Stato d’emergenza in Turchia: prime risposte dalla Corte europea dei diritti umani
Emanuele Sommario, Scuola Superiore Sant’Anna, Pisa
- Introduzione
Nel luglio 2016 la Turchia è stata teatro di un tentativo di colpo di stato, fallito nell’arco di poche ore. In reazione agli eventi, il governo turco ha messo in atto una serie di misure repressive, volte a individuare e punire quanti fossero – a diverso titolo – coinvolti nel tentato putsch, e a smantellare il gruppo “terroristico” denominato Fethullahçı Terör Örgütü (FETÖ), individuato come responsabile della sedizione. I provvedimenti – introdotti per mezzo di decreti emergenziali – hanno determinato una serie di profonde modifiche all’assetto giuridico-istituzionale del Paese, stabilendo l’accentramento del potere nelle mani dell’esecutivo, consentendo l’arresto e il licenziamento di decine di migliaia di cittadini turchi, esonerando gli organismi giurisdizionali nazionali dall’esercizio di parte dei propri compiti di controllo, indebolendo le garanzie in materia di equo processo, autorizzando la chiusura e la liquidazione di organi di stampa considerati vicini ai golpisti, e introducendo altre misure normalmente incompatibili con l’ordinamento turco.
Sul piano internazionale, per fornire giustificazione giuridica alla propria condotta, il governo ha scelto di avvalersi della facoltà di sospendere gli obblighi derivanti dalla Convenzione europea per i diritti umani (CEDU) e dal Patto internazionale per i diritti civili e politici (PIDCP), facendo ricorso alle clausole derogatorie contenute, rispettivamente, nell’art. 15 e nell’art. 4 dei due trattati. Come noto, le clausole di deroga sono invocabili dagli Stati qualora questi si trovino alle prese con una situazione di pericolo pubblico eccezionale. La ratio della disposizione risiede nel consentire l’introduzione di misure emergenziali – altrimenti incompatibili con gli obblighi convenzionali – per permettere un’azione più rapida e efficace di contrasto all’emergenza. Tuttavia, gli Stati che volessero esercitare tale diritto devono conformarsi agli obblighi sostanziali e procedurali contenuti nelle clausole, e rimangono sottoposti allo scrutinio degli organi internazionali che verificano il rispetto dei trattati (per una panoramica, v. Eboli). Per quanto concerne la CEDU, tale ruolo è svolto dalla Corte europea dei diritti umani (CtEDU).
Fino ad ora, la CtEDU non si era ancora espressa sulla conformità della condotta turca rispetto agli standard imposti dalla Convenzione. Il 20 marzo 2018 ha finalmente licenziato due sentenze (Mehmet Hasan Altan c. Turchia e Şahin Alpay c. Turchia) concernenti la carcerazione preventiva di due giornalisti, accusati di essere organici al FETÖ. Le due sentenze – assai simili nei contenuti – rappresentano le prime pronunce di un organo giurisdizionale internazionale sul rispetto dei parametri fissati dalla clausola di deroga con riferimento allo stato d’emergenza in vigore in Turchia (per un commento a caldo, v. Gatta). Tuttavia, la Corte europea ha assunto determinazioni importanti anche riguardo al contegno delle corti nazionali rispetto alle pronunce della Corte Costituzionale Turca (CCT). Questa si era infatti già pronunciata sulle doglianze dei ricorrenti, disponendone la scarcerazione. Ciononostante, anche a fronte di sentenze vincolanti emesse dal tribunale supremo, le corti inferiori hanno deciso di disattendere la richiesta, mettendo così in discussione l’effettività del ricorso alla CCT (sul punto, v. Çalı). Il presente intervento esaminerà brevemente le sentenze, concentrandosi in prima battuta sulla questione della mancata efficacia del ricorso individuale alla Corte costituzionale, e subito dopo sulla conformità della condotta turca con i principi che informano il funzionamento della clausola derogatoria. Prima, tuttavia, un breve riepilogo dei fatti.
- I fatti sui quali si è pronunciata la Corte europea
In un clima di sempre maggior controllo sugli organi di informazione, i due ricorrenti Alpay e Altan – entrambi cittadini turchi, giornalisti e professori universitari – venivano arrestati (rispettivamente il 27 luglio 2016 e il 10 settembre 2016) e posti in detenzione amministrativa, in quanto sospettati di essere collusi col FETÖ. Le accuse mosse nei loro confronti si basavano esclusivamente sui contenuti di alcuni articoli da essi pubblicati, in cui manifestavano opinioni critiche verso il governo turco, e su labili prove indiziarie.
Dopo aver intrapreso – senza successo – diverse azioni legali per porre fine al loro stato di detenzione, Alpay e Altan proponevano un ricorso individuale alla CCT, che, con due sentenze emesse nel gennaio 2018, accertava la violazione del loro diritto alla libertà personale e della loro libertà di espressione. Tuttavia, le corti d’assise competenti si rifiutavano di disporre il loro rilascio, rigettando apertamente le sentenze della Corte costituzionale turca.
Fra gennaio e febbraio del 2017, i due giornalisti avevano inoltre presentato ricorso alla Corte di Strasburgo, lamentando, fra le altre, violazioni degli art. 5 (libertà personale) e 10 (libertà d’espressione) della CEDU. La Corte europea ha deciso per una trattazione prioritaria dei ricorsi, dandone urgente comunicazione al governo turco e pervenendo rapidamente a una decisione. Entrambi i casi hanno visto la partecipazione del Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, nonché l’intervento come parti terze del Relatore speciale dell’Onu per la promozione e protezione del diritto alla libertà di opinione ed espressione, e di numerose associazioni ed organizzazioni attive per la tutela dei diritti umani.
- Il previo esaurimento dei ricorsi interni
Nel corso degli ultimi mesi, la CtEDU è stata raggiunta da oltre 30.000 ricorsi originatisi in connessione col tentato golpe in Turchia. A gennaio 2018, 27.000 di questi erano stati dichiarati inammissibili dalla Corte, che li aveva respinti in limine evidenziando il mancato esaurimento dei ricorsi disponibili nell’ordinamento nazionale. Come noto, tale requisito è imposto dall’art. 35 della CEDU come condizione per la ricevibilità di un ricorso individuale (v., per tutti, Pisillo Mazzeschi). L’esaurimento dei ricorsi interni rappresenta in effetti la classica manifestazione del principio di sussidiarietà, in base al quale la tutela dei diritti individuali deve realizzarsi, in prima battuta, a livello nazionale (v. Mowbray, Pitea).
Parte della dottrina (Adinolfi, Palma, Turkut) ha ritenuto eccessivamente rigido l’atteggiamento dei giudici di Strasburgo, che in diversi casi (v. ad esempio le decisioni Mercan, Zihni e Bora) avevano respinto i ricorsi, sottolineando la disponibilità di rimedi interni accessibili e potenzialmente adeguati, ma non ancora aditi. Chi ha invece difeso l’atteggiamento della CtEDU (O’Boyle), ha evidenziato la centralità del principio sancito dall’art. 35 nell’architettura del sistema convenzionale. Soltanto in casi in cui il ricorso sia inaccessibile, inadeguato a rimuovere gli effetti della violazione, o privo di concrete prospettive di successo la Corte può ignorare l’obbligo del previo esaurimento. Operando quale organo indipendente e (tendenzialmente) apolitico, la CtEDU non dovrebbe mettere da parte i tradizionali requisiti di ammissibilità, nemmeno in una situazione emergenziale come quella presente in Turchia. Nei due casi in analisi, tuttavia, è indubbio che il rimedio “ultimo” fosse stato esperito, avendo i ricorrenti ottenuto sentenze favorevoli dalla CCT. Le questioni di maggior interesse, dunque, sono la valutazione che la Corte europea fornisce del contegno delle corti inferiori di fronte alle decisioni del tribunale costituzionale, e le conseguenze di tale atteggiamento sull’effettività del ricorso alla CCT.
In entrambi i casi, la CCT ha stabilito che le accuse mosse ai giornalisti non fossero state supportate da elementi di prova sufficientemente persuasivi da giustificare la loro custodia cautelare. Tale misura violava quindi il loro diritto alla libertà personale e la loro libertà d’espressione. Il rifiuto delle corti inferiori di dare esecuzione alle sentenze (in patente contrasto con l’art. 153, par. 6, della Carta costituzionale turca) diviene oggetto di pesante censura da parte della Corte di Strasburgo. Questa ricorda, in primis, come lo stesso governo convenuto avesse argomentato – in fase di ammissibilità – che il ricorso dinanzi alla CCT non fosse ancora stato esaurito, lasciando quindi intendere che tale rimedio andasse considerato efficace ai fini di ottenere il ripristino dei diritti violati. Di qui il disappunto della CtEDU nel rilevare come le corti di prima istanza abbiano negato alle sentenze della CCT l’efficacia che, secondo il governo turco, queste avrebbero dovuto possedere (Alpay, par. 115). La Corte europea critica inoltre le argomentazioni addotte dalle corti inferiori, secondo le quali la CCT non sarebbe stata competente ad analizzare gli elementi di prova contenuti nei dossier dei ricorrenti. Secondo la CtEDU, infatti, la CCT non avrebbe potuto esaminare le doglianze dei ricorrenti, se non considerando gli elementi di accusa sostanziali addotti a loro carico (Altan, par. 136). Più in generale, le sentenze sottolineano come la scelta di una corte ordinaria di mettere in discussione le prerogative della Corte costituzionale confligga coi principi fondamentali dello Stato di diritto e della certezza giuridica.
Rispetto alle conseguenze di tale atteggiamento, ossia alla questione dell’effettività del ricorso alla CCT ai fini del vaglio di ammissibilità exart. 35, la CtEDU si pronuncia in maniera più cauta, lanciando tuttavia un chiaro monito al governo convenuto. Da un lato, afferma che il mancato rilascio dei due ricorrenti, disposto dalla Corte costituzionale, solleva seri dubbi sull’efficacia del ricorso alla Corte medesima, stabilendo tuttavia che il contegno delle corti inferiori, nei due casi in analisi, non può da solo mettere in discussione l’adeguatezza del rimedio in parola. Dall’altro, si riserva di riesaminare la questione, in particolare alla luce della giurisprudenza delle corti di prima istanza, richiamando il governo al proprio compito di garantire che ogni rimedio sia effettivo in teoria come in pratica (Alpay, par. 121). In effetti, la Corte europea ha già evidenziato come l’efficacia di un ricorso vada valutata alla luce della prassi delle corti nazionali: solo in presenza di una consolidata giurisprudenza che metta in luce l’inadeguatezza di un determinato rimedio si potrà pensare di esonerare un ricorrente dall’obbligo di esperirlo (Augusto c. Francia, par. 42-45). Resta da vedere se le corti d’assise (e il governo convenuto) accoglieranno l’invito della Corte di Strasburgo.
- La violazione degli articoli 5 e 10 della CEDU
Rispetto agli aspetti sostanziali, le sentenze della Corte hanno seguito un canovaccio che era facile preconizzare (Sommario 2016), stabilendo – da un lato – che la situazione costituisse un «pericolo pubblico eccezionale», capace di legittimare il ricorso all’art. 15 della Convenzione, e dall’altro che le misure adottate non fossero strettamente richieste dalla situazione. Nel farlo, la CtEDU ha sostanzialmente fatto proprie le determinazioni della CCT, che nell’esame dei ricorsi individuali aveva già valutato eventuali violazioni del testo costituzionale e dei diritti garantiti dalla CEDU. Si tratta, in effetti, di una strategia già seguita dalla Corte quando alle prese con regimi di deroga alla Convenzione (v. A. et al. c. Regno Unito, par. 180-181). Nell’adottarla, i giudici di Strasburgo ribadiscono che alle autorità domestiche – comprendenti anche le corti nazionali – va concesso un «ampio margine d’apprezzamento»nel valutare l’esistenza di una situazione emergenziale. Le giurisdizioni nazionali sono meglio posizionate per stimare la natura e l’entità del pericolo pubblico, e la Corte europea – che di recente ha subito non poche critiche per il suo eccessivo “interventismo” (v. Popelier et al.) – appare ben lieta di rimandare alle loro determinazioni, specie quando provengono dalle corti di grado più elevato. Sebbene la CtEDU non abbia effettuato un esame puntuale delle circostanze in cui la Turchia versava all’indomani del tentato golpe, la sedizione ha generato una situazione che rientra certamente nel novero di quelle previste per l’operatività dell’art. 15 (sui criteri individuati in proposito da Corte e Commissione europei, v. Sommario 2018, pp. 31-55). Va inoltre rammentato che nessuno dei ricorrenti aveva eccepito sul punto (Alpay, par. 76; Altan, par. 92).
Passando invece a valutare se la custodia cautelare fosse misura necessaria alla luce della situazione, la Corte ricorda che – in circostanze ordinarie – il diritto alla libertà personale di un individuo può essere limitato qualora vi siano «motivi plausibili di sospettare che egli abbia commesso un reato» (art. 5.1.c, CEDU). Su tale base la Turchia giustificava la detenzione dei ricorrenti. Sulla scorta della sentenza della CCT, la CtEDU rileva tuttavia come le autorità non avessero adotto elementi di prova sufficienti a soddisfare il test poc’anzi descritto, mancando di corroborare le accuse con indizi concreti. Inoltre, il ricorso alla Corte costituzionale non era stato in grado di rimediare alla violazione subita. La detenzione era dunque arbitraria, e contraria all’art. 5. Dovendo di seguito pronunciarsi su come la deroga turca potesse incidere su tale determinazione, la CtEDU richiama nuovamente la sentenza della CCT, secondo la quale – anche in presenza di un’emergenza pubblica – il diritto alla libertà personale perderebbe ogni significato se si ammettesse il ricorso alla custodia cautelare in assenza di fondati sospetti che sia stato commesso un crimine. Pertanto, per entrambe le corti il provvedimento a carico dei giornalisti non poteva dirsi «strettamente richiesto dalla situazione» (Alpay, par. 119), e l’istanza di deroga non valeva ad assolvere la Turchia dalla propria responsabilità internazionale.
Spostando la propria analisi sul diritto alla libertà d’espressione, la CtEDU nota che anch’esso è suscettibile di limitazioni, purché queste siano previste per legge, mirate alla salvaguardia di un interesse legittimo, e «necessarie in una società democratica». La Corte osserva che la detenzione di Alpay e Altan costituisce un’interferenza con la loro libertà d’espressione, riconoscendo altresì che essa era prevista dalla legislazione emergenziale in vigore (Alpay, par. 174), e che fosse indirizzata a preservare l’ordine pubblico (Alpay, par. 176). Sulla questione della necessità, tuttavia, la CtEDU si accoda nuovamente alle determinazioni della CCT, che aveva rilevato l’assenza di proporzionalità fra la misura detentiva e l’obiettivo che lo Stato intendeva perseguire, sancendo la natura arbitraria dell’interferenza, che poteva inoltre avere un effetto negativo (chilling effect) sulla libertà di espressione e di stampa. La Corte europea richiama inoltre la propria giurisprudenza, secondo la quale non sarebbero ammesse restrizioni alla libertà d’espressione se non in casi in cui questa fosse utilizzata per incitare all’uso della violenza (Altan, par. 209). Pur conscia delle difficili circostanze in cui versa la Turchia, la CtEDU sottolinea come non si possa utilizzare l’esistenza di un’emergenza pubblica per limitare la libertà d’informazione e il dibattito politico, elementi centrali per preservare una società democratica (Alpay, par. 180). Infine, chiamata a valutare se la notifica di deroga turca potesse giustificare restrizioni più significative al diritto in questione, la Corte rimanda laconicamente a quanto concluso rispetto al diritto alla libertà personale. Pertanto, la detenzione dei due giornalisti, concepita come interferenza nella loro libertà d’espressione, non può considerarsi misura«strettamente richiesta dalla situazione», nemmeno in presenza di uno stato d’eccezione (Alpay, par. 183).
La Corte respinge invece le doglianze dei ricorrenti vertenti su un ulteriore aspetto del diritto alla liberà personale. Sempre in riferimento alla propria detenzione, i ricorrenti, avevano invocato l’art. 5.4 della CEDU, lamentando l’eccessiva durata del procedimento dinanzi alla CCT. La disposizione sancisce il diritto di ogni individuo ristretto a presentare ricorso a un tribunale che possa decidere della legittimità dell’arresto «entro breve termine». Nei casi in esame, la Corte costituzionale –a più di un anno dall’apertura dei procedimenti –non aveva ancora reso una sentenza. La CtEDU riconosce che, in situazioni ordinarie, periodi tanto lunghi non possono considerarsi conformi al dettato convenzionale. Tuttavia, le circostanze eccezionali nelle quali versava la Turchia, unite alla complessità dei casi e al numero ingente di ricorsi di cui la CCT era stata investita, la inducono a rilassare i propri standard. Nel giungere a tale conclusione, la Corte sottolinea come le misure restrittive fossero comunque sottoposte a revisione periodica mensile da parte dei tribunali nazionali. Considerate tali circostanze, essa si dice disposta a tollerare tempi di revisione più lunghi da parte della Corte costituzionale (Alpay, par. 137).
- Conclusioni
A partire dal 2015 si è registrato un aumento nei casi di ricorso allo strumento della deroga alla CEDU. Seppur per motivazioni diverse, anche l’Ucraina (giugno 2015) e la Francia (novembre 2016) hanno ritenuto di dover sospendere in parte il trattato. Il regime emergenziale è ancora in vigore in Ucraina, mentre quello francese è stato revocato nel novembre 2017. Lo stato d’emergenza turco, tuttavia, si presenta come maggiormente complesso e preoccupante, inserendosi in un contesto già caratterizzato da diffuse violazioni della libertà di associazione e di espressione, e reso ancor più grave dal conflitto con la minoranza curda riesploso nel sudest del paese (v., ad esempio, il recente rapporto rilasciato dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani). A ciò si aggiunga che, nell’aprile 2017, un referendum (indetto nel pieno del regime emergenziale e approvato a stretta maggioranza) ha dato il via alla trasformazione della forma di governo da parlamentare in presidenziale, conferendo al Presidente della Repubblica poteri assai vasti. Secondo alcuni osservatori (Öztürk e Gözaydın) e organizzazioni non-governative per i diritti umani (Amnesty International), il nuovo assetto istituzionale difetta di un sistema di controllo efficace contro eventuali abusi di potere da parte dell’esecutivo, ridimensiona drasticamente le prerogative del Parlamento e consolida il controllo del Presidente sulla nomina di numerose cariche giuridiche, creando dunque un milieunormativo che mal si concilia con pieno rispetto dei diritti umani e dello stato di diritto.
In effetti, il tentato golpe pare aver offerto al governo l’opportunità di inasprire le misure repressive contro gli oppositori sgraditi. Anche per questo motivo, è un peccato che la CtEDU non abbia esaminato le doglianze di Alpay e Altan vertenti sull’art. 18 della Convenzione, che vieta l’applicazione di restrizioni ai diritti per fini diversi da quelli espressamente previsti. I ricorrenti sostenevano che la custodia cautelare non fosse mirata a punirli per i presunti crimini commessi, ma a tacitare le critiche che avevano mosso nei confronti del Presidente Erdogan e del suo governo. Le due sentenze in analisi si limitano ad asserire che la violazione dell’art. 18 non necessita di trattazione autonoma, essendo assorbita dall’esame delle violazioni degli artt. 5 e 10. Eppure, in altri casi recenti (Tymoshenko c. Ucraina, Mammadov c. Azerbaigian, Merabishvili c. Georgia), la Corte aveva analizzato la questione, determinando che le limitazioni imposte alla libertà personale dei ricorrenti perseguivano, in realtà, finalità politiche. Peraltro, una considerazione del tema avrebbe potuto valorizzare l’intervento del Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, che nelle proprie osservazioni scritte aveva rilevato l’esistenza di un evidente schema mirante a sopprimere voci in dissenso con l’establishment, aggiungendo che le azioni giudiziarie contro individui e gruppi che esprimono tali opinioni fossero parte integrante dello schema stesso.
Nel frattempo, Şahin Alpay è stato dapprima messo agli arresti domiciliari, e poi rimesso in libertà. Meno bene è andata a Mehmet Altan, il quale il 16 febbraio 2018 è stato condannato – assieme al fratello e ad altri giornalisti – alla pena dell’ergastolo, «per aver tentato di rovesciare l’ordine costituzionale attraverso l’uso della forza». Il suo ricorso è attualmente all’esame delle corti competenti. Considerato il contegno dei tribunali ordinari, non sarebbe sorprendente se il caso finisse nuovamente all’attenzione della CCT.
Il regime emergenziale in Turchia è in vigore da ormai quasi due anni. La notifica di deroga al Segretario generale del Consiglio d’Europa è stata rinnovata per ben sei volte, l’ultima delle quali il 20 aprile 2018. Va pertanto salutata con favore l’intenzione del Presidente Erdogan di considerare la possibilità di revocare lo stato d’emergenza subito dopo le elezioni generali dello scorso 24 giugno, mossa peraltro caldeggiata sia da numerosi relatori speciali delle NU sui diritti umani, sia dall’UE. Nelle prossime settimane avremo modo di verificare se si tratta di un impegno preso in buona fede o di una mera strategia elettorale.
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