Il Tribunal Supremo condanna il Governo spagnolo per l’inadempimento dei suoi obblighi di ricollocazione, ma è bene non farsi illusioni
Gracy Pelacani, Universidad de los Andes (Bogotá, Colombia)
Il 9 luglio 2018, il Tribunal Supremo spagnolo ha accolto parzialmente il ricorso contenzioso-amministrativo presentato da l’Asociació de suport a Stop Mare Mortum.
La sentenza dichiara che il Governo spagnolo ha parzialmente inadempiuto ai suoi obblighi di ricollocazione e lo ha condannato a portare a termine i procedimenti finalizzati al ricollocamento dei richiedenti protezione internazionale fino al raggiungimento della quota assegnatagli.
Gli obblighi in questione derivavano dalle decisioni del Consiglio UE n. 2015/1523 del 14 settembre 2015 e n. 2015/1601 del 22 settembre 2015, le quali istituivano un meccanismo emergenziale e temporaneo di ricollocazione dei richiedenti protezione internazionale a beneficio di Italia e Grecia. Ciò a seguito del riconoscimento della “pressione migratoria eccezionale” alla quale i due Stati membri dovevano fare fronte, della “grave vulnerabilità” dei loro sistemi d’asilo e della presenza di un’alta percentuale di “persone con evidente bisogno di protezione internazionale” tra coloro che avevano fatto ingresso nei rispettivi territori dal 2014 (Proposta di Decisione del Consiglio, COM(2015) 286 final, p. 3; EASO 2015 Annual Report, pp. 5-6; Frontex ARA 2015, pp. 47-49).
Come ben si ricorda, tali misure, già annunciate nell’Agenda europea sulla migrazione tra le azioni immediate da intraprendere “di fronte alla tragedia umana che si consuma in tutto il Mediterraneo”, costituiscono il primo esercizio della facoltà riconosciuta al Consiglio di adottare, su proposta della Commissione, misure temporanee a beneficio di uno o più Stati membri che “debbano affrontare una situazione di emergenza caratterizzata da un afflusso improvviso di cittadini di paesi terzi” ex art. 78.3 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE). L’obiettivo era la ricollocazione di un totale di 160.000 richiedenti “in evidente bisogno di protezione internazionale” (Art. 3.2, decisione 2015/1523) che avessero presentato domanda di protezione internazionale in Grecia o Italia e vi fossero giunti, rispettivamente, dal 15 agosto o 24 marzo 2015, ed entro il 17 o 26 settembre 2017, data a partire dalla quale le decisioni hanno cessato di applicarsi.
In deroga (temporanea) ai criteri di allocazione della responsabilità per l’esame di una domanda di protezione internazionale ex art. 13.1 del Regolamento n. 604/2013 del 26 giugno 2013 (Regolamento Dublino III), ogni Stato membro si è visto assegnare una quota di richiedenti da ricollocare, definita in base a vari parametri. La seconda decisione è stata poi modificata dalla decisione 2016/1754 del 29 settembre 2016 – a seguito della Dichiarazione UE-Turchia del 18 marzo 2016 – che ha consentito agli Stati membri di reinsediare cittadini siriani presenti in Turchia in evidente bisogno di protezione internazionale fino a un limite di 54.000 persone, “detraendoli” dalla quota assegnata in base alla decisione del 22 settembre 2015.
Come noto, queste decisioni non sono state esenti da critiche. In particolare, la validità della seconda è stata oggetto di due ricorsi per annullamento da parte della Repubblica slovacca e dell’Ungheria, entrambi rigettati dalla Corte di giustizia (cause riunite C-643/15 e C-647/15, sentenza 6 settembre 2017; v. per un commento S. Peers). Ciononostante, gli obblighi di ricollocazione in capo all’Ungheria, così come quelli incombenti sulla Polonia, rimangono ad oggi totalmente inadempiuti, mentre la Repubblica Slovacca e la Repubblica Ceca hanno rispettivamente accolto solo 12 e 16 persone ricollocate(dati al 4 marzo 2018; v. per un commento qui e qui).
Questo è il contesto alla luce del quale va letta la sentenza del Tribunal Supremo del 9 luglio 2018. Se, da un lato, la situazione (di parziale inadempimento) in cui si trova lo Stato spagnolo non è isolata, dall’altro (almeno prima facie) il suo inadempimento non pare essere frutto di una volontà esplicita di opporsi al meccanismo. Infatti, la Spagna non è stata oggetto di alcuna procedura di infrazione, al contrario di Ungheria, Repubblica Ceca e Polonia, il cui persistente rifiuto di adempiere ha dato luogo a un ricorso della Commissione del 7 dicembre 2017.
Il ricorso dell’associazione catalana innanzi alla giustizia amministrativa spagnola veniva proposto nell’aprile 2017 (e dunque prima dell’insediamento del nuovo Governo a guida socialista) a seguito del rigetto per silenzio-assenso di una richiesta amministrativa volta a ottenere l’adempimento immediato degli obblighi di ricollocazione. Sotto il profilo processuale, tale circostanza ha consentito (e si tratta di un elemento di particolare importanza, data l’urgenza di incrementare il numero delle ricollocazioni) di ricorrere direttamente al Tribunal Supremo, e, quindi, di ottenere in un tempo relativamente breve una pronuncia definitiva e non impugnabile.
La ricorrente chiedeva l’accertamento dell’inadempimento e la condanna del Governo spagnolo ad adempiere con immediatezza e urgenza. In particolare, domandava che fossero ricollocati da Italia e Grecia un numero di richiedenti protezione internazionale – potenzialmente beneficiari del meccanismo – pari alla differenza tra il numero di migranti che la Spagna era obbligata a ricollocare (19.449 persone) e quanti fino a quel momento erano stati effettivamente ricollocati (al 14 marzo 2018 solo 1.358 persone, meno del 7%, su un totale di 2.500 posti offerti, pari a circa il 13% del totale).
I punti di indubbio interesse della sentenza su cui occorre soffermarsi sono almeno due. Da un lato, l’affermazione della competenza da parte dei giudici nazionali a controllare l’attività della pubblica amministrazione quando volta all’adempimento ed esecuzione degli obblighi derivanti dal diritto dell’UE e da queste due decisioni in particolare. Dall’altro, la condanna dello Stato a proseguire con i procedimenti di ricollocazione, sebbene le decisioni che istituivano il meccanismo non siano più in vigore e nonostante vi siano ulteriori fattori che spiegano in parte l’inadempimento e che non possono attribuirsi direttamente all’operato del Governo spagnolo.
Riguardo al primo punto, l’Avvocatura dello Stato sosteneva che la competenza a statuire in merito all’adempimento delle decisioni incombesse in via esclusiva alle istituzioni dell’UE, nello specifico alla Commissione tramite la procedura d’infrazione ex art. 17.1 del Trattato sull’Unione europea (TUE), come dimostrato dalle procedure avviate nei confronti di Ungheria, Repubblica Ceca e Polonia. In subordine, essendo questa una questione sulla quale la Corte di giustizia non si era ancora pronunciata, l’Avvocatura chiedeva di sollevare una questione pregiudiziale al fine di stabilire se tale competenza fosse esclusiva o condivisa e, in tal caso, affinché la Corte indicasse le misure di coordinamento tra le istituzioni dell’UE e i giudici nazionali necessarie al fine di evitare esiti contradditori a seguito del doppio controllo.
Il Tribunal Supremo rigetta gli argomenti dell’Avvocatura dello Stato per due ordini di motivi. In primo luogo, rammenta che l’esercizio da parte della Commissione del potere di avviare una procedura di infrazione ha natura facoltativa, peraltro con ampia discrezionalità, e non obbligatoria, con il corollario che i privati, pur potendo segnalare eventuali inadempimenti, non possono esigere l’avvio della procedura.
In secondo luogo, il Tribunal Supremo fa perno sulla giurisprudenza della Corte di giustizia per affermare che, quando una decisione abbia come destinatario uno Stato membro, essa avrà portata generale laddove si applichi a situazioni determinate obiettivamente e produca effetti giuridici nei confronti di categorie di persone definite in modo generale e astratto (cause riunite 16 e 17/62, Confédération nationale des producteurs de fruits et légumes et al./Consiglio, 14 dicembre 1962; C-503/07, Saint Gobain Glass Deutschland/Commissione, 8 aprile 2008, §32). Inoltre, godendo le decisioni di effetto diretto, negare agli individui la possibilità di invocarle davanti ai giudici nazionali ne frustrerebbe l’effetto utile. Infatti, dato il loro carattere obbligatorio, ne verrebbe limitata la portata ove non si permettesse ai singoli di invocarle e ai giudici nazionali di prenderle in considerazione come norma di diritto dell’UE (C-9/70, Franz Grad/ Finanzamt Traunstein, 9 ottobre 1970, §5). Ne deriva che questi ultimi sono investiti della competenza per controllare l’adempimento delle decisioni a seguito di un ricorso presentato da parte dei soggetti legittimati, senza che questo sia in contraddizione con le competenze della Commissione in merito all’avvio della procedura di infrazione. Aggiunge il Tribunal Supremo che, anche qualora un ricorso per inadempimento fosse pendente innanzi alla Corte di giustizia, la competenza dei giudici nazionali non ne risulterebbe compromessa, essendo quello interno l’unico rimedio che i privati possono esperire per far valere i loro diritti. Ciò non toglie che i giudici nazionali dovranno, in quest’ultimo caso, attendere la sentenza della Corte di giustizia e decidere in conformità a quanto da questa statuito.
Il secondo punto rilevante della sentenza risponde a un’ulteriore obiezione da parte dell’Avvocatura: data la vigenza temporalmente limitata delle decisioni e il carattere provvisorio delle misure, la resistente affermava che il ricorso dovesse essere rigettato non essendo queste in vigore e, dunque, non essendo più possibile esigerne l’adempimento. Inoltre, si giustificava il loro mancato adempimento facendo appello alla laboriosità del procedimento amministrativo interno e al necessario intervento di numerosi attori, e non alla mancanza di volontà dello Stato di portare a termine le ricollocazioni.
Il Tribunal Supremo afferma, in senso contrario, che lo spirare dei termini di vigenza delle decisioni non esime gli Stati dall’adempiere agli obblighi che ne derivano. Infatti, come rimarcato dalla Commissione nella sua Undicesima relazione sulla ricollocazione e il reinsediamento: “gli obblighi giuridici degli Stati membri non verranno meno dopo settembre 2017” (p. 13). Inoltre, pur riconoscendo che l’insoddisfacente numero di ricollocazioni effettuate può essere, almeno in parte, dovuto alle difficoltà incontrate nel coordinare in modo efficiente i rispettivi procedimenti con Grecia e Italia e con gli ulteriori attori coinvolti, queste non costituiscono ragioni sufficienti a giustificare l’inadempimento e non possono considerarsi motivo d’estinzione degli obblighi rispettivi.
Il Tribunal Supremo ricorda, a questo proposito, che le stesse decisioni prevedevano che uno Stato membro, al verificarsi di circostanze eccezionali, potesse richiedere la sospensione temporanea delle ricollocazioni fino al 30 % dei richiedenti assegnati (art. 4.5, Dec. 2015/1601), come, di fatto, è stato richiesto e concesso all’Austria fino all’11 marzo 2017 (decisione di esecuzione 2016/408 del 10 marzo 2016). In aggiunta, si contemplava l’ulteriore possibilità di sospendere in via temporanea la partecipazione di uno Stato membro al meccanismo nel caso in cui si fosse trovato ad affrontare una “situazione di emergenza caratterizzata da un afflusso improvviso di cittadini di paesi terzi” (cf. art. 9, Dec. 2015/1601). Possibilità della quale la Svezia ha beneficiato fino al 16 giugno 2017 (decisione 2016/946 del 9 giugno 2016). Dunque, non avendo lo Stato spagnolo manifestato in alcun momento la volontà di utilizzare queste misure, non può ora addurre in modo convincente, a giustificazione del proprio inadempimento, le difficoltà amministrative o la mancata collaborazione degli altri Stati membri coinvolti.
Da più parti questa sentenza è stata accolta con favore e quasi con entusiasmo. In primis, per i suoi potenziali effetti transnazionali, ipotizzando che simili azioni possano essere intraprese in altri Stati membri, generando un effetto a catena tale da portarli a compiere quegli sforzi ulteriori a cui la Commissione non ha smesso di fare riferimento come necessari perché possano raggiungersi gli obiettivi di ricollocazione fissati nel settembre del 2015. Si è poi sostenuto che la sentenza potrebbe dare un impulso importante alla proposta di regolamento che contiene, accanto a una parziale riforma del Regolamento di Dublino III (n. 604/2013), l’istituzione di un sistema di ricollocazione di natura permanente da attivare in situazioni di crisi.
Tuttavia, alla luce delle complessità che caratterizzano la situazione attuale in merito alla gestione dei flussi migratori e della loro affatto inaspettata diversione dalle rotte del Mediterraneo centrale verso la Spagna, vi sono più motivi che giustificano una visione meno entusiastica rispetto agli effetti che questa pronuncia potrà avere sull’effettiva accelerazione delle ricollocazioni e sul futuro della politica migratoria della Spagna e dell’UE. D’altronde, simili dubbi sussistono anche in relazione alla sentenza della Corte di giustizia che confermava la validità della decisione 2015/1601.
Senza spingerci fino a immaginare una sentenza di segno opposto, il recente collasso dei centri di accoglienza andalusi e la ripresa dei tentativi di superare la barriera di Ceuta da parte di gruppi numerosi di migranti (850 persone nell’ultimo tentativo del 25 luglio 2018) portano a mettere in dubbio l’effettiva capacità del governo spagnolo di far fronte ai propri impegni in materia di ricollocazione. Ci si chiede, infatti, se tali difficoltà non potrebbero ora addursi in modo molto più convincente al fine di giustificare il proprio parziale inadempimento. Numeri alla mano, potrebbe argomentarsi che ora è la Spagna lo Stato membro che deve far fronte a una “pressione migratoria eccezionale” e il cui sistema d’asilo si trova in uno stato di “grave vulnerabilità”. A questo proposito, vale la pena ricordare che è attesa a breve la decisione della Grande Camera della CtEDU sulla condanna dello Stato spagnolo come conseguenza della violazione dell’articolo 4 protocollo 4 CEDU per la devolución en caliente di due cittadini stranieri a seguito del superamento della barriera di Melilla e ingresso irregolare nel territorio nazionale.
Da ultimo, è bene tener presente che la sentenza in esame giunge nel momento in cui la Spagna è lo Stato membro in cui si sono registrati quasi la metà degli arrivi totali durante l’anno in corso presso le frontiere esterne dell’UE che si affacciano sul Mediterraneo. Infatti, dei 85.545 arrivi registrati, 41.301 sono le persone arrivate via mare o terra in territorio spagnolo, superando già di molto il totale degli arrivi in tutto il 2017 (dati aggiornati al 26 settembre), rendendo così evidente e innegabile la diversione dei flussi da Italia e Grecia.
Una situazione che ha portato la Commissione a incrementare di ulteriori 3 milioni di euro gli stanziamenti di emergenza a favore della Spagna, che si aggiungono ai 25,6 milioni già stanziati il 2 luglio 2018, e che verranno impiegati per incrementare la presenza della Guardia Civil presso la frontiera sud e, in particolare, sulla costa andalusa. A questi vanno aggiunti 55 milioni di euro stanziati nell’ambito del programma di controllo delle frontiere marocchine e tunisine come parte del Fondo fiduciario europeo di emergenza per l’Africa e il rilancio delle negoziazioni per la firma di un accordo di riammissione tra la Commissione e il Marocco (COM(2018) 250 final, 14.3.2018, p. 15).
Di conseguenza, a partire dall’esperienza maturata con le misure di ricollocazione adottate nel settembre del 2015, e alla luce dei più recenti avvenimenti, potremmo ipotizzare allora che una delle possibili proposte future sia l’adozione di misure temporanee ex art. 78.3 TFUE a favore, ora, della Spagna. Potrebbe così cogliersi l’occasione per rimediare alle mancanze più evidenti presentate delle precedenti misure, in particolare del criterio della nazionalità utilizzato per “selezionare” i richiedenti “in evidente bisogno di protezione internazionale” (v. Implementation of the 2015 Council Decisions establishing provisional measures in the area of international protection for the benefit of Italy and of Greece, Study for the LIBE Committee, 07.03.2017, pp. 29-35).
Nondimeno, le (seppur vaghe) conclusioni del Consiglio europeo del 28 giugno 2018 sembrano far pensare che la destinataria della maggior parte degli sforzi e dei fondi dell’Unione continuerà ad essere la dimensione esterna e di sicurezza della politica migratoria (v. precedente post di Marcello di Filippo). O così almeno induce a pensare la proposta di creare “centri controllati” interni al territorio dell’Unione, dove le persone possano sbarcare dopo essere state tratte in salvo durante un’operazione di ricerca e salvataggio. Centri che appaiono, dal poco che si sa per ora sul loro conto, un’evoluzione ed esportazione da Italia e Grecia della strategia dei punti di crisi (hotspot). Proposta che sembra debba svilupparsi in parallelo allo studio della possibilità di creare “piattaforme di sbarco regionali” in Stati terzi, iniziativa affatto nuova, e che, com’era da aspettarsi, ha già ricevuto numerose e prevedibili critiche (vedi qui e qui).
No Comment