“Friends, not foes”: qualificazione penalistica delle attività delle ONG di soccorso in mare alla luce del diritto internazionale e tipicità della condotta
Cesare Pitea (membro della redazione) e Stefano Zirulia, Università degli Studi di Milano
1. Le vicende che vedono protagoniste navi di organizzazioni non governative (ONG) impegnate nel soccorso di migranti lungo la rotta del Mediterraneo centrale stanno alimentando un delicato dibattito, per certi aspetti del tutto inedito, sui confini che separano un’attività umanitaria, lecita e a certe condizioni doverosa, dalla violazione della vigente disciplina italiana sull’immigrazione e sul contrasto al traffico di migranti, a sua volta adottata anche in attuazione di normative europee (direttiva 2002/90/CE e la decisione quadro 2002/946/GAI, rispettivamente sulla definizione e sulla repressione del favoreggiamento dell’ingresso, del transito e del soggiorno illegali).
Il problema del “reato di solidarietà”, nei suoi profili fattuali e nei suoi principali risvolti politici e giudiziari, è noto (per una sintesi a livello europeo, v. la nota del 2018, e l’aggiornamento del 2019, dell’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali). Sin dal 2015 alcune ONG tentano di colmare il vuoto di tutela della vita in mare venutosi a creare a fronte della contrazione delle operazioni italiane finalizzate al soccorso di migranti, predisponendo assetti navali per il monitoraggio e il salvataggio nel Mediterraneo centrale (Masera). Queste attività, tuttavia, hanno condotto all’avvio di indagini per favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, seguite sul fronte governativo da iniziative specificamente volte, dapprima, a regolamentare con strumenti atipici e con una chiara finalità ostruttiva l’attività delle stesse (v. il Codice di condotta imposto dal Governo italiano nel 2017, sul quale v. Mussi e il documento redatto da ASGI) e, infine, a impedire e sanzionare condotte preordinate al trasporto in Italia delle persone tratte in salvo (v. le direttive del Ministro dell’Interno del 18 marzo, del 28 marzo, del 4 aprile e del 15 aprile 2019 e, in ultimo, il d.l. n. 53/2019, c.d. “decreto sicurezza-bis”, sul quale v. Zirulia e Zaniboni, nonché, per i profili di diritto internazionale del mare, Papanicolopulu e Cataldi); il tutto accompagnato da una campagna politica e mediatica che considera le stesse ONG complici degli scafisti e dunque fattore di aumento, anziché di diminuzione, dei rischi per la vita delle persone.
Non si può non osservare che i principali argomenti di cui si alimenta la narrazione anti-ONG si sono finora dimostrati privi di consistenza:
– l’argomento del pull-factor, che ricollega all’intensità dei soccorsi un effetto di incentivo delle partenze irregolari, è stato smentito dagli studi che ne hanno testata la validità alla luce dei dati disponibili (Steinhilper e Gruijters);
– l’argomento della collusione con i trafficanti, secondo cui non si tratterebbe di salvataggi veri e propri bensì di consegne concordate con i trafficanti, non ha trovato riscontri giudiziari, ad eccezione delle isolate statuizioni del GIP di Trapani nel decreto di sequestro della nave Iuventa, senza peraltro che ad oggi (a due anni di distanza) sia stata formulata richiesta di rinvio a giudizio.
Al contrario, i dati mostrano una correlazione tra l’assenza delle navi delle ONG nel Mediterraneo centrale e l’aumento della probabilità di perdere la vita per chi affronta la traversata (Villa). A conti fatti, dunque, insistere sulla disfunzionalità dei salvataggi in mare rispetto agli obiettivi di proteggere le frontiere e gli stessi migranti appare, più che una lucida analisi della realtà, un cinico tentativo di screditare l’operato dei pochi che, sostituendosi funzionalmente alla inazione di Stati e organizzazioni internazionali che pure avrebbero obblighi e competenze in tal senso, si stanno coraggiosamente facendo carico di una grave ed evidente emergenza umanitaria, al costo di affrontare il rischio di incorrere in severe sanzioni amministrative e penali (per più ampie riflessioni, v. De Sena e Starita).
Tali considerazioni, peraltro, non rendono superflua una riflessione anche in punto di diritto sull’operato dell’ONG; anzi, per certi aspetti ne rafforzano la necessità, specialmente con riguardo al momento più delicato – e in ultima analisi maggiormente controverso – delle operazioni di soccorso: quello cioè immediatamente successivo al recupero delle persone in pericolo, consistente nella loro conduzione presso un place of safety sulla terraferma.
È in quest’ultima fase, infatti, che dal punto di vista strettamente materiale si concretizza quel “contributo” all’ingresso di stranieri privi di regolare visto che viene da alcuni considerato elusivo della disciplina nazionale e internazionale in materia di contrasto all’immigrazione irregolare (v., in tal senso, il terzo paragrafo del preambolo al d.-l. sicurezza-bis).
Scopo delle osservazioni che seguono è mettere in luce un profilo rimasto tutto sommato finora sullo sfondo dei dibattiti in materia: quello cioè secondo cui le condotte di comandanti ed equipaggi delle ONG volte a condurre sul territorio italiano le persone recuperate sono, nelle condizioni materiali nelle quali esse si realizzano nella pratica, da considerarsi lecite per difetto di tipicità, prima ancora che in ragione dell’operatività delle scriminanti dell’adempimento del dovere (v. Trib. Agrigento, Uff. GIP, ord. 2 luglio 2019, giud. Vella, qui), dello stato di necessità (v. Trib. Ragusa, decr. 16.4.2018, qui) e, in ipotesi, della legittima difesa (v., mutatis mutandis, Trib. Trapani, Uff. GIP, sent. 23 maggio 2019, Giud. Grillo, qui con commento di Masera). Ciò perché le persone condotte in territorio italiano, prima ancora che come migranti irregolari o richiedenti asilo, devono essere qualificate, alla luce del diritto internazionale, come naufraghi, con la rilevante conseguenza che il loro ingresso delle persone trasportate non può considerarsi in contrasto con la normativa nazionale in materia di immigrazione.
2. Questa riflessione – che non è necessariamente applicabile a peculiari condotte “incidentali” rispetto alla navigazione verso un porto sicuro e alla loro possibile diversa qualificazione giuridica (ad esempio, violenza privata ex art. 610 c.p., violenza o resistenza contro nave da guerra ex art. 1100 cod. nav., resistenza a pubblico ufficiale ex art. 337 c.p.) – è invece di centrale rilevanza in relazione alle norme la cui applicazione è oggetto dei due principali strumenti messi in campo, rispettivamente da parte delle autorità giudiziarie e di governo, per prevenire e reprimere le attività delle ONG:
a) l’avvio di indagini per favoreggiamento dell’immigrazione irregolare (art. 12 del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, di seguito T.U. immigrazione); e
b) l’emanazione di divieti di ingresso ad hoc ai sensi delle disposizioni introdotte dal decreto sicurezza-bis (art. 11, co. 1-ter, T.U. immigrazione, introdotto dall’art. 1, del d.-l. 14 giugno 2019, n. 53, in corso di conversione), ossia di una normativa a sua volta adottata allo specifico scopo di contrastare l’attività di salvataggio svolta dalle ONG, nonché l’applicazione di pesanti sanzioni amministrative pecuniarie e ablatorie in caso di violazione dei divieti stessi (art. 12, co. 6-bis, T.U. immigrazione, introdotto dall’art. 2, co. 1 del medesimo d.-l.).
Le due ipotesi sono accomunate dal rilievo che in esse viene dato alla circostanza che l’ingresso/sbarco delle persone avvenga in violazione della normativa in materia di immigrazione.
3. Nel primo caso, l’art. 12, co. 1, del T.U. immigrazione racchiude, come è noto, la fattispecie incriminatrice che ormai quasi sistematicamente viene contestata dalle procure ai comandanti (e talvolta ai capi missione e ai membri dell’equipaggio) delle navi delle ONG che scelgono le coste siciliane come porto sicuro per lo sbarco dei migranti soccorsi. Si tratta di un reato a consumazione anticipata, che punisce chiunque, «in violazione delle disposizioni del presente testo unico», realizzi una delle condotte di favoreggiamento specificamente individuate («promuove, dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto») o comunque pone in essere «atti diretti a procurare illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato» di soggetti stranieri; formula di chiusura quest’ultima evidentemente in grado di abbracciare un ventaglio particolarmente esteso di situazioni eterogenee, senza necessità che l’ingresso irregolare si sia effettivamente realizzato. Sul fronte sanzionatorio, è prevista la reclusione da uno a cinque anni, oltre alla multa di 15.000 euro per ogni persona trasportata; peraltro, nelle ipotesi di cui ci occupiamo, viene normalmente in rilievo l’aggravante di cui al comma 3, lett. a), che prevede la reclusione da cinque a quindici anni se il fatto riguarda l’ingresso di cinque o più persone.
L’offesa sanzionata dalla norma in esame è incentrata sulla clausola «in violazione delle disposizioni del presente testo unico»: il che è del tutto ragionevole, poiché le condotte in questione (organizzare il viaggio, effettuare il trasporto, etc.) assumono disvalore solo in quanto rivolte a persone che, secondo la disciplina sull’immigrazione, sono prive di titolo per l’ingresso. Come verrà nel prosieguo illustrato, proprio il difetto di tale requisito di illeceità determina l’irrilevanza penale delle condotte di trasporto nel territorio dello Stato poste in essere immediatamente dopo al salvataggio in mare, a completamento dell’obbligo di soccorso sancito dalle convenzioni internazionali e dallo stesso Codice della navigazione.
4. Similmente, il nuovo art. 11, co 1-ter, del T.U. immigrazione attribuisce al Ministro dell’interno, di concerto con i Ministri dei trasporti e delle infrastrutture e della difesa, la competenza ad adottare provvedimenti interdittivi o limitativi dell’ingresso e del transito nel mare territoriale, sia per generici motivi attinenti all’ordine pubblico e alla sicurezza (ipotesi che non rileva in questa sede), sia – più specificatamente – quando si concretizzi l’ipotesi disciplinata dall’art. 19, par. 2, lett. f, della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (Montego Bay, 1982, di seguito “Convenzione ONU sul diritto del mare”), nella parte in cui, tipizzando una delle ipotesi nelle quali il passaggio di una nave straniera nelle acque territoriali non può considerarsi inoffensivo, definisce come pregiudizievole alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello Stato costiero la navigazione di una nave impegnata in un’attività di «carico o scarico di […] persone in violazione delle leggi e dei regolamenti [….] di immigrazione vigenti nello Stato costiero».
Tali provvedimenti, specifica la disposizione, saranno adottati «nel rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia». Questa precisazione, ancorché ridondante sotto il profilo meramente normativo, ha il merito di mettere in evidenza che sia i presupposti per la qualificazione del passaggio di una nave quale “non inoffensivo”, sia l’esercizio del potere di limitare la navigazione nel mare territoriale qualora i suddetti presupposti si realizzino (e quindi anche di sanzionare soggetti che non si attengano ai relativi provvedimenti), devono essere valutati alla luce dell’insieme di obblighi internazionali gravanti sull’Italia, in forza del diritto internazionale generale (art. 10 della Costituzione) e pattizio (art. 117 della Costituzione e ordine di esecuzione di ciascun trattato rilevante). In particolare, ci ricorda la necessità di coordinare tale disposizione con gli obblighi derivanti dall’insieme di norme che presiedono alle attività di tutela della vita in mare.
5. Veniamo, dunque, alle ragioni in virtù delle quali – come anticipato – riteniamo che né il reato di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, né i divieti adottati in attuazione dell’art. 11, co. 1-ter, del T.U. immigrazione possano trovare applicazione alle condotte di trasporto in Italia dei migranti soccorsi in acque internazionali. L’obbligo di soccorso a carico degli Stati e dei comandanti (sancito in via consuetudinaria e ribadito in varie fonti pattizie, tra cui l’articolo 98, par. 1, della Convenzione ONU sul diritto del mare; la regola n. 33, par. 1, del Capitolo V dell’Allegato alla Convenzione per la salvaguardia della via umana in mare (SOLAS) del 1974, come successivamente modificata (per una recente versione accessibile del testo consolidato, v. qui); e l’articolo 10 della Convenzione di Londra sul salvataggio del 1989, v. qui, qui e qui le rispettive leggi di autorizzazione alla ratifica ed esecuzione) abbraccia sia la fase del salvataggio in senso stretto, sia quella immediatamente successiva del trasporto delle persone presso un place of safety, come inequivocabilmente chiarito dal capitolo 1.3.2, dell’Annesso alla Convenzione internazionale sulla ricerca ed il salvataggio marittimo del 1979 (Convenzione SAR), il quale, nel testo in vigore a seguito dell’emendamento del 1989, definisce l’operazione di salvataggio quale quella «destinata a recuperare le persone in pericolo ed a prodigare loro le prime cure mediche o altre di cui potrebbero aver bisogno ed a trasportarle in un luogo sicuro» (corsivo nostro). È importante sottolineare che il place of safety può solo provvisoriamente coincidere con la nave che ha operato il soccorso, ovvero altra imbarcazione idonea, dovendosi l’operazione necessariamente concludere, entro un tempo ragionevole, sulla terraferma: in quest’ottica, il concetto di place of safety viene sostanzialmente a coincidere con la nozione, giuridicamente indefinita, ma di uso corrente, di porto sicuro (cfr. i Principi-guida sul trattamento delle persone salvate in mare, adottati nel 2004 dall’IMO, nn. 6.13 e 6.14).
Posto che gli obblighi appena richiamati prescindono dallo status giuridico delle persone tratte in salvo (Annesso alla Convenzione SAR, cap. 2.1.10) e che le c.d. «non-SAR issues» (inclusa la determinazione di status) dovrebbero essere separate dall’operazione di salvataggio e non ritardare la sua conclusione (Principi-guida sul trattamento delle persone salvate in mare, nn. 6.19 e 6.20), si ritiene che, fintantoché l’operazione di salvataggio non sia terminata con lo sbarco in un place of safety, la condizione di naufraghi (o secondo il termine utilizzato dai principi-guida «sopravvissuti»), prevale ed esclude temporaneamente la rilevanza della loro qualificazione quali “migranti” (regolari o no) o “rifugiati”.
Tale qualificazione trova il suo precipitato normativo nazionale nell’art. 10-ter del T.U. immigrazione, che regola lo svolgimento delle operazioni di prima assistenza ed identificazione presso i punti di crisi (hotspots) allestiti sul territorio, operazioni che hanno come destinatario «lo straniero rintracciato in occasione dell’attraversamento irregolare della frontiera interna o esterna ovvero giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare» (corsivo nostro): una formulazione testuale che non lascia dubbi in merito alla distinzione tra naufrago e persona che attraversa irregolarmente la frontiera; ciò, ovviamente, senza pregiudizio alcuno per i successivi accertamenti in ordine al suo status (segnatamente al possesso delle condizioni per il riconoscimento della protezione internazionale o che comunque ne legittimino la permanenza) e all’eventuale avvio del procedimento di allontanamento ai sensi dell’art. 13 T.U. immigrazione.
Del resto, la Corte di cassazione ha a più riprese affermato che i migranti tratti in salvo in acque internazionali e successivamente trasportati in Italia per necessità di pubblico soccorso non possono considerarsi entrati illegalmente e pertanto non possono considerarsi autori del reato di cui all’art. 10-bis del T.U. immigrazione (da ultimo, Cass. pen., sez. I, 16.11.2016, n. 53691, Alli; in precedenza, nello stesso senso, Cass. pen., sez. un., 28.4.2016, n. 40517, Taysir; Cass. pen., sez. I, 1.10.2015, n. 39719, Mohammed). Tale principio è stato affermato nel contesto, diverso da quello qui in esame, dell’utilizzabilità processuale delle dichiarazioni accusatorie rilasciate dai migranti nei confronti degli scafisti, la quale soggiacerebbe a requisiti più restrittivi laddove i dichiaranti fossero indagati per un reato connesso a quello di favoreggiamento, quale appunto la contravvenzione ex art. 10-bis del T.U. immigrazione. Esso riveste nondimeno una portata ben più ampia, in quanto chiarisce inequivocabilmente che, nel nostro ordinamento, vi è una distinzione tra ingresso irregolare e ingresso avvenuto in esito a un’operazione di soccorso.
A tale conclusione non osta, a nostro avviso, l’interpretazione data dalla Corte di giustizia dell’Unione europea alla nozione di richiedente protezione che «ha varcato illegalmente, per via terrestre, marittima o aerea, in provenienza da un paese terzo, la frontiera di uno Stato membro» ai fini dell’applicazione della regola sulla competenza per l’esame di una domanda di asilo, ai sensi dell’articolo 13 del Regolamento Dublino III.
Come è noto, la Corte ha adottato un’interpretazione rigidamente formalistica di tale espressione nelle sentenze Jafari e A.S. del 2017, ove si chiedeva alla Corte di stabilire se potesse configurarsi come illegittimo l’attraversamento della frontiera tollerato da uno Stato membro per ragioni umanitarie in caso di afflusso straordinario di migranti diretti verso un altro Stato membro.
La Corte ha affermato perentoriamente che «l’attraversamento di una frontiera senza osservare le condizioni richieste dalla normativa applicabile nello Stato membro interessato deve necessariamente essere ritenuta “irregolare”» ai sensi della disposizione ricordata (Jafari, punto 74) e che tale conclusione non può essere mutata dalla circostanza che l’«attraversamento sia stato tollerato o autorizzato in violazione delle norme applicabili ovvero che sia stato autorizzato invocando ragioni umanitarie e derogando ai requisiti di ingresso in linea di principio imposti ai cittadini di paesi terzi» (A.S., punto 39).
Tale soluzione interpretativa, tuttavia, è confermata solo in quanto diversamente si consentirebbe agli Stati membri di sottrarsi dalla responsabilità per l’esame della domanda di protezione internazionale (a discapito del “secondo” Paese di ingresso) e ciò sarebbe incompatibile con l’economia generale e gli obiettivi del Regolamento Dublino III (Jafari, punti, 88 e 89).
Si tratta dunque di una nozione di “irregolarità” specificamente orientata alla tenuta del “sistema Dublino” e, in ultima analisi, del Sistema comune europeo di asilo, che non risulta trasponibile sic et simpliciter nel contesto della repressione penale (o quasi-penale) della condotta agevolatrice di soggetti terzi. In tale contesto, il requisito della violazione della disciplina nazionale sull’immigrazione non adempie una mera funzione procedurale, bensì – come già ricordato – determina il disvalore stesso dell’illecito, sicché non può non tenersi conto di quei fattori, come appunto l’esigenza di soccorrere i naufraghi, che tale disvalore fanno almeno momentaneamente venire meno, dovendosi necessariamente posticipare – come pure già evidenziato – le operazioni di determinazione dello status.
6. Venuta meno, alla luce di tale ricostruzione, la contrarietà della condotta alle norme nazionali in materia di immigrazione, ne discende l’assenza di uno dei presupposti strutturali sia del reato di cui all’art. 12, sia dell’illecito amministrativo di cui al nuovo art. 11, co. 1-ter, del T.U. immigrazione (con conseguente eventuale illegittimità dei provvedimenti interdittivi in base ad esso emanati): in altre parole, rispetto alle condotte finalizzate allo sbarco in un luogo sicuro conformemente al diritto internazionale, difetta in radice la tipicità delle fattispecie (penale e amministrativa).
Giova precisare che tali conclusioni non determinano il venire meno, a monte, della rilevanza penale delle condotte degli “scafisti” che, dall’altro lato del Mediterraneo, contribuiscono all’organizzazione dei traffici irregolari o ne operano materialmente una parte: l’art. 12 del T.U. immigrazione, infatti, configura un reato di pericolo, sicché la sussistenza dell’offesa per il bene giuridico tutelato (l’ordinata gestione dei flussi migratori) deve necessariamente essere valutata ex ante, nel momento cioè in cui gli «atti diretti a procurare illegalmente l’ingresso» vengono materialmente posti in essere, e non invece ex post, allorché per qualunque ragione il proposito delittuoso non vada a buon fine.
Quest’ultima considerazione consente in un certo senso di spiegare il tentativo, da parte di alcuni attori istituzionali, di rappresentare le attività delle ONG come elusive del diritto internazionale e della normativa interna sull’immigrazione, descrivendo i salvataggi come meramente strumentali rispetto all’asserita finalità di agire come “complici” dei trafficanti.
E, si badi bene, questa è un’ipotesi che astrattamente potrebbe risultare fondata se gli Stati coinvolti si conformassero agli obblighi sanciti dal diritto internazionale (o, per usare la metafora di Gradoni e Pasquet, si attenessero al copione che questo imporrebbe loro): garantendo cioè (anche in cooperazione con attori non statali) un servizio efficiente di SAR nel tratto di mare prospiciente la Libia, invece di appaltarlo a entità di dubbia legittimità e di sicura inefficacia, quali il Centro SAR e la c.d. Guardia costiera libiche; nonché cooperando rapidamente e in buona fede per giungere all’individuazione di un luogo ragionevolmente accessibile nelle concrete circostanze del caso ed effettivamente sicuro in uno Stato che abbia acconsentito allo sbarco, così da consentire la conclusione dell’operazione di salvataggio. In questo scenario, il o la comandante che immotivatamente si dirigesse verso un porto diverso da quello assegnato non potrebbe invocare la finalità di salvataggio come prevalentemente caratterizzante il proprio operato, ferma restando peraltro la necessità di valutare la sussistenza di eventuali scriminanti.
Tuttavia, la realtà dei fatti è radicalmente diversa da quella descritta. Al contrario, gli Stati si nascondono dietro la finzione della SAR libica per disinteressarsi delle operazioni di salvataggio (in ciò venendo meno ai propri obblighi), scaricando interamente sul(la) comandante della nave che ha prestato soccorso la responsabilità di una scelta operativa di decidere, alla luce delle circostanze concrete e dei principi sottesi a tale scelta, verso quale porto sicuro fare rotta.
Viene cioè in rilievo quella fase in cui, come di recente evidenziato dal Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, è il comandante stesso, sulla base della propria valutazione professionale della situazione complessiva, a stabilire dove sbarcare le persone soccorse, tenendo in considerazione criteri relativi alla prossimità, alle condizioni metereologiche e di navigazione.
In conclusione, l’atto di varcare il limite esterno del mare territoriale per dirigersi verso le coste italiane al fine di completare un’operazione di salvataggio in un place of safety non integra il fatto tipico del reato di cui all’art. 12 e dell’illecito amministrativo di cui all’art. 11, co. 1-ter del T.U. immigrazione. Ciò sia che tale luogo sia stato indicato dalle autorità che avevano l’obbligo di assumere o che hanno comunque assunto il coordinamento dell’evento di ricerca e soccorso, sia quando, nel vuoto lasciato dall’inazione delle autorità, il comandante della nave abbia esercitato in modo non arbitrario le responsabilità per la conclusione dell’operazione che il diritto internazionale gli/le attribuisce.
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