Ritorno di Anzilotti
Lorenzo Gradoni, Max Planck Institute Luxembourg for Procedural Law (membro della redazione)
Il testo qui riprodotto è stato letto a Roma il 4 giugno 2019, nella sede del CNR, durante la tavola rotonda dal titolo «Gli effetti delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo sul giudicato nazionale», organizzata dai gruppi di interesse DIEDI e DIEDU in occasione del XXIV Convegno nazionale della Società italiana di Diritto internazionale e di diritto dell’Unione europea (SIDI). Micaela Frulli ha interpretato Dionisio Anzilotti donando al testo una vivacità che non avrei saputo nemmeno immaginare. È stato un piacere farle da spalla. Le sue battute sono in tondo, le mie in corsivo. Ho udito che della performance esiste più di un bootleg. Il testo è qui corredato da una nota metodologica e bibliografica.
Buon pomeriggio a tutti. Il XXIV Convegno nazionale della SIDI si celebra nel segno di Dionisio Anzilotti, Maestro venerato da tutti gli internazionalisti, italiani e non, «mostro sacro del diritto internazionale», così lo definì Roberto Ago. Non solo il titolo del convegno riprende quello della monografia anzilottiana del 1905; la presentazione dell’evento – che cita l’esordio di quel libro vecchio più d’un secolo, dove un Anzilotti trentottenne si spaurava davanti alla «nebulosità e incertezza che ancora avvolgono le premesse sistematiche e le stesse basi del diritto internazionale» – fa pensare, rileggetela, a un’invocazione di quello Spirito Magno: «Torna, o Dionisio, perché più d’un secolo dopo la situazione, in fondo, non è cambiata».
Maestro, grazie di aver risposto all’invocazione della SIDI.
Ci mancherebbe, anzi grazie a voi, ché le vostre preci devono aver dischiuso un passaggio tra il mondo sublunare e quello mio. Sa, le due sfere, quella di questo e quella dell’altro mondo (indica il cielo), son nettamente separate, sì che in verun caso si sovrappongono.
Ah, quindi il dualismo è addirittura una legge cosmologica.
Macché! Come imparai mio malgrado una volta asceso, dessa costruzione funziona pei rapporti tra qui e là (indica il cielo) e mai pei rapporti tra qui e qua (indica prima se stesso poi l’interlocutore).
Lei ha dunque abbandonato il dualismo?
Voi l’ignorate – (sottovoce) e infatti mi chiamate! – eppur io, dopo il postremo viaggio, molti lavori ho conchiuso su codesto e altri… topics… come vu’ dite voi.
Finito il Corso in tre volumi?
No, quello no.
Complicato aggiornarsi, di lassù?
Al contrario: io tutto veggio. Difficile, piuttosto, è combatter la noia.
Ma come, con tutto quello che…
Co’ tutti i progressi ch’ha fatto il gius delle genti, certo, ne ho contezza… che meraviglia! Vi spiego, giacché voi non potete sapere, né dovreste! Ma poiché m’avete quaggiù, ecco come stan le cose.
L’empirea sfera volve a rompicollo (mulina l’avambraccio), di guisa che, pe’ noi, il mondo sublunare evolve piano piano. La vostra frenesia apparisce quieta, di lassù. Io devo darmi pizzicotti per ricordarmi che men di settant’anni son trascorsi da quando lasciai la mia vigna di Uzzano. Un vostro minuto son cinque giorni nostri, sa! Tra un arresto e l’altro della Corte dell’Aja passan duemila anni! Sicché io ho letto tutto Klabbers; anzi, tutto di tutti. E ho scritto, moltissimo. Spedisco i manoscritti senza ottener risposta, forse che non arrivano? Ecco, siccome l’avea sottomano, ho portato con me il plico della seconda edizione, ancor provvisoria, de Il diritto internazionale nei giudizi interni (un manoscritto giace sul tavolo).
Acciderba! Può darci qualche anticipazione? Ci sarà il trasformatore permanente…
Anco i controlimiti.
Ah!
V’è financo un capitolo su “Tao e rapporti tra ordinamenti”, con una lunghissima nota sull’I Ching, ove mi chiedo se le portentose monetine son suscettive di portar consiglio a’ giudici, in quest’epoca di gran cozzo intersistemico.
E il tema del seminario di oggi?
Attende ancora compiuta sistemazione, per la quale sarò debitore agli illustri scrittori qui riuniti: ecco il calepino pronto pe’ gli appunti. Ma procediamo con ordine, se non le dispiace, perché, sa, m’arrovellai non poco, eh, ma alfin compresi quel che Gianni volle dirci co’ suoi meditabondi asserti.
Gianni?
Gianni, sì, evvia, il Chelsenio! All’inizio degli anni Sessanta m’allietò anzichenò assister di lassù alla concione tra lui, ch’avea già ottant’anni, e l’ancora semignoto Eriberto Arto. Fu a Berkeley. Tutti sghignazzammo quando Gianni asseverò che il loro l’era un dibattito di tipo affatto nuovo: Gianni l’era d’accordo con l’Arto, ma l’Arto non era d’accordo coi’ Gianni. E se la celia s’acconciava all’Arto, allora vale – com’ora io veggio – pe’ tutti gli altri: i’ Perassi, i’ Balladore, i’ Morelli, i’ Quadri, l’Arangio… per me stesso, diamine, e naturalmente per i’ Maestro presso cui stetti a bottega: il Triepolo.
Perdoni se insito, Maestro, su un punto forse delicato: e il dualismo?
Gianni aveva ragione. E in un certo senso, assai importante, egli era dualis… diciamo duale (adocchia l’interlocutore con aria beffarda). La pare confuso… eh, capisco! Tutto apparisce insolito e financo stravolto, sub specie aeternitatis, cioè, quel tedio maledetto cui la SIDI m’ha sottratto. Lasciate che vi spieghi quel che ho capito di me stesso, a forza di scrutar dappresso la mi’ vita, che pur s’allontana… Principiam dal principio, ma seguitiam tosto, per… come vu’ dite voi… punti-proiettile!
Primo! Il mio rapporto co’ fatti.
Sul finire del secolo decimonono, taluni, confusi dai miraggi proiettati da una scienza nova, la sociologia, non vedevano possibile altro studio scientifico del diritto oltre a quello che scopre le leggi delle sue manifestazioni empiriche. In pratica: fatti!… fatti!… nient’altro che fatti! Ora, i’ era un giovin serio, e filosofo: ’un ero fatto pe’ sta’ co’ ‘sti fatti. Cedere alle pretese della sociologia – allora quanto mai ingenua, impaziente, imperialistica! – voleva dire sacrificare, inconsultamente, le tradizioni più sicure e belle della filosofia del diritto. Io a’ fatti facevo appello, certo, come tutti. Ai Fatti e alla Realtà, contro finzioni ed ippogrifi.
Compresi, perciò, l’amichevole appunto del Gaja, pel quale i miei asserti sul fondamento del diritto internazionale invero non eran frutto di “empirical research”. Ei mi voleva empirista come l’Arto, la qual cosa mai io fui! Idem l’Arangio, ancorché giungendo ad opposte conclusioni: pe’ lui, se io svolgevo dapprima la teoria, e solo dipoi la illustravo con esempi storici ben scelti, ’un era perché anteponevo l’idea ai fatti, ma perché l’idea di quei fatti l’era il lucido specchio. Per l’Arangio, i’ praticavo l’“inductive method”. Quanta affettuosa indulgenza, in nome della comune fede dualista!
Ma per me, che ero seguace dello Hegel, la Realtà non sono i fatti, di certo non i fatti empirici; la Realtà è un impasto difficile di Spirito e Materia, di Cosa e Pensiero. La Realtà è Idea, e a quel tempo, l’Idea suprema, nel giure e non solo, s’incarnava nello Stato. E giungiamo così al punto secondo: lo Stato.
Peccai, io, di statolatria? In realtà, ne fui scevro, a dispetto delle tentazioni dell’epoca, ch’eran potenti. E v’è di più. Nella misura in cui lo celebrai, il culto dello Stato, segretamente lo volsi contro lo Stato medesimo, per mezzo di stratagemmi varii, degni di un antico condottiero cinese. Li vedremo, un per uno. Un po’ di pazienza.
Ante la prima guerra, ma anche poscia, v’era l’abitudine di veder nello Stato il massimo termine di riferimento di tutto ciò che concerne lo sviluppo dell’umanità: una specie di colonna d’Ercole, che moltiplicata in tanti esemplari, circoscrive il mare entro cui fluttua la storia…
Che eloquenza, Maestro.
Ma questi non son’io, che sempre amai la parola disadorna; m’impresta il motto i’ Santi Romano, cui pur piaceva discettar di crisi dello Stato, di superamento dello Stato, e che un po’ l’amava, codesto Stato, un po’ l’odiava.
E lei, Maestro?
Lo lusingai, anch’io, certo, ma solo per ingannarlo.
Cioè?
Ve lo spiego col terzo ed ultimo punto: il diritto internazionale.
Ne fui servo devoto, coscienzioso, instancabile. E all’epoca mia, erta era la via dell’internazionalista, e incerta! ’Un era mica come ora, che voglionsi issar le paratie, tanto ribolle, il gius delle genti. A’ mi’ tempi, la giurisdizione internazionale m’appariva una perigliosa illusione e quel che i’ ritenea esser un «volo di fantasia», oggi, pe’ le Corti europee, l’è pane quotidiano!
Senta un po’ quel che scrissi nella prima edizione del libro: «l’applicazione del diritto internazionale ad opera degli organi giudiziari interni è il mezzo con cui quotidianamente si esplica l’efficacia del diritto internazionale fuori dal campo suo proprio». Capito? Bisognava infiltrarlo, lo Stato! L’adulazione era adunque non solo d’obbligo ma la cascava pure a fagiolo, co’ quella tronfia divinità mondana.
Pigli lo Statuto Albertino, articolo 68: «La giustizia emana dal Re, ed è amministrata a suo nome dai giudici che Egli istituisce». No, dico, emana!
Oggi, in effetti, è giusto «amministrata», nel nome del…
Emana, emana! Dal Re! Mica dal popolo, mica dallo Stato. La costituzione ottriata è, originariamente, parte della giustizia che promana dal Re, il quale stava dentro la costituzione, da lui concessa, ma anche e soprattutto fuori di essa. Il Re incombeva sullo Stato, finché lo Stato non sorse ancor più alto, dapprima sospinto dall’urto della Rivoluzione, dipoi con fatica, ma inesorabilmente, lungo tutto il secolo decimonono. Ebbene io, nella mia partita contro lo Stato, ero disposto a sacrificargli financo il Re, sì che scrissi: «al Monarca, come a qualsivoglia altro organo dello Stato, è conferito un potere perché sia esercitato nell’interesse dello Stato».
Non si sacrifica, il Re, nel giuoco degli scacchi; ma qui, il giuoco, l’era un altro. Sicché anch’io m’univo all’ossequiosa litania: O Stato, massimo tra i fenomeni sociali, perfetta espressione dell’umana socievolezza, tu esisti perché esisti, e nel fatto stesso della tua esistenza trovi la tua ragione e la più alta legittimazione. A niuna potenza terrena sei subietto. Non il gius delle genti ti crea – (sottovoce) ti presuppone… – né ti crea il diritto interno, che sorge in te e con te. Rispetto al giure, tu sei un prius (accenna un marameo), se per diritto s’intende, non un concetto della mente, ma un sistema di norme positivamente vigenti. O Stato, persona immateriale, eppur reale, che incorporea riesci, per mezzo di delicati e meravigliosi congegni giuridici, a formarti, manifestare e imporre una tua Volontà, io ti chiedo…
Non autolimitarti.
Non chiuderti in te stesso. Unisciti ai tuoi pari.
Lascia che il tuo volere si confonda nel mistico crogiuolo nella Volontà Collettiva, sinché…
(voce fuoricampo)
Alle aufhalten! Alle aufhalten!
Vereinbarung! Vereinbarung!
… sinché non giungono le Forze dell’Ordine, mica la polizia, qui si parla d’Ordine con l’“O” maiuscola. E tac! L’obbligo internazionale scatta, metallico e inamovibile come una manetta.
E questo era il primo stratagemma. Il secondo – un po’ tortuoso, debbo ammetterlo – consistea nel negar l’esistenza della comunità internazionale.
Il gius delle genti assoggetta lo Stato, senza tuttavia entificarsi: dov’è l’Ente internazionale? Non è chi non veda… che non v’è! La volontà collettiva non emana da un subietto novo; essa è semplice riunione delle volontà concordanti degli Stati. È una e molteplice: ah, il luminoso genio del Triepolo! O Stato onnipotente, quella volontà collettiva che ora ti si para dinnanzi qual compatta falange, è la tua, mica di qualcun altro (tipo la comunità internazionale). E quel che tu hai voluto, Stato, tu non puoi non conoscerlo, e a menadito!
Prendiamo la consuetudine internazionale: patto tacito, va da sé.
Per la verità, Maestro…
(Anzilotti lo trafigge con lo sguardo)
Patto tacito, chiaro, patto tacito…
Orbene, una sola fiata Mastro Triepolo cadde in fallo: fu quando suggerì che alla discoperta della consuetudine internazionale s’applicassero, per analogia, i principi che valgono per l’accertamento delle consuetudini interne.
Eh no!
Si può concedere che lo Stato poco sappia dei variegati costumi degli individui formicolanti ai piedi del suo alto peristilio, ma ritenere che un Tribunale dello Stato possa ignorare il diritto internazionale non scritto, val quanto ammettere che possa ignorarlo lo Stato medesimo. Il ragionamento è breve, ma serrato e saldo, mi pare: il rigore della conclusione è pari alla certezza delle premesse (guarda l’interlocutore in cerca di consenso). Non acconsente?
Certo, certo: consuetudines novit curia.
Solo quelle internazionali, però!
È dimostrato.
Bene. Ora, a me, di questa volontà dello Stato invero non m’importava un fico secco! Come discopre chiunque ponga mente alla mia teorica dell’interpretazione, ch’io reputo ancor oggi esattissima… (bisbigliando in direzione dell’interlocutore) ma era anche il mio terzo stratagemma!
«Ciò che importa è il pensiero della legge, non quello del legislatore», scrissi. E per render più vero questo, uhm, Pensiero della Legge, io v’intrufolavo volentieri le acquisizioni della Scienza. Perché la scientia iuris richiede sopra tutto rigorosa precisione di concetti e di parole ed io trovavo sovente che, a tal risguardo, i prodotti di codesta volontà statale fossero deficienti alquanto, a cominciar dallo Statuto, di cui era risaputo che non adoperasse un linguaggio tecnicamente esatto, sì che nell’interpretarlo bisognava, più che alle parole usate, guardare al concetto! E se il concetto era, uhm, proprio quello lì che vedevo io, beh, allora perché mai piegarsi alla tirannia di nozioni erronee e superate?
Dal che si ricava com’io guardassi alle cose, com’io leggessi il significato loro: la mia filosofia del linguaggio, direbbesi oggi. Nomina sunt consequentia rerum. Se per l’Arto e pel geniale maestro suo Ostinio, co’ le parole si fan le cose, per me era vero l’opposto: son le cose che, se sol avessero la favella, ci procurerebbero le giuste parole. (meditabondo) A noi scienziati il compito di colmare l’enigmatico silenzio loro e di pensare con chiarezza, nonostante il vaniloquio generale e quella voce, spesso stridente, dello Stato. (sempre più meditabondo) I’ sempre cercai il vero concetto, che giace sovente nascosto sotto il velame d’improprie espressioni, giacché nessuna sfera della conoscenza umana somma in sé così copiose e perenni fonti d’illusioni, come quella che ha per obietto lo studio delle istituzioni politiche e giuridiche… (riprendendo vigore) ma prima ch’io ceda al deliquio della rimembranza, lasciate che dicavi del quarto stratagemma. Che, poi, l’è un corollario del primo.
Due tipi di volontà: statale-individuale; collettiva-internazionale. Due mondi, due sfere del giure, una di qua, l’altra di là dello Stato, rigorosamente separate! Già, perché sotto lo sguardo sospettoso dello Stato non giovava assecondare una compenetrazione reciproca od anche una confusione dell’una sfera con l’altra. Al gius delle genti conveniva delimitarsi e concentrarsi: non dilagare in campo ostile, ma guatar nelle retrovie.
Può un giudizio interno emettersi sulla base del diritto internazionale? In verun caso! Un’assurdità, una violazione del principio dualista che, come scrisse l’Albornio, sarà un’ingegnosa teoria, ma l’è pure un fatto… (sotto voce) absit iniuria verbis!
Frattanto però… Primo! Il gius delle genti, scrivevo, s’applica per risolvere tutte le copiose questioni pregiudiziali o incidentali di sua spettanza; e s’applica direttamente, senza incorporazione o trasformazione. Secondo! È il giudice che l’applica d’ufficio, giacché tutti gli organi dello Stato, inclusi i giudici, sono in contatto col diritto internazionale: gli organi, invero, sono lo Stato o, se par meglio, è lo Stato che in essi agisce e vuole. Se così non fosse, lo Stato altro non sarebbe che un vuoto fantasma.
Terzo! Il potere legislativo dello Stato, allora, s’esplicava libero da ogni vincolo giuridico interno, e il giudice, soggiacendo alla legge, l’applicava senz’altro, anche se contrastante col gius delle genti. Però… però! Valeva, nondimanco, il principio della libertà e indipendenza del giudice: era suo ufficio determinare se e come la contrarietà esistesse, se quello in contrasto col diritto internazionale fosse davvero il giusto significato di lei, della legge, e ciò partendo da un presupposto indubitabile: che lo Stato volesse onorare i propri impegni internazionali.
Insomma… io, col dualismo, ho separato, ma solo per riunire, in una trama inestricabile, interno ed esterno, invero già avvinti in complessi e delicati rapporti. Io, con la mia scienza, facevo politica, per il diritto internazionale.
E Kelsen… pardon, Gian Chelsenio, non faceva politica?
Perbacco, apertamente! And how outspoken he was! Non, però, quando armeggiava col giure, in quel modo tutto suo. S’era detto, or non è guari…
Cioè, poco fa.
Sì… dicevasi, poc’anzi, che il monismo del Chelsenio ha un che di duale. Dico duale, mica dualistico, pe’ carità; ma che sia duplice, non è chi non lo veda! Gli è che, del monismo, Gianni ammetteva due configurazioni, secondo che si ponesse sopra o meglio dinnanzi il diritto interno, oppure, all’inverso, il gius delle genti. E fra le due versioni, che si scegliesse pure a capriccio, tanto, per la dottrina pura, l’era uguale. Ora, questa professione d’indifferenza suscitò vivo scandalo, e ancor ne muove. E si capisce! Come poteva il giurista, lo scienziato, far spallucce, dinnanzi a un sì grave dilemma?
Grave, tuttavia, non era il dilemma ma l’equivoco che ne stava alla base.
(con lieve sconcerto) Cioè a dire?
Segua il filo. Il Giure l’è Uno di per il suo concetto, che è quello di un ordinamento coercitivo, effettivo. Possono fosse darsi effettività in conflitto? Il conflitto infuria, in mille guise, niun lo nega, ma non può inerire all’effettività; in caso contrario, non vi sarebbe diritto. L’esser uno è adunque un trascendentale del Giure. L’altro, è l’esser obiettivo. E un obietto lo si può descrivere, giusto?
Non v’ha dubbio.
E si potrà risguardarlo da più lati, senza perciò cangiarlo. Se, deambulando nel fresco d’una basilica, lei rimira gli spazi ora dal presbiterio, ora dal transetto, non penserà mica che le basiliche sian tante quante son le prospettive, dico bene?
Senza forse.
Così il Giure. Che è quello che è, sì che chi l’osservi, da qualunque angolo, troverà che il contenuto gli è sempre il medesimo; le forme rovesciate, ma equivalenti; le meccaniche: identiche.
Gli scrittori han purtuttavia notato che se muta la prospettiva, anco trasla il primato. (sottovoce) Ormai parlo come lei, Maestro…
Primato! Fu questo concetto a cagionar la disputazione. Eppure, sol che si rifletta calmamente: chi vien prima, è detto forse che primeggi? Chi dinnanzi è posto, deve per forza star sopra?
Chi vien prima, allora, che fa?
Valida! Voce del verbo validare! Che non vuol dire crea. L’ordinamento interno avverte la propria sorgente in se medesimo? Si sente sminuito, lo Stato, se non lo si dice primo, originario? E quale sarebbe la difficoltà? Il gius delle genti li conosce bene codesti tipacci, pieni di sé, non so’ figli suoi ma li prende volentieri a pigione, gl’offre gratis la connessione. L’unica cosa che chiede, è un poco d’obbedienza. E se gliela negano, magari nel mentre s’atteggiano a sovrani nelle rispettive camerette, allora ne tira conseguenza. Cioè: sanziona.
Ma se valida, allora può anche invalidare…
Eh no! Ed è questo il vero punctum pruriens, il nocciolo tecnico dell’equivoco. Se il diritto internazionale potesse invalidare il gius interno contrario, allora farebbe a meno di mendicar obbedienza.
Ma se non invalida, allora lascia sussister la contraddizione, e la contraddizione, Maestro, invera il dualismo!
Nient’affatto, giacché il gius delle genti s’adatta al diritto interno (ancora uno sguardo beffardo) Eh sì. Non che ceda rassegnato; piuttosto: corregge il movimento, come una ballerina che compensa il passo falso del suo compagno. E lo fa con le norme secondarie sull’applicabilità di cui discetta il loico Bulighinio.
Prenda il famoso caso Germania contro Italia, a proposito dell’immunità giurisdizionale.
Pel diritto internazionale, vale la regola d’immunità. L’Italia non la rispetta. Il gius delle genti capta il fatto illecito. Indi fa due cose: produce una norma che autorizza a sanzionarci; e mentre mantiene valida la regola d’immunità, la rende inapplicabile. E inapplicabile essa resta fintantoché non può tornare a esser effettiva. La regola apparisce adunque inapplicabile non solo se guardata dal transetto, cioè dal punto di vista del diritto interno, ma anche dal presbiterio, cioè pel gius delle genti, il che scioglie la contraddizione.
Fece bene, il Virallio, a evocar il ponte degli asinelli, nel suo celebre saggio, benché poi la metafora non la mettesse davvero a frutto, volendo egli discorrer di studenti ciuchi, che nulla sanno, eccetto la storiella del monismo e del dualismo, ch’a tutti resta impressa… ma qui, a comportarsi come asinelli, furon proprio gli scrittori. E sia detto con tutto il rispetto, anche dei ciuchini ch’io tanto amavo!
Gli è che da qualunque lato del Giure gli scrittori si ponessero, come il ciuchino di qua o di là del ponte, esitavano, si fermavano, per timor che il ponte non continuasse: non s’annulla così il diritto interno? Chiedevasi l’uno, valutando il monismo dal lato internazionale; non si nega così il diritto internazionale? Chiedevasi l’altro, valutando il monismo dal lato interno. Quando invece l’uno e l’altro si sorreggon mutuamente, come i segmenti d’un arco: il diritto internazionale, senza l’interno, perde la sua qualità e parimenti l’interno, se manca l’internazionale. È la paura che vi sia il vuoto oltre il dosso che crea la fantasia d’un altro giure – il dualismo – ma se vien meno la chiave d’arco, tra i due, resta un fosso!
E invece, vi è un campo.
Il Giure, appreso in modo rigorosamente positivo, alla mia maniera, fissa il quadro, disegna gli spazi, contiene l’impeto del giuoco. Tutto o quasi, però, dipende, non dal giure medesimo, ma dall’estro dei giocatori, dai loro dotti e smaglianti fraseggi. Quello di Simmenthal è passato alla storia, benché la Corte di Lussemburgo l’abbia poscia calciata in tribuna, dicendo che il diritto europeo «impedisce la valida formazione» di norme interne contrastanti.
Non è sforzando gli interruttori della validità, da tempo sigillati, o se par meglio, non è fantasticando di gerarchie, o d’invasioni di campo, che il gius delle genti può compier le sue incursioni; desso avanza, al contrario, se vince puntuali resistenze, se provoca cedimenti concreti, lì dove il diritto dello Stato già si sfalda. Ed io sarei proclive a risguardar la crisi del giudicato con questo viso.
Non dimentico però ch’io son qui per pigliare appunti ed è per ciò che, riservandomi di parlare nel dibattito, ridò la parola, grato, alla Professoressa Pineschi.
Nota – L’idea del movimento asincrono delle sfere, sovra e sublunare, è tratta da J. Niven, A volte ritorno, Einaudi, Torino, 2015, ma è ribaltata: nel romanzo una settimana nel regno dei cieli equivale a cinque secoli terrestri. “Ritorno di Anzilotti” (il titolo) è un détournement di “Retour à Anzilotti”, il contributo di François Rigaux agli scritti in onore di Francesco Capotorti (Giuffrè, Milano, 1999, vol. 1, p. 405 ss.). Il procedimento codificato dall’Internazionale situazionista è sfruttato in tutto il testo, che è un collage di frasi, o di semplici lessemi e stilemi, tratti dagli scritti di Dionisio Anzilotti, in particolare da Il diritto internazionale nei giudizi interni, Zanichelli, Bologna, 1905, oltre che da numerosi saggi raccolti nelle Opere di Dionisio Anzilotti, 4 voll., Cedam, Padova, 1955-1963. Il testo “concentra” l’aulico e il desueto a scopi comici, impiegando comunque solo termini attestati nell’opera anzilottiana. Per la “toscanizzazione” sono una volta di più grato a Micaela Frulli. Per una migliore resa dell’ideologia statalista propria dell’epoca, nel discorso di Anzilotti ho incluso frasi romaniane non dichiarate, prese da S. Romano, “Lo Stato moderno e la sua crisi” [1909], in Id., Lo Stato moderno e la sua crisi. Scritti di diritto costituzionale, Giuffrè, Milano, 1969, p. 3 ss.; S. Romano, “Oltre lo Stato” [1917], in Id., Scritti minori, a cura di G. Zanobini, Giuffrè, Milano, 1950, p. 345 ss. Di Santi Romano è anche la meditazione sull’epistemologia delle scienze sociali e politiche.
Anzilotti è detto «mostro sacro del diritto internazionale» in R. Ago, “Rencontres avec Anzilotti”, European Journal of International Law, 1992, p. 92 ss. Percorrendone l’opera, ho tratto spunto, oltre che dagli scritti citati di seguito, da P. Ziccardi, “Caratteri del positivismo dell’Anzilotti”, Rivista di diritto internazionale, 1953, p. 22 ss.; F. Salerno, “L’affermazione del positivismo giuridico nella scuola internazionalista italiana: il ruolo di Anzilotti e Perassi”, Rivista di diritto internazionale, 2012, p. 29 ss.; D. Alland, Anzilotti et le droit international public, 2a ed., Pedone, Paris, 2013, p. 75 ss. Sono grato a Daniele Amoroso per le notizie bibliografiche sul tema del seminario, che sono state più utili di quanto il testo non dica (specialmente R. Caponi, Corti europee e giudicati nazionali, in Corti europee e giudici nazionali. Atti del XXVII Convegno nazionale dell’Associazione italiana fra gli studiosi del processo civile, Bononia University Press, Bologna, 2011, p. 239 ss.).
Il dibattito tra Kelsen (1881-1973) e Hart (1907-1992) che Anzilotti redivivo dice di aver visto si è effettivamente svolto a Berkeley, nel novembre 1961, presso l’Università della California. Ne parla H.L.A. Hart, “Kelsen Visited” [1963], in Id., Essays in Jurisprudence and Philosophy, Clarendon, Oxford, 1983, p. 286 ss., p. 287: «Kelsen remarked that the dispute between us was of a wholly novel kind because though he agreed with me I did not agree with him». Hart prende posizione sulla concezione kelseniana del rapporto tra diritto internazionale e diritto interno nel successivo “Kelsen’s Doctrine of the Unity of Law” [1968], ibid., p. 309 ss. Contro l’immagine di “realista all’inglese” che autori illustri quali Gaja e Arangio-Ruiz hanno proiettato sulla produzione anzilottiana – l’uno per segnalare una certa infedeltà di Anzilotti alle sue stesse premesse (G. Gaja, “Positivism and Dualism in Dionisio Anzilotti”, European Journal of International Law, 1992, p. 123 ss., p. 129), l’altro, all’opposto, per elogiarne la coerenza (G. Arangio-Ruiz, “Dualism Revisited. International Law and Interindividual Law”, Rivista di diritto internazionale, 2003, p. 909 ss., pp. 928-929) – il “mio” Anzilotti, proseguendo una traiettoria già solcata in vita, diventa kelseniano e non hartiano (all’attacco frontale di H. Kelsen, “La transformation du droit international en droit interne”, Revue générale de droit international public, 1936, p. 5 ss., spec. pp. 9-10, in nota, egli rispose approfondendo la riflessione, come mostrano le sue note manoscritte).
Filosoficamente, Anzilotti era un’idealista: nell’opera di «Giorgio Hegel» vedeva, tra l’altro, una «premessa importantissima della concezione positiva del diritto internazionale» (Il diritto internazionale nei giudizi interni, cit., pp. 26-28, anche in nota). E ciò basterebbe a negargli la patente di empirista. Il modesto interesse di Anzilotti per la speculazione pura non diede luogo a una sorta di realismo istintivo ma si manifestò anzitutto in una durevole adesione alla metafisica della volontà collettiva (che è irrealistica anche se misurata con parametri idealistici). Anzilotti fu idealista anche nel senso che il suo pragmatismo è sempre stato al servizio di un ideale internazionalista. Più Kant che Hegel (sotto questo aspetto), ma soprattutto, nel complesso, più Kant che Hume, quindi più Kelsen che Hart: Continente, non Isola. Mentre Anzilotti, da giovane, difese i diritti della filosofia contro la giovanile esuberanza della sociologia (La filosofia del diritto e la sociologia, Bonducciana A. Meozzi, Firenze, 1892), di The Concept of Law Hart scrisse che poteva considerarsi «an essay in descriptive sociology» (H.L.A. Hart, The Concept of Law, 3a ed., Clarendon, Oxford, 2012, p. vi). Se Hart, seguendo J.L. Austin («Ostinio» nella pièce), svolgeva inchieste in senso lato sociologiche «into the meaning of words» (ibid.), Anzilotti era invece intento a districare parole significative, cioè fedeli al concetto, dal groviglio di quelle sbagliate. E attendeva così alla costruzione del diritto internazionale, non a una sua constatazione.
«All’epoca mia, erta era la via dell’internazionalista, e incerta!», dice Anzilotti redivivo. A questo proposito è interessante notare che una delle principali fonti de Il diritto internazionale nei giudizi interni è un libro che Anzilotti definiva «speciale, diretto proprio a dimostrare la positività del diritto internazionale per virtù della sanzione che riceve nelle decisioni giudiziarie» (ivi, p. 4, in nota). Si tratta di P. Cobbett, Leading Cases and Opinions on International Law Collected and Digested from English and Foreign Reports, Official Documents, Parliamentary Papers, and other Sources, with Notes and Excursus Containing the Views of the Text Writers on the Topic Referred to, Together with Supplementary Cases, Treaties, and Statutes, Stevens and Haynes, London, 1885, dove si afferma, a p. v, che persisteva «some tendency on the part of English lawyers to regard that body of custom and convention which is known as International Law, as fanciful and unreal; as a collection of amiable opinions, rather than as a body of legal rules». Quello cui Anzilotti attendeva era un diritto internazionale molto diverso dall’attuale. I raccordi formali con il diritto interno (e la stessa distinzione tra interno ed esterno) erano ancora rudimentali, la giurisdizione internazionale ancora agli albori.
Se, nel 1905, Anzilotti poteva prospettare l’applicazione diretta del diritto internazionale da parte dei giudizi nazionali – limitatamente alla risoluzione di questioni di carattere pregiudiziale o incidentale – è anche perché le costituzioni ottocentesche allora vigenti non contemplavano i sofisticati dispositivi di mediazione tra interno ed esterno a noi noti («trasformatori permanenti» o simili) ed emergenti da un successivo irrigidimento della grammatica dualista, grammatica che quegli stessi dispositivi hanno peraltro contribuito a consolidare (v., per un’istantanea dell’epoca di transizione, G. Morelli, “L’adattamento del diritto interno al diritto internazionale in alcune recenti costituzioni”, Rivista di diritto internazionale, 1933, p. 3 ss.). Non c’è dubbio che, per Anzilotti – e l’idea è sempre attuale – i giudici nazionali potevano efficacemente operare come agenti del diritto internazionale “dietro le linee” degli ordinamenti interni: «Rigorosamente parlando, tutti gli organi dello Stato si trovano nella medesima posizione rispetto al diritto internazionale. E quando l’ordinamento delle competenze non vi si oppone, ogni organo è tenuto ad agire nel modo richiesto dal diritto internazionale, indipendentemente da un ordine speciale emanato da quegli organi, cui spetta la potestà legislativa e regolamentare» (Il diritto internazionale nei giudizi interni, cit., p. 190, in nota).
Benché l’applicazione decentrata del diritto internazionale per opera dei giudici nazionali potesse apparirgli non ottimale, l’idea di un accentramento della funzione interpretativa, nella forma di ciò che oggi chiameremmo rinvio pregiudiziale, era, per Anzilotti, un «volo di fantasia». Eccola, quella fantasticheria, in tutta la sua preveggenza: «Si può certamente immaginare una condizione di cose in cui, esistendo veri e propri organi giudiziari internazionali, fosse fatto obbligo ai tribunali dei singoli stati di astenersi dal risolvere anche le semplici questioni incidentali o pregiudiziali dipendenti dal diritto internazionale: in tal caso, sollevata o sorta una questione siffatta, dovrebbe il tribunale interno rinviarne la soluzione al tribunale internazionale competente e aspettarne la decisione per procedere, in base ad essa, alla risoluzione della controversia, regolata dal diritto interno» (ivi, p. 193, in nota). Quindici anni dopo, la giurisdizione internazionale – di cui Anzilotti sarà, come noto, tra i primi protagonisti – gli appariva ancora un’idea campata per aria e persino rischiosa per le sorti del diritto internazionale. In una lettera al Ministro degli affari esteri Tommaso Tittoni (1855-1931), datata 28 giugno 1920, Anzilotti scrisse: «Sono a Scheveningen, Palace Hotel, da quindici giorni per i lavori del comitato dei giuristi incaricato di preparare il progetto di Corte Permanente di Giustizia Internazionale. […] Personalmente, io ho sempre più la convinzione che si sita creando un organismo di scarsissima utilità pratica: la pubblica opinione non ha ancora una idea esatta della Corte Permanente, cui attribuisce una importanza che non ha e non può avere, e così ne verranno nuove delusioni» (la lettera è citata in L. Passero, Dionisio Anzilotti e la dottrina internazionalistica tra Otto e Novecento, Giuffrè, Milano, 2010, pp. 462-463).
L’elogio che Anzilotti fa di se stesso (dicendosi «servo devoto, coscienzioso, instancabile» del diritto internazionale) ripete in parte il discorso pronunciato da Max Huber (1874-1960), presidente della Corte permanente di giustizia internazionale, al termine della votazione che consacrò Anzilotti suo successore: «si les arrêts et avis de la Cour répondent dans une mesure considérable aux espérances que le monde a mises en ce tribunal, une part très grande, vraiment décisive, en est due à vous, à votre travail dévoué, inlassable, consciencieux, intelligent» (“Dionisio Anzilotti, Presidente della Corte permanente di Giustizia internazionale”, Rivista di diritto internazionale, 1927, p. 457 ss.).
L’Albornio è Paul Heilborn (1861-1932), il quale definì il dualismo «un fatto» in un corso professato all’Aja (“Le sources du droit international”, Recueil de cours, 1926, t. 11, p. 1 ss., p. 11). È superfluo precisare la vera identità del Triepolo (1868-1946).
Nella parte in cui Anzilotti redivivo si esprime sulla disputa monismo-dualismo, il Virallio è, naturalmente, Michel Virally (1922-1989). Questi, nel suo “Sur un pont aux ânes: les rapports entre droit international et droits internes”, in Mélanges offerts à Henri Rolin: Problèmes de droit des gens, Pedone, Paris, 1964, p. 488 ss., esordisce: «L’ultime recours de l’interrogateur lassé par l’universelle ignorance d’un candidat en droit international réside, bien souvent, dans une question sur les rapports de ce droit avec les droits internes. Rares sont ceux qui ne connaissent pas les mots-clés de « monisme » et de « dualisme » et ne sont pas capables d’ébaucher un parallèle entre les deux doctrines». Rispolverando il significato autentico dell’apologo – nel quale gli asinelli si rifiutano di attraversare il ponte invece di lanciarvisi come fanno gli studenti ciuchi di Virally – l’Anzilotti redivivo vendica gli innumerevoli studenti lassé-e-s da un certo modo di insegnare il gius delle genti. Nella disputa monismo-dualismo, il partito più folto è, da decenni ormai, quello di coloro che ritengono la querelle inutile o superata. Per chi scrive, invece, lo scambio “anni Trenta” tra Balladore Pallieri e Kunz conserva intatto il suo fascino (cfr. G. Balladore Pallieri, “Le dottrine di Hans Kelsen e il problema dei rapporti fra diritto interno e diritto internazionale”, Rivista di diritto internazionale, 1935, p. 24 ss.; J.L. Kunz, “La doctrine dualiste chez Balladore Pallieri”, Revue internationale de la théorie du droit, 1937, p. 12 ss.). Altrettanto affascinante è l’ultradecennale insistenza sulla futilità della disputa: non si finisce più di accantonarla.
La tesi kelseniana dell’equivalenza epistemica tra monismi (a base interna ovvero internazionale) è ricostruita soprattutto a partire da H. Kelsen, “Théorie du droit international public”, Recueil des cours, 1953, t. 84, p. 1 ss., p. 182 ss. L’idea secondo cui tale indifferenza sarebbe inammissibile (sul piano morale, si direbbe) è spigolata da R. Quadri, Diritto internazionale pubblico, 5a ed., Liguori, Napoli, 1968, p. 46: «quasi tutti i monisti non hanno esitato ad ammettere il “primato del diritto internazionale” e ciò non solamente perché essi erano animati da spirito pacifista o di fraternità universale, ma anche perché essi si sono resi conto che il giurista non può evitare di pagare un tale debito di certezza, sottraendosi alla scelta fondamentale».
Kelsen, nel corso citato, illustra la tesi ricorrendo a una similitudine astronomica: «La possibilité d’interpréter le monde du droit à l’aide de deux constructions différentes […] est comparable à la possibilité d’interpréter le monde de la physique selon des systèmes différents de référence. La physique moderne considère que pour un phénomène se déroulant dans l’espace et dans le temps la formulation d’un résultat quantitatif n’a un sens déterminé que si l’on indique le système de référence auquel il se rapporte. La formulation varie en effet selon le système de référence et celui-ci peut être choisi arbitrairement. Si par exemple notre planète, la terre, est prise pour base du système de référence, on dira que le soleil tourne autour d’elle, mais si l’on choisit le soleil comme base du système, on dira qu’il est immobile et que la terre tourne autour de lui. Selon le théorie de la relativité ces deux systèmes sont également admissible et il n’y a pas en physique de méthode scientifique permettant d’affirmer que l’un d’eux est correct et que l’autre ne l’est pas» (“Théorie du droit international public”, cit., pp. 192-193). In una precedente versione del testo, questa similitudine, ripresa da Anzilotti, innesca uno scambio di battute (soppresso per ragioni di tempo). L’interlocutore obiettava che il geocentrismo è senza dubbio inferiore all’eliocentrismo e che, se la similitudine aveva un senso, allora anche uno dei due monismi doveva potersi dire superiore all’altro. Anzilotti, difendendo Kelsen, ribatteva che il parallelo doveva intendersi in senso geometrico, cioè al netto degli effetti della gravitazione; che la forza di gravità, fuor di metafora, era il potere, l’effettività colta nella sua dimensione concreta, mentre Kelsen costruiva l’unità del diritto sul concetto di un ordinamento effettivo; che, infine, un gruppo di potere impadronitosi di un governo nazionale poteva riuscire nell’intento di isolare l’ordinamento interno dal diritto internazionale, senza perciò turbare la necessaria unità concettuale del diritto inteso come ordinamento coercitivo (e senza potersi sottrarre alla sanzione giuridica internazionale). Per Hart, la pretesa del diritto internazionale di validare il diritto interno, cioè il suo tentativo di stabilire con esso una «relationship of validating purport», era politicamente velleitaria; aveva, cioè, un che di… antigravitazionale: «Systems’ of laws constructed solely out of the relationship of validating purport would ignore the dividing line introduced by the idea that recognition by the law-identifying and law-enforcing agencies effective in a given territory is of crucial importance in determining the system to which laws belong» (“Kelsen’s Doctrine of the Unity of Law”, cit., p. 336). La teoria di Hart è, infatti, una sorta di sociologia del potere colto nel momento in cui si fa diritto. Kelsen ragiona in un’altra chiave, che non è incompatibile (cfr., sul punto, J. Raz, “The Purity of the Pure Theory”, Revue internationale de philosophie, 1981, p. 441 ss.). Che Anzilotti, in fondo, aderisse a tale prospettiva o che perlomeno ne cogliesse il senso, sembra attestato, oltre che dalla sua opera in generale, da un’interessante annotazione manoscritta all’ultima edizione del suo Corso: «Io direi che l’unità del diritto è puramente concettuale, ma che l’unità dell’ordinamento giuridico appartiene alla realtà empirica o dell’esperienza e si spiega con la “Ursprungsnorm” propria di ogni ordinamento» (“Corso di diritto internazionale”, in Opere di Dionisio Anzilotti, vol. I, Cedam, Padova, 1955, pp. 44-45, nota 11). Insomma, anche Anzilotti, come il Kelsen di Berkeley ricordato da Hart, era d’accordo con tutti, poco importa che gli altri ricambiassero.
Per superare la contraddizione solo apparente tra diritto internazionale (violato) e diritto interno (inadempiente), Anzilotti fa leva sul concetto di «tempo interno della norma», con cui Eugenio Bulygin (il «loico Bulighinio» nel testo) intende la sequenza degli istanti in cui la norma è, oltre che valida in virtù di norme secondarie di riconoscimento, applicabile in virtù di norme secondarie sull’applicabilità (cfr. E. Bulygin, “Système juridique et ordre juridique”, in L’architecture du droit. Mélanges en l’honneur de Michel Troper, a cura di D. de Béchillon et al., Economica, Paris, 2006, p. 223 ss.). Una soluzione in pratica analoga si trova già in A. Verdross, “Il collegamento normativo del diritto internazionale col diritto interno e la procedura per la soluzione dei conflitti tra questi ordinamenti”, in Il processo internazionale. Studi in onore di Gaetano Morelli (Comunicazioni e Studi, vol. XIV), 1975, p. 981 ss.
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