Il primo parere reso dalla Corte europea dei diritti dell’uomo ai sensi del Protocollo n. 16 alla CEDU: il nuovo strumento alla prova del dialogo tra giudici sul delicato tema della maternità surrogata
Ilaria Anrò, Università di Milano
Dal 1° agosto 2018 è in vigore – per gli Stati che lo hanno ratificato – il Protocollo n. 16 allegato alla CEDU, il quale consente alle più alte giurisdizioni di un’Alta Parte contraente di richiedere alla Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU) pareri consultivi su questioni di principio relative all’interpretazione o all’applicazione dei diritti e delle libertà definiti dalla Convenzione o dai suoi protocolli. Il Protocollo n. 16 ha introdotto una significativa innovazione nel c.d. sistema multilivello di tutela dei diritti fondamentali, considerando anche il rango della CEDU negli ordinamenti nazionali ed il ruolo talvolta ambiguo della Corte EDU, a metà tra quello di un giudice del caso concreto e quello di una corte quasi costituzionale (per un’analisi delle caratteristiche del nuovo strumento si vedano per tutti i contributi nel volume di Lamarque; v. anche Anrò).
Per una singolare coincidenza, la Francia è stata sia l’ultimo Paese a ratificare il Protocollo n. 16 (fino ad oggi), consentendone l’entrata in vigore, sia il primo le cui autorità hanno richiesto un parere ex Protocollo n. 16 attraverso una pronuncia del 5 ottobre 2018 dell’assemblea plenaria della Corte di cassazione francese iscritta nel registro della Corte il successivo 16 ottobre. La richiesta è stata giudicata ricevibile il 3 dicembre 2018 ed il giorno successivo la questione è stata assegnata alla Grande Camera.
A pochi mesi dall’arrêt francese, la Corte ha reso il primo parere ex Protocollo n. 16 lo scorso 10 aprile. Tale pronuncia, oltre ad essere di grande rilevanza per il delicato tema su cui verte, ovvero la maternità surrogata, è di grande interesse perché contribuisce a chiarire le caratteristiche del nuovo strumento.
La natura delle questioni oggetto di parere ai sensi del Protocollo n. 16 alla CEDU
Come indicato dall’art. 1 del Protocollo, le richieste di pareri consultivi devono riguardare «questioni di principio relative all’interpretazione o all’applicazione dei diritti e delle libertà definiti dalla convenzione o dai suoi protocolli» sorte nell’àmbito di una causa pendente avanti alle corti nazionali abilitate ad utilizzare tale strumento.
Nel proprio rapporto del 2006, nell’ipotizzare il nuovo strumento, il Gruppo dei saggi aveva fatto riferimento a «legal questions relating to interpretation of the Convention and the protocols thereto» (par. 81) e di «questions of principle or of general interest relating to the interpretation of the Convention or the protocols thereto» (par. 86) in coerenza con l’obiettivo del rafforzamento del carattere “costituzionale” del ruolo della Corte e dunque al fine di favorire, ovvero occasionare, l’adozione di pronunce non condizionate dal caso concreto, con ciò inducendo un rilevante mutamento di prospettiva nella concezione della Corte EDU, da sempre giudice della specie.
Nel documento di riflessione della Corte sulla possibilità di estendere la competenza consultiva della Corte del 2012, si esplicitava che tale nuova competenza avrebbe avuto un’operatività del tutto differente rispetto a quella descritta dall’art. 47 CEDU, ai sensi del quale la Corte, su richiesta del solo Comitato dei ministri, «può fornire pareri consultivi su questioni giuridiche relative all’interpretazione della convenzione e dei suoi protocolli» (par. 1), con la precisazione che, tuttavia, tali pareri «non devono riguardare questioni inerenti al contenuto o alla portata dei diritti e libertà definiti nel Titolo I della Convenzione e nei Protocolli, né su altre questioni su cui la Corte o il Comitato dei ministri potrebbero doversi pronunciare in seguito alla presentazione di un ricorso previsto dalla convenzione».
Nel rapporto esplicativo al Protocollo n. 16 si evidenzia che la formulazione di cui all’art. 1, par. 1, Protocollo n. 16, trae ispirazione dall’art. 43, par. 2, della convenzione, il quale sancisce che il rinvio di un caso dinanzi alla Grande Camera è ammesso quando «la questione oggetto del ricorso solleva gravi problemi di interpretazione o di applicazione della Convenzione o dei suoi Protocolli, o comunque un’importante questione di carattere generale», sebbene venga al tempo stesso sottolineato il diverso scopo di dette procedure (par. 9). Il rapporto esplicativo del protocollo n. 11, che aveva introdotto l’istituto del rinvio alla Grande Camera, evidenziava che una «questione grave sull’interpretazione» può porsi in caso di sentenza manifestamente in contrasto con una pronuncia precedente, mentre una questione grave relativa all’applicazione della CEDU o dei suoi protocolli può riscontrarsi quando la sentenza impone una modifica rilevante del diritto o della prassi nazionale senza sollevare, di per sé, alcuna questione grave relativa all’interpretazione CEDU. Una questione grave di carattere generale è, invece, rappresentata da una questione di importante interesse politico o generale. Nella formula del Protocollo n. 16, invece, l’aggettivo grave è stato omesso, ponendo l’accento sulle questioni di principio.
La formula utilizzata dall’art. 1 del Protocollo n. 16 non è priva di ambiguità nella misura in cui menziona, in termini piuttosto ampi, sia «l’interpretazione» che «l’applicazione» quali presupposti della richiesta consultiva. La stessa endiadi si ritrova all’art. 32 CEDU che sancisce che «la competenza della Corte si estende a tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione e dei suoi Protocolli» e dove la dottrina ha ravvisato la distinzione tra questioni di applicazione in concreto e questioni di pura interpretazione (cfr. Randazzo in Commentario breve alla CEDU, p. 607). Autorevole dottrina ha evidenziato che il Protocollo n. 16 non parla di «interpretazione e applicazione», ma di «interpretazione o applicazione», rilevando una preoccupante distinzione, perché nella misura in cui un’alta giurisdizione ritenesse chiara l’interpretazione della CEDU, ma avesse dubbi in merito all’applicazione, avrebbe modo di rimettere alla Corte EDU la decisione del caso concreto, su cui peraltro la stessa Corte EDU esclude di volersi pronunciare in sede di Protocollo 16, anche perché in tal caso avrebbe bisogno di esaminare l’intero fascicolo della causa (cfr. Zagrebelski, in Lamarque, p. 94 -95).
In dottrina è stato evidenziato come quello che si richiede alla Corte tramite il parere consultivo dovrebbe essere «un giudizio astratto, teso a chiarire in via preliminare il contenuto delle norme convenzionali, fornendo quindi un ausilio al giudice nazionale che potrà, così, prevenirne la violazione ovvero, se già commessa, porvi rimedio» (cfr. Cannizzaro, in Lamarque, p. 81).
Nelle proprie linee guida, la Corte ha indicato che «it may be that the court or tribunal in question concludes that the case before it, in its view, raises a novel point of Convention law, or that the facts of the case do not seem to lend themselves to a straightforward application of the Court’s case-law, or that there appears to be an inconsistency in the case-law. In such circumstances, the court or tribunal concerned may avail itself of the possibility of submitting a request for an advisory opinion» (par. 5).
Nel documento di riflessione della Corte, vengono, poi, ipotizzati alcuni casi in cui può sorgere una questione di questo tipo. In primo luogo, si fa riferimento ai casi di violazioni strutturali o sistemiche, e i delegati di Paesi Bassi e Norvegia avevano proposto – nell’àmbito dei lavori preparatori – di limitare a tali ipotesi la nuova competenza consultiva (cfr. Documento di riflessione, par. 28). In secondo luogo, il documento indica che una tale questione può sorgere con riguardo alla compatibilità con la CEDU di una legge, di un regolamento o un principio stabilito in via giurisprudenziale, sebbene venga ivi precisato che ciò non debba tradursi in una revisione astratta della legislazione di uno Stato, in ossequio al costante orientamento sul punto della giurisprudenza della Corte EDU, dovendo il parere essere sempre richiesto nell’àmbito di un contenzioso nazionale (ivi, par. 29). Anche il rapporto esplicativo precisa che «la procedura non è pensata, ad esempio, per consentire una revisione in astratto della legislazione che non deve essere applicata nella causa pendente dinanzi a essa» (par. 10), sebbene la dottrina abbia già evidenziato come questo in realtà sarebbe il caso in cui il parere della Corte potrebbe essere più utile (cfr. Zagrebelski, pag. 94).
In ogni caso, spetta alla stessa Corte di Strasburgo interpretare questa nozione, nel momento in cui si pronuncia circa la ricevibilità della domanda di parere.
La questione sottoposta alla Corte EDU dalla Corte di cassazione francese
Mediante la propria richiesta di parere, la Corte di cassazione francese ha sostanzialmente chiesto alla Corte EDU di precisare gli effetti e le conseguenze delle proprie precedenti pronunce, Mennesson c. Francia e Labasee c. Francia in tema di maternità surrogata. In tali pronunce, la Corte EDU aveva sancito che la Francia, non avendo trascritto nel proprio registro dello stato civile gli atti di nascita di minori nati all’estero da maternità surrogata, con materiale genetico proveniente dal solo padre di intenzione, aveva agito nell’àmbito del proprio margine di apprezzamento con riferimento al diritto alla vita familiare dei genitori (consacrato dall’art. 8 CEDU), mentre aveva commesso una violazione del diritto alla vita privata dei figli (anch’esso tutelato dall’art. 8 CEDU), non avendone considerato adeguatamente il superiore interesse. Successivamente a tali pronunce, come riportato dalla stessa Corte di cassazione francese, l’orientamento giurisprudenziale nazionale è mutato nel senso che l’esistenza di un contratto di maternità surrogata non impedisce necessariamente la trascrizione nei registri dello stato civile francese di un atto di nascita straniero se quest’ultimo non è falsificato o irregolare e se i fatti ivi dichiarati corrispondono alla realtà biologica. Secondo la Corte di cassazione francese, dunque, al momento sarebbe chiaro che, ove il padre di intenzione sia effettivamente quello biologico, non possa essere negata la trascrizione dell’atto di nascita del minore nato tramite maternità surrogata, da cui risultasse il legame di filiazione con il padre. Tuttavia, secondo il giudice francese, la giurisprudenza della Corte EDU non chiarirebbe quali sono gli obblighi dello Stato con riferimento alla posizione della madre con la quale non vi è un legame biologico.
La Corte di cassazione chiede, dunque, con il primo quesito, se rientri nell’àmbito del margine di apprezzamento concesso allo Stato ai sensi dell’art. 8 CEDU la possibilità di rifiutare la trascrizione di un atto di nascita di un minore nato all’estero da maternità surrogata quando vi sia indicata la madre committente come madre di diritto, accettando invece la trascrizione per quanto riguarda il padre con il quale vi è un legame biologico, e se in tal caso occorra distinguere a seconda del fatto che sia stato utilizzato o meno del materiale genetico della stessa nel processo di fecondazione. Con il secondo quesito, il giudice francese chiede altresì se, in caso di risposta affermativa, la possibilità per la madre di intenzione di adottare il figlio del proprio coniuge, ove egli sia padre biologico dello stesso, stabilendo così un legame di filiazione, possa consentire allo Stato di rispettare pienamente l’art. 8 CEDU.
Il parere viene richiesto dalla Corte francese proprio nell’ambito del giudizio di riesame del caso Mennesson a seguito della sentenza della Corte EDU, reso possibile dall’adozione in Francia di una legge che consente la revisione dei giudizi a seguito della condanna dello Stato da parte della Corte EDU.
La risposta della Corte EDU
La risposta della Corte EDU è intervenuta con grande rapidità. Nell’ambito della procedura hanno presentato le proprie osservazioni le parti nel processo nazionale, ovvero i signori Mennesson (mentre il pubblico ministero presso la Corte d’appello di Parigi ha scelto di non intervenire), il governo francese e quello del Regno Unito, della Repubblica ceca e dell’Irlanda, l’Ombudsman francese, il Centro di studi di genere dell’Università di Trento, oltre a cinque organizzazioni non governative. È degno di nota che abbiano presentato le proprie osservazioni anche degli Stati che non hanno ratificato il Protocollo, quali Regno Unito, Repubblica ceca e Irlanda. La Corte ha deciso di non tenere un’udienza, ai sensi dell’art. 94, par. 6, del Regolamento di procedura.
Per rispondere al quesito sottopostole, la Corte EDU ha effettuato un’indagine comparativa su quarantatré Stati parti alla Convenzione, escludendo la Francia (cfr. parere, par. 22). Da tale indagine è emerso che la maternità surrogata è consentita in nove Stati, tollerata in dieci e esplicitamente o implicitamente vietata in ventiquattro Stati. In trentuno di tali Stati (ivi compresi dodici in cui tale pratica è vietata) è possibile che il legame di filiazione con il padre venga riconosciuto quando sia stato utilizzato il suo materiale biologico. In ventiquattro Stati (ivi compresi nove che vietano la maternità surrogata) è possibile riconoscere lo status di filiazione con la madre anche se non vi è alcun legame genetico. La procedura per stabilire tale status varia a seconda degli ordinamenti.
La Corte ricorda la funzione del Protocollo, ovvero quella di rendere il proprio parere con riferimento a una questione di principio relativa all’interpretazione o all’applicazione della CEDU senza che ciò comporti un trasferimento della controversia nazionale avanti a sé. Inoltre, la Corte ribadisce di non avere giurisdizione per valutare i fatti o le argomentazioni delle parti, essendo poi compito del giudice nazionale trarre le conclusioni dal suo parere per la soluzione del caso di specie. La Corte sottolinea che il valore aggiunto di tali pareri risiede anche nell’offrire un ausilio interpretativo al giudice nazionale anche per casi simili (par. 26).
La Corte ricorda poi di doversi limitare ai due quesiti sottoposti dalla Corte di cassazione francese, tenendo conto del caso di specie: dunque, poiché la controversia avanti al giudice a quo riguarda un’ipotesi di maternità surrogata in cui non è stato utilizzato il materiale biologico della madre, la Corte dichiara che il proprio parere non verterà sull’ipotesi in cui – al contrario – esso sia utilizzato nel procedimento di surrogazione di maternità (parr. 28 -30), lasciando forse intendere che le sue conclusioni sarebbero – in tal caso – diverse.
Nel rispondere alla prima questione, la Corte ritiene fondamentali due elementi: il superiore interesse del minore e il margine di apprezzamento degli Stati (par. 37).
Con riferimento al superiore interesse del minore, la Corte richiama la propria giurisprudenza in cui si afferma che tale valore è preminente (par. 38) e ricorda che, in particolare, nelle sentenze Mennesson e Labasse è stato dichiarato che: «France [might] wish to deter its nationals from going abroad to take advantage of methods of assisted reproduction that are prohibited on its own territory», ma ciò non può riflettersi negativamente sui minori coinvolti, che verrebbero pregiudicati nei propri diritti ove rimasse incerto il loro status di filiazione, incontrando difficoltà nel riconoscimento della propria nazionalità, nel mantenimento della residenza con la madre e nei diritti successori (par. 40).
La Corte dichiara di essere consapevole che, nel contesto della maternità surrogata, il best interest del minore non risiede solo nella tutela del proprio diritto alla vita privata e personale, componendosi di elementi che non depongono a favore del riconoscimento dello status di filiazione con i genitori committenti, dovendo essere tutelato il suo diritto a conoscere le proprie origini e dovendo egli essere protetto da eventuali abusi (par. 41). Tuttavia, considerando il diritto alla vita privata e personale del minore e la necessità di individuare una persona responsabile per la sua crescita ed educazione, ritiene che una generale ed assoluta impossibilità di stabilire il legame di filiazione con la madre committente è incompatibile con il suo superiore interesse, il quale richiede che sia effettuata una valutazione in ragione delle specifiche circostanze del caso (par. 42).
Con riferimento al margine di apprezzamento, la Corte ricorda che, come già sancito nelle sentenze Mennesson e Labassee, quando si tratta di questioni eticamente e moralmente delicate, che coinvolgono diversi interessi, il margine di apprezzamento deve essere ampio e che con riferimento alla maternità surrogata non c’è consenso. Tuttavia, quando è in gioco un aspetto fondamentale dell’identità personale, come il riconoscimento dello status di filiazione, tale margine deve essere ristretto ed in tal senso si era pronunciata nelle citate sentenze (par. 44). Nel caso di specie, secondo la Corte, sono in gioco diversi aspetti dell’identità personale, trattandosi di determinare l’ambiente in cui il minore deve vivere e le persone responsabili della sua crescita e ciò depone ulteriormente per una restrizione del margine di apprezzamento degli Stati (par. 45).
La Corte risponde, pertanto, al primo quesito dicendo che, in un caso come quello di specie, tenendo conto del superiore interesse del minore e del ristretto margine di apprezzamento dello Stato, il diritto nazionale deve prevedere la possibilità di riconoscere il legame di filiazione di un minore nato all’estero tramite maternità surrogata con la madre committente, indicata come madre nel certificato di nascita (par. 46). Nonostante quanto affermato ai parr. 28-30, la Corte evidenzia, inoltre, che, sebbene non sia l’ipotesi del caso in esame, la possibilità di riconoscere tale status appare ancora più necessaria quando nella maternità surrogata è stato utilizzato il materiale genetico della madre committente (par. 47).
Con riferimento al secondo quesito, la Corte precisa che la necessità di consentire il riconoscimento del legame di filiazione con la madre non implica necessariamente che gli Stati siano obbligati ad iscrivere nel registro dello stato civile i dettagli del certificato di nascita redatto all’estero (par. 50). La Corte considera, a tal proposito, che la scelta per consentire tale riconoscimento rientra nel margine di apprezzamento degli Stati (par. 51). Secondo la Corte, infatti, non è necessario che il riconoscimento della relazione tra madre e figlio avvenga fin dall’inizio, ovvero dalla nascita del bambino, ma solo quando questa si è tradotta in una realtà concreta ed il giudizio sul punto spetta necessariamente alle autorità nazionali. Una soluzione per riconoscere tale relazione può passare attraverso l’adozione. In tale procedura, secondo la Corte EDU, sarà valutato il superiore interesse del minore nel caso concreto.
La Corte EDU ricorda che, secondo il governo francese, tutti i procedimenti di adozione di madri committenti sono andati a buon fine, ma sottolinea che l’adozione è concessa solo ove i genitori siano coniugati. La Corte fa cenno anche ad alcune considerazioni dell’Ombudsman francese, dalle quali emergerebbero alcuni elementi incerti circa le modalità di adozione della madre committente, per esempio con riferimento alla necessità di raccogliere il valido consenso della madre surrogata. La Corte, tuttavia, non va oltre nell’analisi, affermando che la compatibilità con i principi esposti della legge sull’adozione francese sfugge al proprio ambito di giudizio.
Alcune riflessioni conclusive
Con i propri quesiti, la Corte di cassazione francese ha, sostanzialmente, chiesto alla Corte EDU di definire con più precisione l’àmbito del margine di apprezzamento concesso allo Stato, il quale si trova nella difficoltà di bilanciare la necessità di non ostacolare la trascrizione dell’atto di nascita straniero del minore concepito tramite maternità surrogata con il principio mater semper certa, soprattutto nei casi in cui non ci sia alcun legame genetico tra la madre committente e il bambino. Tale prima richiesta rivela tutta l’ampiezza e l’ambiguità della formula utilizzata dall’art. 1 del Protocollo n. 16. Se, da un lato, il quesito si può comprendere alla luce delle difficoltà poste dal delicato bilanciamento operato dalla giurisprudenza della Corte EDU sul tema, dall’altro non si può non rilevare come il giudice francese richieda una definizione troppo netta dei confini del margine di apprezzamento nazionale da parte della Corte EDU, con il rischio di trasferire il giudizio nazionale a Strasburgo. Inoltre, nel richiedere un giudizio in via generale circa la condotta dello Stato, la corte francese pare costringere la Corte EDU a dettare delle linee guida precise in tale delicata materia ove, nei giudizi precedenti, la Corte ha proceduto a un delicato bilanciamento, decidendo sui singoli casi sottoposti, evitando di enunciare principi generali (si pensi al caso Paradiso e Campanelli) e dove essa stessa ha riconosciuto l’esistenza di un ampio margine di apprezzamento (pur dovendo questo essere ristretto ove vi sia un pregiudizio per il diritto alla vita privata dei singoli).
Nella risposta della Corte si nota lo sforzo di rimanere nei confini delineati dal Protocollo n. 16, offrendo un parere utile per la soluzione del caso di specie (e dunque tenendo presente gli elementi della situazione concreta), ma al tempo stesso perseguendo uno scopo deflattivo, auspicando che tale pronuncia possa essere di ausilio anche nella decisione di casi simili, secondo gli obiettivi di tale nuovo strumento. Inoltre, il parere è stato reso all’unanimità, forse per rafforzarne l’autorevolezza, sebbene il Protocollo n. 16 all’art. 4 consenta la possibilità di allegare opinioni concorrenti e/o dissenzienti e la delicatezza della questione abbia dato origine a correnti diverse in seno alla Corte (si pensi all’opinione parzialmente dissenziente dei giudici Raimondi e Spano in Paradiso e Campanelli allegata alla sentenza della Camera).
Nel merito, la Corte risponde effettuando un delicato bilanciamento tra le varie istanze in gioco, offrendo una soluzione che però presenta non poche difficoltà pratiche. La Corte, infatti, da un lato afferma che lo Stato non eccede il proprio margine di apprezzamento rifiutando la trascrizione dell’atto di nascita prodotto all’estero per quanto concerne la madre committente ivi indicata come madre, ove non vi sia il suo apporto genetico nel procedimento di maternità surrogata, ma dall’altro indica l’adozione come valida alternativa – tra i vari strumenti a disposizione dello Stato – per lo stabilimento del legame di filiazione con la madre. Tale soluzione consente, pertanto, di non avere un riconoscimento “automatico” di tale relazione, ma di passare attraverso la procedura di adozione, la quale dovrebbe consentire un accertamento caso per caso della soluzione maggiormente rispondente al superiore interesse del minore, consentendo di verificare eventuali abusi. Pare lecito però chiedersi cosa potrà succedere se nel procedimento di adozione la madre non venisse ritenuta idonea all’esito dei controlli ivi effettuati o se la madre surrogata rifiutasse di prestare il consenso.
Si deve infine ricordare che i pareri ex Protocollo n. 16 non sono vincolanti: tuttavia, di fronte ad una domanda di giudizio così concreta come quella della corte di cassazione francese e ad una risposta altrettanto netta della Corte EDU, pare impossibile che il giudice e lo Stato francesi non vi si conformino. Inoltre, sebbene il Protocollo n. 16 sia stato ratificato solo da dieci Stati (Albania, Armenia, Estonia, Finlandia, Francia, Georgia, Lituania, San Marino, Slovenia e Ucraina – per l’Italia il processo di ratifica è tuttora in corso, v. Lipari) ciò non significa che gli altri Stati potranno ignorare il parere emesso dalla Corte EDU, trattandosi pur sempre di un’interpretazione della convenzione resa dalla Corte EDU, autorità che ha il compito di renderla uno “strumento vivente” (Corte EDU, Tyrer c. Regno Unito, par. 31). Il parere della Corte EDU, dunque, quale opinione generale su una questione di interpretazione della CEDU, con un giudizio così netto sul margine di apprezzamento dello Stato, potrebbe avere un’incidenza ben più significativa rispetto alle sentenze precedentemente emesse in tema di maternità surrogata, ove la Corte ha tenuto maggiormente conto del caso concreto, con una possibile ripercussione anche in altri ordinamenti nazionali.
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