Rotari, Montesquieu e la “conversione” del c.d. Decreto Salvini: note sul permesso di soggiorno per cure mediche
Gabriella Carella, Università di Bari
1. Non si può dire che la disciplina dell’ingresso, soggiorno e allontanamento dello straniero rispetto al territorio italiano non sia bisognosa di urgente riordino: frutto della stratificazione alluvionale di normative dettate da ragioni occasionali, spesso solo propagandistiche; ulteriormente confusa dall’adozione di atti di adattamento a direttive europee inserite come corpi estranei in un sistema con esse non coordinato, tale materia appare oggi come un groviglio di norme disordinato e spesso incoerente. Si potrebbe pertanto comprendere la fretta di intervenire da parte dell’attuale governo, a costo di forzare un po’ i presupposti del ricorso allo strumento del decreto legge (suscitando i rilievi critici dei costituzionalisti per i quali v. qui). Appare tuttavia assolutamente inadeguata, e anzi controproducente, la tecnica legislativa adottata e del tutto illusoria la ratio che la supporta. Assumendo, a quanto pare, come proprio modello il re Hammurabi dell’omonimo codice (XVIII secolo a.C.) o il re Rotari, autore della più importante legislazione barbarica, il governo, infatti, ha sposato senza riserve la tecnica della elencazione dettagliata di fattispecie tipiche che si ritiene possano incasellare tutti i possibili casi della vita. Così, il d.l. 4 ottobre 2018, n. 113 (c.d. decreto Salvini), convertito dalla l. 1° dicembre 2018, n. 132, ha soppresso l’elastico ed onnicomprensivo istituto della protezione umanitaria – contemplato dai previgenti articoli 5, comma 6, d. lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico in materia di immigrazione, TUI) e 32, comma 3, d. lgs. n. 25 del 2008 (attuazione della direttiva 2005/85/CE ) – sostituendolo con un numero chiuso e tipizzato di permessi di soggiorno (sull’istituto della protezione umanitaria e sulla sua abrogazione vedi qui e qui). L’obiettivo è dichiaratamente deflattivo del numero di permessi di soggiorno rilasciati (Relazione al disegno di legge di conversione, p. 3); questi ultimi dovrebbero diminuire per effetto della eliminazione della discrezionalità interpretativa (“buonista”) generata da un istituto generico e dai contorni incerti come la protezione umanitaria. Sotto questo aspetto, l’ideale perseguito dal legislatore sembrerebbe essere il vecchio principio, ispirato da Montesquieu, del “giudice bocca della legge”. Naturalmente, non pensiamo minimamente di discuterne qui gli aspetti controversi ed i limiti ad esso apposti dallo sviluppo del costituzionalismo; ci limitiamo a considerare che, negli ordinamenti giuridici contemporanei, esso appare di difficile applicazione anche per l’esistenza di una pluralità di livelli normativi – interno, internazionale e dell’Unione europea (UE) – che richiedono sempre di essere coordinati tra loro ad opera dell’interprete. In questo compito di coordinamento, l’intensità della attività interpretativa richiesta è tanto maggiore quanto meno rispettoso o, addirittura, consapevole degli obblighi internazionali e dell’UE in una determinata materia risulti il legislatore interno. Vi sono quindi buoni motivi per supporre che la sostituzione della protezione umanitaria con una serie di permessi tipici non solo non riesca ad eliminare la necessità di attività interpretativa, ma neppure possa realizzare l’obiettivo deflattivo perseguito.
Della fondatezza di tale supposizione intendiamo fornire una illustrazione con riguardo al permesso di soggiorno per cure mediche, introdotto all’art. 19, comma 2, lett. d-bis) TUI (su di esso, per maggiori approfondimenti, rinviamo al nostro contributo al Liber amicorum per Angelo Davì, di prossima pubblicazione, di cui questo scritto costituisce una parziale rielaborazione) precisando, peraltro, che non mancano altri aspetti della nuova disciplina parimenti significativi che potranno essere oggetto di riflessioni future.
2. L’art. 19, comma 2, lett. d-bis), TUI novellato prevede che il questore rilasci un permesso di soggiorno per cure mediche quando lo straniero versi «in condizioni di salute di particolare gravità», accertate mediante certificazione rilasciata da una struttura sanitaria pubblica o da un medico convenzionato con il servizio sanitario nazionale, sempre che le suddette condizioni di salute siano tali da determinare «un rilevante pregiudizio» allo straniero stesso per effetto del rientro nello Stato di provenienza. La disposizione stupisce già per la sua formulazione: ci saremmo attesi, infatti, coerentemente all’impianto normativo adottato, la previsione di un elenco dettagliato di specifiche patologie motivanti il permesso di soggiorno, anziché il rinvio ai requisiti della «particolare gravità» della patologia e del «rilevante pregiudizio» alla salute che sono estremamente vaghi e implicano il ricorso ad interpretazione. Può darsi che il legislatore ritenga particolarmente valida l’attività interpretativa del questore, ma è anche possibile che lo stesso legislatore abbia attribuito al requisito del certificato medico la funzione di scongiurare derive inflattive nel rilascio dei permessi di soggiorno: non è del tutto ipotetico che gli stranieri possano essere respinti in un labirinto kafkiano di documenti rifiutati per carenze meramente formali, reali o pretese (in fondo, è la burocrazia la nostra arma di distruzione di massa). In ogni caso, non è solo la formulazione elastica della norma a suscitare problemi interpretativi: ulteriori problematiche sono determinate dal fatto che, già da tempo, le condizioni di salute possono costituire causa di sospensione dell’allontanamento di uno straniero in base alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU) e della Corte di Giustizia dell’Unione europea (CG). La precisazione dell’esatta portata dell’art. 19, n. 2, lett. d-bis), TUI richiede, pertanto, che si chiarisca anche il rapporto tra tale disposizione ed il quadro normativo e giurisprudenziale europeo pertinente.
3. In tale ricostruzione, il punto di partenza deve essere la giurisprudenza della Corte EDU dato che, come vedremo, ad essa si rifà, in linea di principio, la CG nell’interpretazione degli atti che costituiscono il c.d. Sistema europeo comune di asilo.
La Corte EDU ha incluso l’allontanamento dello straniero gravemente malato tra i casi che possono rientrare nel divieto di refoulement desunto dall’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) (su tale giurisprudenza si rinvia a Saccucci, Diritto di asilo e Convezione europea dei diritti umani: il ruolo della Corte di Strasburgo nella protezione dello straniero da misure di allontanamento verso Paesi “a rischio”, in Favilli (a cura di), Procedure e garanzie del diritto d’asilo, Padova, 2011, p. 147 ss.). In particolare, a partire dal caso D. c. Regno Unito, essa ha fissato il principio per il quale gli Stati parti non devono procedere all’allontanamento dello straniero quando, per le condizioni di salute di quest’ultimo, il trasferimento lo esporrebbe ad un trattamento disumano o degradante, in violazione dell’art. 3 CEDU. Presupposto principale del divieto è anzitutto il livello di gravità della malattia; la Corte EDU, nella sua giurisprudenza, ha ritenuto ammissibile il ricorso – e ha indagato sugli effetti del trasferimento mostrando di considerare sussistente il requisito della gravità della patologia –, ad esempio, in casi di AIDS o HIV,grave patologia renale con necessità di dialisi, schizofrenia con rischio di suicidio, severa depressione secondaria cronica o disturbo da stress post traumatico (PTSD), leucemia e tubercolosi.
Per accertare se il trasferimento comporti un rischio di grave danno, inoltre, la Corte EDU ha fatto riferimento a tre criteri: a) lo stadio di sviluppo della malattia, b) la disponibilità o accessibilità di cure mediche nello Stato di destinazione, c)la disponibilità, sempre in detto Stato, di assistenza familiare o sociale.
Il primo criterio ha condotto a considerare vietato l’allontanamento solo nei casi in cui lo straniero si trovi in uno stadio terminale della sua malattia e corra il rischio di morire per il semplice fatto del trasferimento nello Stato di destinazione. Di tale criterio la Corte EDU ha fatto applicazione nella predetta decisione D. c. Regno Unito suscitando grandi aspettative perché, per la prima volta, si vietava l’allontanamento in un caso in cui il rischio di danno era dovuto a circostanze oggettive. Fino a quel momento, la Corte EDU aveva fatto applicazione del divieto di refoulement desunto dall’art. 3 CEDU in casi in cui i maltrattamenti che lo straniero rischiava di subire all’estero fossero imputabili allo Stato di destinazione perché posti in essere direttamente da suoi organi; a partire dal caso H.L.R. c. Francia, inoltre,grazie alla teoria degli obblighi positivi – che impongono agli Stati di adottare tutte le misure necessarie a garantire un diritto convenzionale –, l’applicazione dell’art. 3 CEDU era stata estesa ai casi in cui i possibili trattamenti disumani o degradanti, sebbene posti in essere da privati, potessero essere attribuiti indirettamente allo Stato di destinazione che non poteva o voleva reprimerli. Nel caso dello straniero terminale che rischia di morire per effetto del trasferimento, invece, trattandosi di malattia dovuta a cause naturali, non vi è alcuna violazione imputabile, direttamente o indirettamente, allo Stato di destinazione ed il rischio di danno per lo straniero assume rilievo sulla base di mere circostanze oggettive.
Passando al secondo criterio in base al quale la Corte accerta se l’allontanamento dello straniero malato lo esponga al rischio di trattamento disumano o degradante in violazione dell’art. 3 CEDU, va detto in primo luogo che la mancanza, nel Paese di destinazione, della disponibilità delle cure necessarie o le difficoltà nell’accesso ad esse hanno sicuramente rilievo se imputabili, direttamente o indirettamente, allo Stato di destinazione stesso. Ciò si verifica quando si accerti che i problemi di assistenza sanitaria derivino da un comportamento discriminatorio dello Stato di destinazione, come supposto – anche se poi non accertato – nel caso M.T. c. Svezia. Un ulteriore esempio di aggravamento delle condizioni di salute imputabile allo Stato di destinazione si ha nei casi di estradizione quando l’estradato rischi di essere sottoposto ad un trattamento carcerario che, ancorché di per sé legittimo, sia incompatibile con le sue patologie, come deciso nel caso Aswat c. Regno Unito.
Per lungo tempo la Corte si è rifiutata, invece, di attribuire un rilievo meramente oggettivo alle circostanze che costituiscono il secondo criterio. Nel citato caso D. c. Regno Unito si riscontrava uno spiraglio in questo senso lì dove si affermava che la mancanza di disponibilità o accessibilità delle cure nello Stato di destinazione poteva determinare l’applicazione dell’art. 3 CEDU «but only in a very exceptional case, where the humanitarian grounds against the removal are compelling» (par. 54). Nell’economia della decisione, l’affermazione era rimasta un mero obiter dictum in quanto il divieto di allontanamento era stato motivato dalle condizioni terminali del ricorrente; nella giurisprudenza successiva, l’apertura prospettata resta a lungo priva di effetto. La teorica disponibilità di cure nello Stato di destinazione, a prescindere dalla considerazione in concreto della qualità delle stesse e della facilità o possibilità di accesso, è infatti ritenuta sufficiente per escludere, in numerosi casi, il rischio di violazione dell’art. 3 CEDU. Particolarmente significativa, tra tutte, la decisione in N. c. Regno Unito, nella quale la Grande Camera afferma: «Advances in medical science, together with social and economic differences between countries, entail that the level of treatment available in the Contracting State and the country of origin may vary considerably. While it is necessary, given the fundamental importance of Article 3 in the Convention system, for the Court to retain a degree of flexibility to prevent expulsion in very exceptional cases, Article 3 does not place an obligation on the Contracting State to alleviate such disparities through the provision of free and unlimited health care to all aliens without a right to stay within its jurisdiction. A finding to the contrary would place too great a burden on the Contracting States» (par. 42).
La giurisprudenza della Corte EDU sulla questione in esame ha determinato nel tempo una crescente insoddisfazione – testimoniata dal numero di opinioni dissidenti e separate annesse alle decisioni rilevanti – per la scarsa tutela che riservava allo straniero irregolare in gravi condizioni di salute; le pressioni per una valutazione diversa dei presupposti di applicazione dell’art. 3 CEDU nei casi di grave malattia hanno condotto infine al mutamento giurisprudenziale del caso Paposhvili c. Belgio. Si trattava di un cittadino georgiano, colpito in Belgio da provvedimento di espulsione per i suoi precedenti penali, che si opponeva a tale misura in quanto, a causa delle carenze dell’assistenza sanitaria in Georgia, il suo ritorno in quel Paese avrebbe rapidamente aggravato la leucemia linfatica cronica e la tubercolosi di cui soffriva, esponendolo alla morte. La Camera, confermando quella che era stata fino a quel momento una costante giurisprudenza, aveva respinto il ricorso. La Grande Camera perviene invece a conclusioni diverse. Dopo aver ricapitolato la sua giurisprudenza, la Corte EDU (paragrafi 181-183) considera che«the application of Article 3 of the Convention only in cases where the person facing expulsion is close to death, which has been its practice since the judgment in N. v. the United Kingdom, has deprived aliens who are seriously ill, but whose condition is less critical, of the benefit of that provision». Sulla base di tale constatazione, i giudici aggiungono: «In the light of the foregoing, and reiterating that it is essential that the Convention is interpreted and applied in a manner which renders its rights practical and effective and not theoretical and illusory…the Court is of the view that the approach adopted hitherto should be clarified». Viene quindi formulato il nuovo principio di diritto per il quale «the ‘other very exceptional cases’ within the meaning of the judgment in N. v. the United Kingdom (§ 43) which may raise an issue under Article 3 should be understood to refer to situations involving the removal of a seriously ill person in which substantial grounds have been shown for believing that he or she, although not at imminent risk of dying, would face a real risk, on account of the absence of appropriate treatment in the receiving country or the lack of access to such treatment, of being exposed to a serious, rapid and irreversible decline in his or her state of health resulting in intense suffering or to a significant reduction in life expectancy».
Perché quindi venga in considerazione il divieto di allontanamento di cui all’art. 3 CEDU sono necessarie due condizioni: che il trattamento sanitario necessario ed appropriato manchi o, pur essendo disponibile, non sia accessibile; che, a causa di ciò, vi sia il rischio di un peggioramento grave, rapido e irreversibile delle condizioni di salute, causa di intensa sofferenza o di una significativa riduzione dell’aspettativa di vita. La Corte aggiunge che, in caso di dubbio riguardo al reale rischio di trattamento disumano o degradante derivante dal trasferimento, lo Stato ospitante deve ottenere «individual and sufficient assurances from the receiving State, as a precondition for removal, that appropriate treatment will be available and accessible to the persons concerned so that they do not find themselves in a situation contrary to Article 3» (par. 193).
Per finire, con riguardo al terzo criterio sopraindicato, si rileva chela mancanza di assistenza familiare o di forme di assistenza sociale nello Stato di destinazione, seppure sempre considerata, non ha mai prodotto effetti o avuto un rilievo autonomo. Con riguardo a tale criterio, inoltre, è tuttora escluso che esso possa essere invocato in base a circostanze oggettive. Può citarsi la decisione nel caso S.H.H. c. Regno Unito. Si trattava di un invalido che aveva subito l’amputazione delle gambe per effetto dell’esplosione di una bomba in Afghanistan, suo Stato di origine. La Corte rileva anzitutto che il soggetto non richiedeva ulteriori trattamenti medici, ragion per cui le carenze del sistema sanitario afghano non venivano in considerazione; veniva invece lamentato dal ricorrente che, a causa della impossibilità di lavorare e per la mancanza di una famiglia che lo sostenesse o di forme adeguate di assistenza sociale, del tutto assenti in Afghanistan, egli corresse il rischio di essere esposto ad un trattamento disumano e degradante. Anche in tal caso, però, il rilievo oggettivo delle circostanze lamentate e l’impossibilità di imputarle allo Stato di destinazione giustificano il rigetto del ricorso.
4. Passando ora a considerare la giurisprudenza della CG, vengono in considerazione le decisioni nei casi M’Bodj, Abdida ed MP in cui la CG è stata sollecitata a chiarire se la fattispecie dello straniero irregolare gravemente malato, che rischia di subire per il solo fatto della malattia un trattamento disumano e degradante nello Stato di destinazione, possa farsi rientrare tra le ipotesi in cui deve essere riconosciuta la protezione ai sensi della c.d. direttiva qualifiche (attuata con d. lgs. 19 novembre 2007, n. 251, come novellato dal d. lgs. 21 febbraio 2014, n. 18, sulla quale v., ad es., qui). Quest’ultima è stata adottata dagli Stati UE, nel contesto del c.d. Sistema europeo comune di asilo, al fine di riconoscere uno statusomogeneo di diritti (c.d. protezione sussidiaria) ai soggetti che, in base alla CEDU e alle altre norme sui diritti umani, sono tutelati solo dal divieto di refoulement, senza ulteriore determinazione dei diritti di soggiorno loro spettanti. Si è voluto così, da un lato, equiparare la situazione di tali soggetti a quella dei rifugiati che, in base alla Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951, hanno sempre goduto di un preciso status, dall’altro, evitare eccessive differenze di trattamento da Stato a Stato, causa di possibili movimenti secondari.
La CG ritiene che la disposizione della direttiva qualifiche in linea di principio applicabile al caso degli stranieri gravemente malati sia l’art. 15 lett. b) in base al quale «la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo paese di origine» costituisce danno grave il cui rischio di realizzazione giustifica la protezione sussidiaria. Nell’interpretare tale disposizione, la CG si rifà anzitutto ai principi della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Carta) e agli obblighi internazionali; in particolare, essa afferma che l’art. 15 lett. b) va interpretato in base all’art. 4 della Carta il quale, a sua volta, ai sensi dell’art. 53, par. 2, avendo lo stesso contenuto dell’art. 3 CEDU, deve essere inteso alla luce della portata e del significato di quest’ultimo, come interpretato dalla Corte EDU (v., in particolare, la citata decisione nel caso MP, punti 37-43).
Tuttavia, la CG afferma che non c’è una perfetta coincidenza tra i soggetti a cui va riconosciuta la protezione sussidiaria e coloro che sono tutelati dal divieto di refoulement di cui all’art. 3 CEDU e che la differenza tra i due ambiti si manifesta proprio nel caso degli stranieri malati. Difatti, in tale ipotesi, secondo la Corte EDU il divieto di respingimento può operare per cause oggettive, individuate nelle decisioni D. c. Regno Unito e Paposhvili c. Belgio; nel caso della direttiva qualifiche, invece, il danno grave deve essere in rapporto causale con il comportamento di un terzo e non può, quindi, derivare semplicemente da carenze generali del sistema sanitario dello Stato d’origine. Ciò si desume dall’art. 6, che contiene un elenco di soggetti a cui deve essere imputato il danno, nonché dal ‘considerando’ 26 della direttiva qualifiche del 2004 (‘considerando’ 35 della direttiva qualifiche 2011), in base al quale i rischi cui è esposta in generale la popolazione, o una parte della popolazione, di un Paese di norma non costituiscono di per sé una minaccia individuale da definirsi come danno grave. La CG ne conclude che il rischio di deterioramento dello stato di salute di uno straniero, affetto da una grave malattia, dovuto all’assenza di terapie adeguate nel suo Stato di origine, senza che sia in discussione una privazione di assistenza sanitaria inflittagli intenzionalmente, non basta a determinare il riconoscimento della protezione sussidiaria ai sensi dell’art. 15 lett. b) direttiva qualifiche (v., ad es., la citata decisione nel caso M’Bodj, punti 32-41).
Interessante è la decisione MP nella quale viene fornita una interpretazione più elastica della nozione di imputabilità allo Stato della privazione di assistenza sanitaria. Nel caso di specie, si trattava di un soggetto che, a seguito delle torture subite nel Paese di origine, soffriva di gravi disturbi psichiatrici per i quali era in cura nello Stato di accoglienza; essendo venuto meno il rischio di essere assoggettato a tortura nel suo Paese, ne era stato disposto l’allontanamento al quale il soggetto si opponeva affermando che, considerata la situazione sanitaria di detto Stato, i propri disturbi si sarebbero accentuati esponendolo a sofferenze e al rischio di suicidio. La CG in tal caso valorizza il fatto che il disturbo psichiatrico non fosse di origine naturale, ma fosse derivato dalla tortura praticata dallo Stato di origine e richiama l’art 14 della Convenzionecontro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, conclusa a New York il 10 dicembre 1984, ai sensi del quale lo Stato autore dell’illecito ha l’obbligo di assicurarealla vittima di un atto di tortura il diritto al risarcimento che comprenda i mezzi necessari ad una riabilitazione la più completa possibile. Tale obbligo, a seconda delle circostanze del caso, da valutarsi dal giudice del rinvio, secondo la CG può far sì che le carenze di assistenza del sistema sanitario rilevino come danno imputabile allo Stato autore della tortura facendo rientrare il soggetto nell’ambito di applicazione della direttiva qualifiche e della protezione internazionale (punto 52 ss.).
Peraltro, l’esclusione dalla protezione sussidiaria nei casi in cui le carenze di assistenza sanitaria non siano imputabili allo Stato di destinazione non comporta che il soggetto possa essere allontanato, ma solo che non gode dei benefici che costituiscono tale status. La CG ha sempre distinto, nella sua giurisprudenza, l’ambito di applicazione della direttiva qualifiche, che si occupa del riconoscimento della protezione internazionale, da quello della c.d. direttiva rimpatri (attuata con d. l. 23 giugno 2011, n. 89 convertito dalla l. 2 agosto 2011 n. 129 ) che definisce le ipotesi in cui è configurabile un divieto di allontanamento. Centrale è l’art. 5 della direttiva rimpatri ai sensi del quale, «[n]ell’applicazione della presente direttiva, gli Stati membri… rispettano il principio di non-refoulement». Per determinare il contenuto di tale disposizione, nel citato caso Abdida, la CG applica ancora una volta una serie di rinvii interpretativi stabilendo che essa va letta alla luce dell’art. 19 par. 2 della Carta il quale, a sua volta, va sostanzialmente inteso con lo stesso contenuto dell’art. 3 CEDU. In questo caso, però, la CG accerta una perfetta coincidenza tra i soggetti che sono tutelati dall’art. 3 CEDU e quelli che rientrano sotto l’art. 5 della direttiva rimpatri; quest’ultimo, pertanto, si applica a coloro che, affetti da malattia grave, per assenza di terapie adeguate nello Stato di origine, rischiano di subire un trattamento inumano o degradante, ancorché non vi sia una privazione di assistenza sanitaria inflitta intenzionalmente (punti 47-49).
Sebbene i soggetti ora indicati non godano della protezione sussidiaria, ma solo del divieto di allontanamento, essi non sono del tutto sprovvisti di tutela. Sempre nella decisione nel caso Abdida, infatti, la CG sottolinea l’obbligo degli Stati membri di attenersi nella loro legislazione alle garanzie poste dall’art. 14 della direttiva rimpatri, il quale stabilisce che ai soggetti il cui allontanamento è stato differito devono essere assicurati l’unità familiare, le prestazioni sanitarie d’urgenza e il trattamento essenziale delle malattie, l’accesso al sistema educativo di base per i minori, nonché le «esigenze particolari delle persone vulnerabili». Di tale disposizione la CG fornisce una interpretazione ampia, inclusiva dell’obbligo di provvedere alle necessità primarie dello straniero quando quest’ultimo sia privo dei mezzi per provvedervi egli stesso. Afferma infatti la CG che «la garanzia delle prestazioni sanitarie d’urgenza e del trattamento essenziale delle malattie, prevista dall’articolo 14, paragrafo 1, lettera b), della direttiva 2008/115, in una tale situazione potrebbe essere priva di effetto reale se non fosse accompagnata da una presa in carico delle esigenze basilari del cittadino interessato di paese terzo». Ne consegue che «l’articolo 14, paragrafo 1, lettera b), della direttiva 2008/115 dev’essere interpretato nel senso che osta a una normativa nazionale che non prevede la presa in carico, per quanto possibile, delle necessità primarie di un cittadino di paese terzo affetto da una grave malattia, al fine di garantire che le prestazioni sanitarie d’urgenza e il trattamento essenziale delle malattie possano effettivamente essere forniti nel periodo durante il quale lo Stato membro di cui trattasi è tenuto a rinviare l’allontanamento di tale cittadino di paese terzo in seguito alla proposizione di un ricorso contro una decisione di rimpatrio adottata nei suoi confronti» (punti 59-62).
5. L’indagine svolta ha evidenziato l’esistenza di una serie di ipotesi in cui la malattia dello straniero irregolarmente presente nel territorio italiano rileva in base ad obblighi internazionali implicando il rilascio di permessi di soggiorno diversi da quello previsto all’art. 19, comma 2, lett. d-bis), TUI.
In particolare, vengono anzitutto in considerazione le fattispecie in cui la scarsa qualità della, o le difficoltà nell’accesso alla, assistenza sanitaria siano imputabili allo Stato di destinazione. In sintesi, come abbiamo visto, tali casi si verificano quandola scarsa disponibilità o le difficoltà di accesso alle cure siano dovute ad un atteggiamento discriminatorio o persecutorio dello Stato di destinazione, ovvero quando il soggetto di cui è chiesta l’estradizione rischi di essere sottoposto ad un regime carcerario inappropriato per le sue condizioni di salute o, ancora, nel caso in cui la malattia dello straniero derivi da precedenti attività di tortura o trattamenti disumani dello Stato di destinazione e possa configurarsi un inadempimento, da parte di quest’ultimo, dell’obbligo di provvedere di cui all’art. 14 della citata Convenzione sulla tortura. Tutti i suddetti casi – ed altri in cui possa ravvisarsi una responsabilità, diretta o indiretta, dello Stato di destinazione – rientrano nell’ambito di applicazione dell’art. 15, lett. b), direttiva qualifiche e, pertanto, va riconosciuto allo straniero malato il permesso di soggiorno per protezione sussidiaria di cui all’art. 23 d. lgs. 251/2007. Tale permesso ha validità quinquennale, èrinnovabile, consente l’accesso al lavoro e allo studio, è convertibile per motivi di lavoro, sussistendone i requisiti, dà diritto al ricongiungimento familiare e attribuisce tutti i diritti di cui agli artt. 24 ss. dello stesso decreto, in particolare il diritto ad una assistenza sanitaria e sociale pari a quella riconosciuta al cittadino italiano, all’alloggio (art. 29) e alla integrazione. La domanda va presentata alla commissione territoriale competente.
Lo straniero irregolare malato rientra invece nell’ambito di applicazione dell’art. 3 CEDU, nonché dell’art. 19.2 della Carta – al quale la CG attribuisce lo stesso contenuto dell’art. 3 CEDU – e dell’art. 5 della direttiva rimpatri che, sempre secondo la CG,va inteso alla luce delle predette disposizioni, nei casi in cui, per le condizioni terminali in cui versa, il trasferimento lo esporrebbe al rischio di morte, ovvero quando, per la mancanza di un trattamento sanitario appropriato nello Stato di destinazione o per la difficoltà di accesso a tale trattamento, vi sia il rischio che egli possa essere esposto ad un rapido ed irreversibile declino del suo stato di salute che determini una intensa sofferenza o una significativa riduzione delle aspettative di vita.Dalle norme in questione deriva un diritto soggettivo incondizionato e di applicazione diretta a non essere allontanato; nel nostro ordinamento tale diritto è ulteriormente garantito dal rilascio di un permesso di soggiorno c.d. per “protezione speciale” introdotto a seguito della modifica che il d. l. 4 ottobre 2018 n. 113 ha apportato all’art. 32, comma 3, d. lgs. 25/2008 novellato. Quest’ultimo, nell’attuale formulazione, stabilisce che, quando la Commissione territoriale non ravvisi gli estremi della protezione internazionale e tuttavia ritenga che sussistano i presupposti di applicazione dell’art. 19, comma 1 e 1.1, TUI, trasmette gli atti al questore che adotterà il permesso per protezione speciale. Ora, l’art. 19, comma 1.1, TUI, vietando l’allontanamento «di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura», va inteso come un richiamo, tra l’altro, di tutti i casi ricompresi nell’ambito di applicazione dell’art. 3 CEDU il quale è appunto intitolato «Proibizione della tortura»; non è inutile aggiungere che, di conseguenza, l’art. 19, comma 1.1, dà anche attuazione all’art. 19, punto 2 della Carta e all’art. 5, ultima frase, della direttiva rimpatri.
Il permesso di soggiorno per protezione speciale cui hanno diritto i soggetti che, rientrando nell’ambito di applicazione dell’art. 3 CEDU, ricadono anche sotto l’art. 19, comma 1.1, TUI, hadurata annuale, è rinnovabile, consente di svolgere attività lavorativa, ma non può essere convertito in permesso di soggiorno per motivi di lavoro. Esso dà inoltre diritto alla iscrizione al Servizio sanitario nazionale ex art. 34 TUI. Considerata la durata annuale del permesso, ai sensi dell’art. 41 TUI i titolari «sono equiparati ai cittadini italiani ai fini della fruizione delle provvidenze e delle prestazioni, anche economiche, di assistenza sociale». Può ritenersi quindi che sia stata data attuazione all’art. 14 della direttiva rimpatri che, come sopra ricordato, impone agli Stati membri l’obbligo di provvedere alle necessità primarie degli stranieri il cui allontanamento non sia possibile. La domanda, come già detto, deve essere presentata alla Commissione territoriale, la quale, sempre che non ravvisi gli estremi della protezione internazionale, trasmetterà gli atti al questore che sarà tenuto ad adottare il permesso per protezione speciale.La commissione territoriale trasferirà gli atti al questore anche quando vi sarebbero gli estremi per il riconoscimento della protezione sussidiaria, ma sussistano cause di esclusione o cessazione o revoca di tale protezione. In tal caso, non essendo comunque il soggetto allontanabile, si provvederà al rilascio del permessoper protezione speciale.
Solo se non si ravvisino i presupposti per la protezione sussidiaria o per quella speciale, verrà in considerazione il permesso di soggiorno per cure mediche di cui all’art. 19, comma 2, lett. d-bis) TUI. Quest’ultimo, pertanto, ha una portata residuale rispetto ai due permessi di soggiorno fin qui considerati, fondati su obblighi internazionali e dell’UE. Ne deriva che non è possibile attribuire alle espressioni «condizioni di salute di particolare gravità» e «rilevante pregiudizio alla salute» che ricorrono nell’art. 19, comma 2, lett. d-bis) TUI, il senso che sembrerebbe scaturire da una prima interpretazione letterale. Difatti, ritenendo che presupposto per l’applicazione della disposizione in esame sia una patologia molto seria e che il pregiudizio derivante dal trasferimento debba essere molto grave, la disposizione sarebbe del tutto inutile perché tali requisiti già comportano l’applicazione dell’art. 3 CEDU e dei permessi di soggiorno, molto più favorevoli, su esso fondati. Per attribuire un senso alla norma in esame, va invece ritenuto che essa si applichi a patologie fisiche e psichiche di medio livello di gravità (diversamente da quanto affermato in una recente circolare) nei casi in cui il trasferimento possa determinare un generico peggioramento delle condizioni di salute che non arrivi però ad una riduzione delle aspettative di vita o ad una intensa sofferenza che integrino gli estremi del trattamento disumano o degradante. Possono farsi rientrare nell’ambito di applicazione dell’art. 19, comma 2, lett. d-bis) anche i casi in cui lo straniero presenti forme di invalidità che, pur non richiedendo il ricorso a cure mediche, rendano necessaria nello Stato di destinazione una assistenza familiare o sociale per provvedere ai bisogni basilari dell’esistenza. Infine, l’art. 19, comma 2, lett. d-bis) TUI va inteso anche alla luce di quanto deciso dalla Corte costituzionale nella sentenza del 25 luglio 2001 n. 252; in essa, si afferma che dall’art. 35 n. 3 TUI, letto alla luce degli artt. 2 e 32 Cost., deriva il divieto di allontanare lo straniero irregolarmente presente nel territorio dello Stato al quale «sono… erogati non solo gli interventi di assoluta urgenza e quelli indicati dall’art. 35, comma 3, secondo periodo, ma tutte le cure necessarie, siano esse ambulatoriali o ospedaliere, comunque essenziali, anche continuative, per malattia e infortunio» (par. 4). Allo straniero sottoposto ai trattamenti solo esemplificativamente indicati all’art. 35 n. 3 TUI oppure a «tutte le cure necessarie… ambulatoriali o ospedaliere, comunque essenziali, anche continuative, per malattia e infortunio» si concederà pertanto il permesso di soggiorno per cure mediche, indipendentemente da considerazioni sull’assistenza sanitaria dello Stato di destinazione, quando la sospensione del trattamento sanitario costituirebbe violazione del diritto alla salute nel suo nucleo essenziale.
6. Alcune brevi considerazioni per concludere. Il soppresso istituto della protezione umanitaria ha consentito per tanti anni di dare tutela a casi che, pur essendo fondati su obblighi internazionali, per pressapochismo del legislatore e per esigenze pratiche degli operatori, non sono stati ricondotti alle fonti esterne da cui derivavano, dato che l’ampio e generale istituto interno consentiva comunque di pervenire ad una soluzione soddisfacente per vie più rapide e semplificate. La modifica legislativa ha quindi l’effetto positivo di costringere, d’ora in poi, a maggiore precisione e correttezza nell’osservanza degli obblighi derivanti da fonte esterna: deve essere un impegno della dottrina e della giurisprudenza definire esattamente i contorni di tutte le fattispecie di protezione recuperando finalmente quelle che, pur fondate su obblighi internazionali e dell’UE direttamente applicabili, sono state sin qui camuffate da protezione umanitaria.
In secondo luogo, indipendentemente dalle intenzioni di partenza del legislatore, decisamente sopravalutate, una volta inserito nel complessivo ordinamento, l’atto normativo esaminato, come sempre accade, vive di vita propria e, nel coordinamento con le altre norme, può determinare una eterogenesi dei fini, se il legislatore insipiente non ha preso in considerazione l’intero quadro normativo. Ed invero, come risulta dall’indagine svolta, l’art. 19, comma 2, lett. d-bis), TUI novellato, ha l’effetto non di ridurre, bensì di aumentare i casi di protezione, aggiungendo le ipotesi da esso previste a quelle di fonte esterna. Si perviene, così, ad una tutela particolarmente avanzata dello straniero irregolare malato, tale da porre l’Italia all’avanguardia rispetto agli altri Stati europei determinando una “conversione” (in senso paolino) del c.d. decreto Salvini.
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