estrema incertezza in merito all’effettivo decorso del termine di sei mesi e all’applicazione della relativa condizione di ammissibilità. Incertezza che, allo stato, è aggravata dai dubbi in ordine agli effetti della sospensione disposta dalla Corte (vedi paragrafo successivo).
In ogni caso, a garanzia dell’effettività del diritto di ricorso individuale sarebbe assolutamente auspicabile che, per tutto il periodo della disposta sospensione del termine di sei mesi, la Corte “sospenda” provvisoriamente anche l’applicazione dei requisiti formali stabiliti dall’art. 47 del Regolamento ai fini della valida introduzione di un ricorso (nei termini intransigenti in cui essa è attualmente richiesta dalla prassi). E ciò per evitare che coloro i quali, nonostante la sospensione del termine, introducano comunque in questo periodo un ricorso che difetta di alcuno dei predetti requisiti (ad esempio, per mancanza o incompletezza dei documenti allegati o per mancanza di una procura in originale), si veda poi recapitare, magari tra qualche mese, una decisione di inammissibilità “amministrativa” del ricorso con conseguente decadenza dal termine semestrale.
Un assouplissement dell’applicazione intransigente dell’art. 47 del Regolamento, in questo momento, è fondamentale per assicurare che proprio la Corte europea non pecchi di quell’eccessivo formalismo che, in molti casi, essa ha rimproverato agli Stati contraenti dal punto di vista del diritto di accesso ad un giudice tutelato dall’art. 6 par. 1 CEDU (cfr., per tutte, Trevisanato c. Italia, ricorso n. 32610/07, sentenza del 15 settembre 2016, paragrafi 32-47, e Zubac c .Croazia [GC], ricorso n. 40160/12, sentenza del 5 aprile 2018, paragrafi 96-99).
4. I dubbi sull’operatività della sospensione del termine di sei mesi e dei termini processuali
Come si è detto, il comunicato stampa della Cancelleria annuncia che “il termine di sei mesi per l’introduzione di un ricorso, previsto dall’art. 35 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, è sospeso a titolo eccezionale per un periodo di un mese a partire da lunedì 16 marzo 2020”. Analoga sospensione è disposta per “tutti i termini assegnati nei procedimenti pendenti”.
Al di là della sua apparente chiarezza, l’interpretazione da dare a tale annuncio è tutt’altro che scontata e richiederà assai probabilmente un chiarimento da parte della stessa Corte (che si auspica intervenga nel più breve tempo possibile onde evitare possibili “errori” soprattutto per quanto concerne il rispetto del termine semestrale di cui all’art. 35 par. 1 CEDU). Ciò che, in particolare, il comunicato allo stato non chiarisce è se la “sospensione” operi come una mera posticipazione automatica fino al 16 aprile 2020 dei termini in scadenza nel mese precedente ovvero come un vero e proprio “congelamento” per la durata di un mese del decorso di detti termini. La differenza non è, evidentemente, di poco conto.
Ove si aderisca alla prima soluzione, qualsiasi termine che verrebbe a scadenza tra il 16 marzo e il 16 aprile 2020 si dovrà intendere automaticamente prorogato al 17 aprile 2020. Quindi, per fare un esempio, se il termine di sei mesi dalla data di deposito della decisione interna definitiva fosse venuto a scadenza il giorno 16 marzo, questo si intenderà prorogato al 17 aprile. Analogamente, un eventuale termine per memorie in scadenza alla data del 16 marzo si intenderà prorogato al 17 aprile. Una lettura del genere non coprirebbe dunque non soltanto i termini venuti a scadenza nei giorni immediatamente precedenti il 16 marzo 2020 (nonostante le difficoltà obiettive registratesi in vari Paesi, primo fra tutti l’Italia, già dall’8 marzo a causa della diffusione massiccia del contagio e delle misure eccezionali di contenimento adottate dal Governo, fra cui la sospensione dei termini giudiziari); ma anche e soprattutto non coprirebbe (salva ulteriore proroga) i termini che verrebbero a scadenza a partire dal 17 aprile 2020, per i quali dunque la scadenza resterebbe quella originaria.
Ove si aderisca, invece, alla seconda soluzione, qualsiasi termine che, alla data del 16 marzo 2020, sia già cominciato a decorrere ma non sia già venuto a scadenza si dovrà intendere automaticamente prorogato per la durata di un mese. Quindi, per riprendere gli stessi esempi, se il termine di sei mesi fosse cominciato a decorrere il 15 marzo 2020 (in coincidenza con il deposito in quella data della decisione interna definitiva), questo resterà sospeso per la durata di un mese dal 16 marzo al 16 aprile e verrà dunque a scadere il 15 ottobre 2020 (anziché il 15 settembre). Analogamente, un eventuale termine per memorie già assegnato prima del 16 marzo con scadenza per il 17 aprile o per un giorno ad esso successivo dovrà intendersi automaticamente prorogato per la durata di un mese.
Premesso che anche questa seconda lettura non tiene conto delle obiettive difficoltà che i ricorrenti potrebbero aver incontrato nel rispetto dei termini processuali venuti a scadere nei giorni immediatamente precedenti il 16 marzo, essa è sicuramente quella che, da un lato, meglio risponde alla finalità per cui la sospensione è stata disposta e, dall’altro, presenta minori difficoltà di applicazione pratica (uniformandosi del resto alle equivalenti sospensioni dei termini processuali disposte all’interno dei singoli ordinamenti nazionali).
È vero che di tale misura potrebbero in astratto avvantaggiarsi anche coloro i quali, al momento della scadenza del termine, non incontreranno alcuna difficoltà obiettiva determinata dall’emergenza sanitaria (nella speranza che essa si esaurisca nell’arco di qualche mese), ma è vero anche che la ratio della sospensione dovrebbe essere quella di “neutralizzare” per tutti gli effetti temporali del lockdown conseguente all’emergenza sanitaria e la conseguente “perdita” di una parte del termine assegnato per l’espletamento dell’attività processuale. Sarebbe d’altronde profondamente “ingiusto” – accogliendo la prima soluzione – costringere i ricorrenti a rispettare una scadenza di poco successiva al termine del periodo di sospensione avendo essi comunque avuto un minor tempo a disposizione per la predisposizione del ricorso o della memoria difensiva ed avendo incontrato le maggiori difficoltà proprio nel periodo finale di decorso del termine in prossimità della sua scadenza.
Ora, se il dubbio interpretativo che si è appena evidenziato risulta essere scarsamente significativo sul piano pratico per quanto concerne la sospensione dei termini relativi ai procedimenti pendenti, essendo in tali casi sempre possibile richiedere una proroga del termine ed essendo la prassi della Corte orientata a concedere detta proroga in presenza di giustificati motivi, esso si rivela invece “critico” per quanto concerne l’applicazione della regola dei sei mesi per l’introduzione del ricorso. Stando al comunicato stampa di cui sopra ed in assenza di ulteriori chiarimenti è, infatti, legittimo allo stato attuale nutrire dubbi in merito a quale sarà la soluzione infine accolta dalla Corte stessa con possibili ripercussioni inemendabili sul rispetto della condizioni di ammissibilità stabilita dall’art. 35 par. 1 CEDU.
Se è plausibile che, alla luce della gravità della situazione di emergenza sanitaria e del suo carattere transnazionale, la Corte adotterà un atteggiamento di particolare favor per i ricorrenti, non può neppure escludersi che siano gli Stati stessi, in mancanza di chiare indicazioni preventive da parte della Corte, ad eccepire (magari a distanza di anni dall’introduzione del ricorso) il mancato rispetto del termine semestrale da parte di chi abbia ragionevolmente fatto affidamento sulla possibilità di avvalersi della “sospensione” di un mese del predetto termine senza addurre giustificazioni valide in ordine all’impossibilità di rispettarlo alla data della sua scadenza naturale (successiva, magari di diversi mesi, alla fine del periodo di sospensione).
5. Il rispetto della legislazione emergenziale adottata dallo Stato ospitante
Un ulteriore aspetto, emergente dal comunicato stampa, che merita di essere brevemente approfondito riguarda il riferimento all’impegno della Corte a rivalutare le proprie modalità di funzionamento “nel rispetto della normativa adottata dallo Stato ospitante”, e cioè dalla Francia. La materia dei rapporti tra la Corte europea e la Francia è regolata dall’Accordo speciale relativo alla sede del Consiglio d’Europa fatto a Parigi il 2 settembre 1949 (“Accordo speciale”), oltre che – per quanto riguarda specificamente l’esenzione fiscale – dall’Accordo complementare all’Accordo generale sui privilegi e le immunità del Consiglio d’Europa fatto a Parigi il 18 marzo 1950.
L’art. 1 dell’Accordo speciale – in conformità alla prassi convenzionale generalmente seguita al riguardo (cfr., in particolare, A.S. Muller, International Organizations and Their Host States. Aspects of Their Legal Relationship, The Hague, 1995, p. 134) – stabilisce che “salvo sia diversamente previsto nel presente Accordo o nell’Accordo generale sui privilegi e le immunità, il diritto francese si applica all’interno dei locali e degli edifici della sede del Consiglio d’Europa”.
Fermo restando il potere del Consiglio d’Europa di adottare misure regolamentari volte a facilitare, all’interno dei propri edifici e locali, il pieno esercizio delle sue attribuzioni (art. 2) e ferma restando l’inviolabilità della sede (art. 3), l’Organizzazione (di cui fa parte integrante anche la Corte europea) è dunque tenuta, in linea di principio, ad uniformarsi alle particolari misure restrittive stabilite dall’ordinamento francese per il contenimento dell’emergenza sanitaria da Covid-19.
Premesso che, sino alla data in cui si scrive, dette misure non hanno ancora raggiunto l’intensità di un lockdown totale come nel caso dell’Italia (soprattutto per quanto riguarda lo svolgimento dell’attività giudiziaria), si deve osservare come l’applicazione alla Corte europea della legislazione dello Stato ospitante non sembra potersi estendere anche alle regole di funzionamento degli uffici giudiziari nazionali e alle eventuali misure incidenti sui termini processuali. Quand’anche, dunque, la Francia dovesse disporre, come accaduto in Italia, la sospensione totale di qualsiasi attività giudiziaria non urgente e dei termini processuali, la Corte non sarebbe giuridicamente tenuta a fare altrettanto, ferma restando però la necessità di rispettare le particolari misure precauzionali e di sicurezza sanitaria nello svolgimento dell’attività lavorativa, quale ad esempio il ricorso al telelavoro.
Se non è escluso in linea di principio che la Corte possa, comunque, uniformarsi alle particolari regole dettate dalla legislazione francese per lo svolgimento dell’attività giudiziaria nel periodo della crisi (anche per quanto riguarda l’eventuale sospensione dei termini processuali), ciò non farebbe comunque venire meno l’esigenza per la Corte di provvedere in modo autonomo tenendo conto del complessivo sviluppo dell’emergenza sanitaria nei vari Stati parte della Convenzione, onde evitare che la continuità del funzionamento sia ancorata esclusivamente alla particolare situazione esistente in Francia.
Anche da questo punto di vista, dunque, il ricorso alle misure derogatorie “statali”, “giudiziarie” o “miste” sopra accennate potrebbe tornare utile al fine di garantire un trattamento europeo “uniforme” (ma non necessariamente “uguale”) per tutti i possibili fruitori del sistema di garanzia istituito dalla CEDU che tenga conto delle difficoltà oggettive nell’esercizio del diritto di ricorso individuale previsto dall’art. 34 CEDU.
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