Cala il sipario della Corte europea sulle violenze al G8 (ma non sulla tortura in Italia). Brevi spunti a margine dei casi Azzolina e Blair
Giulia Borgna, LUMSA, Roma
Introduzione
Cala il sipario della Corte europea dei diritti dell’uomo sulle violenze commesse in occasione del G8 di Genova del 2001. Con due sentenze “gemelle” nei casi Azzolina et. al. e Blair et al. del 26 ottobre 2017, la Corte di Strasburgo ha nuovamente condannato l’Italia per la violazione del divieto di trattamenti inumani e degradanti di cui all’art. 3 CEDU, stavolta in relazione alle violenze perpetrate dalle forze di polizia all’interno della caserma di Bolzaneto.
Chiuso così il contenzioso europeo sulle violenze del G8, è ora possibile tracciare un bilancio complessivo della vicenda. Un bilancio non certo lusinghiero per lo Stato italiano, reduce da quattro pesantissime condanne (alle due pronunce che qui si annotano si aggiungono le sentenze Cestaro del 14 aprile 2015 e Bartesaghi Gallo et al. del 22 giugno 2017 relative ai fatti nella scuola “Diaz-Pertini”, nonché le due decisioni di radiazione dal ruolo per componimento amichevole nei casi Alfarano e Battista et al. del 14 marzo 2017), che hanno censurato il carattere drammaticamente deficitario del sistema sanzionatorio italiano (quantomeno quello dell’epoca), puntando apertamente il dito contro la colpevole inerzia del legislatore (per un commento alla sentenza Cestaro, si rinvia ad un nostro precedente post).
Su questo scenario desolante si innesta la recente novella legislativa che, colmando l’imbarazzante e prolungato vuoto normativo, ha finalmente dotato l’ordinamento penale di una nuova fattispecie incriminatrice, l’art. 613-bis c.p., tesa a sanzionare atti di tortura e trattamenti inumani e degradanti. Eppure, come si dirà, questo intervento non ci pare di per sé idoneo a mettere lo Stato italiano al riparo da nuove condanne per violazione dell’art. 3 CEDU.
L’impunità dei responsabili delle violenze e i ricorsi alla Corte europea
Le vicende oggetto delle sentenze Azzolina e Blair si inscrivono nel generalizzato contesto di disordini e violenze che hanno accompagnato il vertice del G8 tenutosi a Genova nel luglio 2001 (cfr. amplius in Giuliani e Gaggio [GC], 24 maggio 2011, parr. 12-30). A finire sotto la lente di Strasburgo è stato quanto accaduto all’interno della caserma “Nino Bixio” di Bolzaneto, teatro di brutali violenze da parte delle forze dell’ordine ai danni di centinaia di soggetti fermati in un clima che la Cassazione non avrebbe esitato a definire di «accantonamento dei principi-cardine dello Stato di diritto».
L’indagine successivamente avviata dalle autorità inquirenti era sfociata nel rinvio a giudizio di quarantacinque fra agenti e funzionari di polizia per una pluralità di reati, fra cui abuso d’ufficio, violenza privata aggravata, minacce, lesioni e calunnia. L’imponente impianto accusatorio mosso dalla Procura di Genova nei confronti dei presunti responsabili si era però progressivamente sgretolato sotto il peso della prescrizione. Sulle quarantacinque condanne pronunciate in primo grado dal Tribunale di Genova si era, infatti, abbattuta la scure della prescrizione durante i processi di appello e di legittimità, sostanzialmente azzerando il novero delle condanne e permettendo così alla maggior parte degli autori materiali delle violenze di scampare ogni forma di responsabilità in sede tanto penale quanto disciplinare.
Per questo motivo, i ricorrenti si erano rivolti alla Corte di Strasburgo, censurando la violazione dell’art. 3 CEDU sotto il duplice profilo sostanziale (per essere stati sottoposti ad atti di tortura) e procedurale (per la sostanziale impunità dei responsabili delle violenze).
La caserma di Bolzaneto come “lieu de non-droit”
La prima questione su cui la Corte è stata chiamata a confrontarsi era se le violenze fisiche e psichiche perpetrate dalle forze dell’ordine nella caserma di Bolzaneto potessero innescare la responsabilità dello Stato italiano ai sensi dell’art. 3 CEDU. La condanna dell’Italia era fin troppo scontata, trattandosi per certi versi di un itinerario accertativo “a rime obbligate”. Come nel caso Cestaro, infatti, il copione era già stato scritto dalle giurisdizioni interne occupatesi a vario titolo della vicenda ed i giudici europei non hanno dovuto far altro che trasfonderne i passaggi più significativi nella propria motivazione. Facendo proprio il percorso argomentativo delle pronunce interne, la Corte di Strasburgo ha ritenuto che i maltrattamenti lamentati dai ricorrenti fossero provati «al di là di ogni ragionevole dubbio» (Azzolina, par. 127; Blair, par. 96). Secondo la Corte, «i ricorrenti, trattati come oggetti nelle mani dell’autorità pubblica, hanno vissuto durante la loro detenzione in un luogo di ‘non-diritto’ ove le più elementari garanzie sono state sospese» (ivi, par. 134). In un siffatto contesto non poteva dunque ragionevolmente accedersi al tentativo del Governo italiano di minimizzare l’accaduto – bollato come «episodio isolato ed eccezionale» (ivi, par. 125) – e di “relativizzarlo” nel più generale contesto di tensione che aveva segnato lo svolgimento del G8. È indubbio che gli eventi del G8 siano stati accompagnati da disordini e tensioni di natura eccezionale, ma questo argomento – comunque svilente – non poteva in alcun modo fungere da scusante per la gravissima condotta delle forze dell’ordine, stante anche il carattere assoluto e inderogabile del divieto di cui all’art. 3 CEDU. Tra l’altro, non è forse una coincidenza che, proprio lo stesso giorno delle sentenze Azzolina e Blair, la Corte di Strasburgo abbia reso un’altra condanna all’indirizzo dello Stato italiano per atti di tortura all’interno del carcere di Asti (Cirino e Renna c. Italia, 26 ottobre 2017). Quasi a rimarcare il fatto che in Italia si tortura, eccome, e che il fenomeno è tutt’altro che episodico o isolato.
Visto l’esito largamente prevedibile del giudizio viene da domandarsi per quale ragione il nostro Governo non abbia adottato una diversa strategia difensiva – l’unica, per la verità – che gli avrebbe forse consentito di evitare questa ennesima condanna. Con ogni probabilità, infatti, il Governo avrebbe potuto chiudere la partita a Strasburgo in modo relativamente indolore facendo ricorso allo strumento della dichiarazione unilaterale. Ai sensi dell’art. 62(A) del Regolamento della Corte, uno Stato convenuto – falliti i tentativi di componimento amichevole della controversia – può chiedere la radiazione dal ruolo del ricorso, previo riconoscimento della violazione dedotta in giudizio e impegno a porre in essere condotte riparatorie.
Come emerge dal testo delle pronunce Azzolina e Blair, numerose posizioni individuali sono state radiate dal ruolo a seguito di componimento amichevole della controversia. L’accordo con cui lo Stato italiano si è impegnato a corrispondere € 45.000 a titolo di risarcimento del danno è stato ritenuto «conforme al rispetto dei diritti dell’uomo». Da qui la decisione di radiare dal ruolo le posizioni interessate dal componimento, non avendo la Corte ravvisato «alcun motivo atto a giustificare la prosecuzione dell’esame» del ricorso (Azzolina, par. 88; Blair, par. 86; analogo epilogo avevano avuto anche i casi Alfarano, Battista et. al. e Bartesaghi Gallo et al.). Il giudizio era invece proseguito per tutti coloro che non avevano ritenuto di aderire alla proposta transattiva del Governo.
Ciò premesso, appare legittimo domandarsi per quale ragione il Governo non abbia fatto ricorso allo strumento della dichiarazione unilaterale. Considerando che l’accoglimento di una tale dichiarazione è soggetto allo stesso metro di giudizio del componimento amichevole (“il rispetto dei diritti umani”), è presumibile ipotizzare che la Corte di Strasburgo avrebbe disposto la radiazione dal ruolo delle residue posizioni individuali (come d’altronde già avvenuto nei casi Alfarano e Battista, concernenti le stesse violenze a Bolzaneto). Né si può ragionevolmente pensare che permanessero, dalla prospettiva del nostro Governo, margini di incertezza o aleatorietà circa l’esito del giudizio tali da giustificarne la prosecuzione.
L’inadeguatezza della risposta punitiva dello Stato
Acclarata la sussistenza di maltrattamenti contrari all’art. 3 CEDU, la Corte di Strasburgo è passata a vagliare la compatibilità della (deludente) risposta sanzionatoria italiana con gli obblighi procedurali discendenti dalla medesima disposizione. L’assenza di una norma incriminatrice ad hoc aveva costretto le autorità inquirenti ad articolare l’impianto accusatorio intorno a fattispecie espressive di una microcriminalità comune, assistite da cornici edittali irrisorie, incongrue e distoniche rispetto all’oggettiva gravità dei fatti. Date le premesse, non sorprende che gli esecutori materiali delle violenze fossero usciti sostanzialmente indenni dall’intera vicenda. Complici l’intervenuta prescrizione e il muro di omertà frapposto dalle forze dell’ordine all’identificazione dei colpevoli, vi erano state poche condanne e a pene comunque miti, peraltro condizionalmente sospese o condonate per effetto dell’indulto. A conti fatti, l’inadeguatezza degli strumenti repressivi aveva determinato un depotenziamento (se non un vero e proprio annacquamento) della risposta punitiva dello Stato italiano, a nulla rilevando che le giurisdizioni interne avessero accertato, “al di là di ogni ragionevole dubbio”, violenze sistematiche e prolungate di inaudita brutalità.
A quest’ultimo riguardo, il Governo italiano non soltanto non ha contestato la ricostruzione fattuale operata dai giudici interni, ma ne ha integralmente sottoscritto le conclusioni «en gage de complète reconnaissance (…) des violations des droits perpétrées» (Azzolina, par. 124). La posizione apparentemente remissiva e conciliativa del nostro Governo non deve però trarre in inganno. Non si trattava affatto di una resa incondizionata davanti alle pretese avanzate dai ricorrenti. Tutto il contrario, essa era funzionale ad una ben precisa strategia difensiva, tesa a fare leva proprio sull’accertamento sostanziale di colpevolezza contenuto nelle pronunce interne per eccepire la perdita della qualità di vittima ai sensi dell’art. 34 CEDU. Segnatamente, secondo il Governo, la qualità di vittima dei ricorrenti doveva ritenersi medio tempore venuta meno per effetto dell’espresso riconoscimento delle violenze ad opera delle giurisdizioni interne e della conseguente liquidazione in loro favore di una provvisionale a titolo risarcitorio (Azzolina, par. 93; Blair, par. 94). Due condizioni, queste, già ritenute astrattamente idonee a neutralizzare gli effetti pregiudizievoli della violazione dell’art. 3 CEDU e, sul versante processuale, a far venire meno la qualità di vittima (cfr., fra gli altri, Gäfgen c. Germania [GC], 1 giugno 2010, parr. 115-116; Shestopalov c. Russia, 28 marzo 2017, parr. 55-58).
Nel caso di specie, però, la Corte ha ritenuto che i pur «remarquables efforts» profusi dalle giurisdizioni interne nell’accertamento della verità non fossero sufficienti a controbilanciare la palese inidoneità degli strumenti repressivi approntati dall’ordinamento interno. La complessiva débâcle giudiziaria aveva, infatti, disvelato il carattere apertamente deficitario di un sistema penale – quello italiano – in cui la brevità dei termini di prescrizione e l’anomala operatività di istituti premiali avevano sostanzialmente vanificato la punizione dei responsabili. Le «défaillances structurelles» dell’ordinamento italiano hanno fatto sì che «in concreto, nessuno [abbia] trascorso nemmeno un giorno in carcere per i trattamenti inflitti ai ricorrenti» (Azzolina, par. 153). In aggiunta, gli imputati non erano stati sospesi dal servizio in pendenza di processo, né avevano altrimenti riportato sanzioni disciplinari. Il che si pone in contrasto con il costante insegnamento della Corte secondo cui, «ogniqualvolta agenti statali sono accusati di maltrattamenti, è essenziale che essi siano sospesi dal servizio in pendenza di indagine o processo e che siano destituiti in caso di condanna» (Azzolina, par. 164 e, in termini analoghi, anche Gäfgen, par. 125).
L’assenza di una risposta punitiva adeguata ha dunque vanificato, ai fini della sussistenza della qualità di vittima ai sensi dell’art. 34 CEDU, l’esplicito riconoscimento della violazione da parte delle autorità statali e la liquidazione di importi a titolo risarcitorio. Per le stesse ragioni, la Corte ha rigettato l’eccezione di mancato previo esaurimento dei rimedi interni ai sensi dell’art. 35 § 1 CEDU per non avere i ricorrenti instaurato contenziosi di risarcimento del danno in sede civile. Secondo la Corte, la reazione di uno Stato dinanzi a maltrattamenti non può limitarsi al mero ristoro economico, dovendo necessariamente ricomprendere la punizione dei responsabili (sul punto, si veda anche Gäfgen, par. 199 e, più di recente, Jeronovičs c. Lettonia [GC], 5 luglio 2016, parr. 107 e 122).
Il nuovo art. 613-bis c.p.: la tortura come problema del passato?
«L’origine del problema» – secondo la Corte europea – «risiede nel fatto che nessuna delle fattispecie incriminatrici esistenti è stata idonea ad intercettare lo spettro di questioni sollevate da un atto di tortura» (Azzolina, par. 159). Il vuoto ordinamentale era già stato censurato dalla Corte nel caso Cestaro. In tale occasione, nel tentativo di risvegliare un legislatore pervicacemente inattivo sul fronte dell’adeguamento agli obblighi internazionali di criminalizzazione della tortura, la Corte aveva indicato allo Stato italiano l’adozione di misure generali ai sensi dell’art. 46 CEDU (Cestaro, par. 246; per un approfondimento, si rinvia al nostro precedente post).
Ora, è noto che, secondo il costante insegnamento di Strasburgo, l’obbligo di criminalizzazione non deve necessariamente tradursi nell’introduzione di un reato autonomo di tortura, ben potendo i relativi maltrattamenti ricadere, altrettanto efficacemente, nell’ombrello punitivo offerto da altre previsioni normative (Azzolina, parr. 160-161). Eppure, il caso Cestaro ci era sembrato sin da subito correre lungo binari parzialmente inediti. L’ampia discrezionalità tradizionalmente riconosciuta agli Stati in fase di esecuzione era parsa fortemente compressa dalle specifiche esigenze di riforma segnalate dalla Corte europea. E ciò in quanto le criticità evidenziate nella sentenza Cestaro erano talmente profonde e strutturali da non poter essere sanate attraverso un semplice intervento riparatore. Insomma, tutti gli indizi sembravano puntare verso una soluzione “obbligata”: l’introduzione di una norma incriminatrice ad hoc (un simile monito si rinviene anche in Myumyun c. Bulgaria, 3 novembre 2015, par. 77).
E così è stato. Con l. n. 110 del 14 luglio 2017, il legislatore ha finalmente dotato l’ordinamento italiano di un autonomo reato di tortura enucleato nell’art. 613-bis c.p. Il nuovo delitto di tortura è già stato scomposto e vagliato dalla dottrina penalistica (si rinvia, fra gli altri, a P. Lobba, “Punire la tortura in Italia. Spunti ricostruttivi a cavallo tra diritti umani e diritto penale internazionale”, in Diritto penale contemporaneo 2017, p. 220 ss., e I. Marchi, “Il delitto di tortura: prime riflessioni a margine del nuovo art. 613-bis c.p.”, in Diritto penale contemporaneo 2017, p. 155 ss.).
Nei casi Azzolina, Blair e Cirino e Renna, la Corte europea ha preso atto della novella legislativa, ma non si è espressa sulla sua compatibilità con l’art. 3 CEDU, stante l’inapplicabilità ratione temporis alla vicenda in esame. Eppure, non pare prematuro interrogarsi sull’idoneità della novella a disinnescare future possibili violazioni dell’art. 3 CEDU. La risposta a questo interrogativo è tutt’altro che scontata (si vedano, sul punto, le perplessità sollevate dal CPT nel rapporto sull’Italia dell’8 settembre 2017). Quello che pare essere sfuggito al legislatore italiano è che l’adozione di una norma incriminatrice ad hoc con una dosimetria sanzionatoria adeguata, qual è quella prevista dall’art. 613-bis c.p., non è di per sé sufficiente ad assolvere gli obblighi di tutela penale. Invero, le carenze rilevate dalla Corte europea non sono affatto limitate al solo profilo del trattamento sanzionatorio. Già nel caso Saba c. Italia del 1 luglio 2014, infatti, la Corte aveva individuato il principale “colpevole” della frequente impunità dei responsabili di tortura in Italia nella brevità dei termini prescrizionali.
E che sia proprio l’istituto della prescrizione a fungere da decisivo ago della bilancia si coglie anche da una diversa prospettiva. Se l’assunto di fondo della vicenda che ci occupa è che l’ordinamento italiano non offriva rimedi “adeguati” ed “effettivi” per censurare gli atti di tortura, a rigor di logica, la Corte avrebbe dovuto dichiarare tardivo il ricorso Azzolina, giacché introdotto ad oltre otto anni di distanza dai fatti (secondo il consolidato orientamento della Corte, qualora non vi siano rimedi interni da esperire, occorre introdurre il ricorso entro sei mesi dalla data dei maltrattamenti; sul punto si vedano, per tutti, Devrim Turan c. Turchia, 2 marzo 2006, par. 32, e Aden Ahmed c. Malta, 23 luglio 2013, par. 69).
La Corte ha però rigettato l’eccezione di tardività sollevata dal Governo italiano, ritenendo sostanzialmente legittimo che i ricorrenti attendessero l’esito del procedimento penale. Secondo la Corte, infatti, «l’applicazione della prescrizione e dell’indulto sono due elementi che incidono sulla valutazione dell’esaurimento dei rimedi interni» (Azzolina, par. 107). Come a dire, se tali istituti non avessero trovato applicazione nel caso di specie, la conclusione della Corte sul punto avrebbe potuto essere diversa.
Ebbene, nonostante la centralità dell’istituto della prescrizione, la recente novella legislativa non è minimamente intervenuta sul punto. Anzi, dal disegno di legge approvato alla Camera nel 2015 è stata espunta la previsione dell’inserimento del delitto di tortura fra quelli per cui è previsto il raddoppio dei termini di prescrizione ai sensi dell’art. 157, u.c., c.p. Una simile previsione sarebbe stata coerente con la ratio del nuovo delitto di tortura e avrebbe assicurato un giusto contemperamento fra le diverse istanze di giustizia e di delimitazione temporale della pretesa punitiva dello Stato, evitando le note derive disfunzionali e patologiche della prescrizione nella realtà della giustizia penale.
Purtroppo, l’impazienza (si fa per dire) del Parlamento di conformarsi al monito di Strasburgo ha lasciato un evidente nervo scoperto che rischia di esporre l’Italia ad ulteriori censure in sede europea (come segnalato anche dal Commissario per i diritti umani del CoE nella sua lettera aperta al Parlamento italiano del 16 giugno 2017).
Conclusioni
Il quadro tratteggiato dalla Corte di Strasburgo è sinceramente sconfortante sia per l’ampiezza del fenomeno criminoso (come emerge dalla coeva pronuncia nel caso Cirino e Renna e dalla precedente Pennino c. Italia del 12 ottobre 2017), sia per l’incapacità dello Stato di porre un freno alle violazioni del dettato convenzionale.
L’introduzione dell’art. 613-bis c.p. deve indubbiamente salutarsi con favore, pur nella consapevolezza che la novella legislativa non sarà da sola sufficiente a fungere da antidoto contro episodi di tortura in Italia. Le criticità del sistema penale italiano non sono, infatti, circoscritte al solo profilo della cornice edittale degli strumenti penalistici, ma investono, fra gli altri, il regime della prescrizione, l’accesso ai benefici premiali, le sanzioni disciplinari e la previsione di specifiche garanzie atte a consentire l’identificazione degli agenti delle forze dell’ordine responsabili di maltrattamenti.
Benché trascurati dal legislatore, questi profili sono già stati ritenuti essenziali dal Comitato dei Ministri in sede di controllo sull’esecuzione della sentenza Cestaro (si vedano sul punto i rilievi del Comitato dei Ministri alla 1280esima riunione del 7-10 marzo 2017).
A nostro avviso, l’obiettivo della piena conformazione dello Stato italiano agli obblighi internazionali è ancora lontano e richiede una riflessione a più ampio spettro, che trascende il piano prettamente normativo, giacché è noto come «il piú sicuro ma piú difficil mezzo di prevenire i delitti si è di perfezionare l’educazione» (Cesare Beccaria).
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