La “minaccia” nordcoreana e la risposta del Consiglio di sicurezza: impotenza o inefficacia?
Leonardo Borlini, Università Commerciale “L. Bocconi” di Milano
Ancora una volta la Corea del Nord provoca la comunità internazionale il giorno della festa dell’indipendenza degli Stati Uniti: mentre il 4 luglio del 2006 il regime di Pyongyang effettuava il primo di cinque test nucleari condotti nell’arco di un solo decennio, esattamente undici anni più tardi ad allarmare gli Stati è l’undicesimo lancio missilistico del 2017. Tra questi, in primis, i vicini Giappone e Corea del Sud oltre agli Stati Uniti, che, pur nelle diversità di orientamento politico e di metodo delle diverse amministrazioni che si sono succedute dal 2003 (anno di esercizio del diritto di recesso dal Trattato di non proliferazione nucleare da parte della Corea del Nord), hanno promosso e coordinato la maggior parte maggioranza delle iniziative internazionali tese a contenere i programmi di sviluppo nucleare e militare nordcoreani.
Il lancio missilistico dello scorso 4 luglio ha alzato percettibilmente il già elevato livello di allarme: dopo aver volato per circa 930 km, il missile sarebbe caduto, pur senza provocare danni, nella zona economica esclusiva del Giappone. Inoltre, secondo la versione di Pyongyang e le successive dichiarazioni del Pentagono, l’ultimo testato sarebbe un missile intercontinentale Hwasong-14, il più potente tra i missili balistici dell’arsenale nordcoreano, capace di una gittata tale da raggiungere le coste dell’Alaska, le Hawaii e, secondo alcune valutazioni, la città di Seattle. Trattasi dell’ultima di una numerosa serie di esercitazioni militari condotte tra l’inizio del 2016 e i primi sette mesi del 2017 – la detonazione di due bombe nucleari nel sottosuolo nordcoreano il 6 gennaio e il 9 settembre 2016; il lancio in orbita del satellite Kwangmyŏngsŏng-4 il 7 febbraio 2016; il lancio di cinque missili balistici nel 2016 e undici nel 2017 – che, complessivamente considerate, confermano un significativo avanzamento nella tecnologia dei sistemi di delivery delle armi nucleari. Si ricorda, infatti, che i missili balistici costituiscono vettori per portare le ogive atomiche e i satelliti (il cui lancio, peraltro, può avvenire solo attraverso il ricorso alla tecnologia balistica): un elemento essenziale per aumentare la precisione dei sistemi di delivery delle stesse. Lo scorso 12 febbraio, inoltre, la Corea del Nord ha testato missili a propellente solido che, rispetto ai modelli a propellente liquido, richiedono un lasso di tempo assai inferiore per la preparazione del lancio e il supporto di una minore quantità di veicoli, ciò che riduce, evidentemente, il margine per la loro intercettazione e distruzione preventiva da parte dei possibili Paesi bersaglio. Infine, se, come pare verificato, i missili lanciati il 4 luglio sono intercontinentali, anche i residui dubbi sulla disponibilità da parte del regime nordcoreano di vettori a lunga gittata per trasportare testate atomiche fino alle coste statunitensi verranno meno.
La valutazione delle attività militari nordcoreane (test nucleari, lancio di missili balistici e sfruttamento dello spazio) rispetto ai diversi regimi giuridici interessati è già stata oggetto di attenti commenti. Al di là della loro dibattuta liceità originaria, esse non potevano ovviamente sottrarsi allo scrutinio del Consiglio di sicurezza ex art. 39 della Carta delle Nazioni Unite. Come già osservò Kelsen (p. 294) all’indomani della sua entrata in vigore, infatti, «[t]he purpose of the enforcement action under Article 39 is not to maintain or restore the law, but to maintain, or restore peace, which is not necessarily identical with the law». Qualificando sin dal 2006 le diverse attività sopra riferite come «minaccia alla pace internazionale e alla sicurezza» il Consiglio ha, pertanto, disposto nei confronti della Corea del Nord, in forza del successivo art. 41 della Carta, quello che, con l’adozione delle Risoluzioni n. 2270 e 2321 del 2016, è stato definito dal precedente Segretario generale Ban Ki-moon e da alcuni commentatori (Bastid Burdeau, 508) come il regime sanzionatorio più duro mai adottato nei confronti di uno Stato dai tempi della prima guerra in Iraq. Nondimeno, le ripetute esercitazioni militari condotte dalla Corea del Nord in violazione dell’art. 25 della Carta, dopo l’adozione della Risoluzione 2321, sembrerebbero confermare la diagnosi di coloro che, esclusa la possibilità di adottare misure implicanti l’uso della forza ex art. 42 della Carta per il più che prevedibile veto cinese e russo, ritengono che il Consiglio di sicurezza sia sostanzialmente impotente nei confronti del programma di sviluppo militare e delle ambizioni nucleari nordcoreane (Blix, 153-4; Sidhu, 332-6).
“Impotenza”, tuttavia, è termine che non necessariamente denota una condizione irreversibile. Ciò che pare incontrovertibile è che le sanzioni multilaterali (e unilaterali) adottate contro la Corea del Nord sono state ad oggi inefficaci. Interrogarsi attentamente sulle ragioni di tale inefficacia e, conseguentemente, su possibili azioni correttive è esercizio tutt’altro che sterile. Ciò, anzitutto, a ragione della natura e della gravità della “minaccia nordcoreana” e della circostanza, ribadita più volte dal Consiglio, che ogni progresso nel programma nucleare di Pyongyang costituisce un nuovo ostacolo per gli sforzi internazionali volti al rafforzamento del regime di non proliferazione nucleare. Inoltre, i notevoli problemi insiti nelle possibili “leve” alternative (già tentate o, ancora, “sulla carta”) suggeriscono cautela prima di considerare come definitivamente esaurita la funzione delle sanzioni. Le alternative “pacifiche” – costituite da iniziative diplomatiche condotte sia sotto l’egida dell’ONU che a latere di esso (come i c.d. Six Party Talks) e da misure “positive” per indurre la Corea del Nord ad abbandonare il proprio programma nucleare (così, ad esempio, l’assistenza fornita da Stati Uniti, Corea del Sud e Giappone attraverso la Korean Peninsula Energy Development Organization (KEDO) per la costruzione di due reattori nucleari ad acqua leggera) – si sono rivelate spuntate. Anzi, alla luce dell’importanza strategica che il programma nucleare riveste per Pyongyang, ai cui occhi esso garantisce verosimilmente maggiore sicurezza di ogni possibile impegno o concessione offerta dal Consiglio di sicurezza o da altri Stati (Blix, 154), non stupisce che la Corea del Nord abbia sovente sfruttato le suddette aperture per ottenere concessioni, principalmente di natura economica, a fronte di temporanee o apparenti interruzioni dello stesso, salvo poi rilanciarlo repentinamente, una volta esaurito il vantaggio strategico della collaborazione (Sidhu, 335). È poi appena il caso di sottolineare che l’impasse del meccanismo coercitivo multilaterale potrebbe portare a sostenere l’opportunità di azioni unilaterali implicanti l’uso della forza per neutralizzare l’armamento nucleare nordcoreano. Tuttavia, un’operazione del tipo di Osirak nel 1981 o del bombardamento israeliano sul sito siriano di Deir Ez Zor del settembre 2007 sarebbe difficilmente giustificabile come forma legittima di difesa anche qualora si volesse accogliere la lettura, recentemente affacciatasi proprio in considerazione della “minaccia nordcoreana”, che «the law on anticipatory self-defence is potentially in flux» (Hakimi): pur se innegabilmente inquietante, l’avanzamento del programma militare della Corea del Nord costituisce ancora una minaccia latente ed eventuali attacchi nordcoreani sembrano, ad oggi, solo ipotetici. Sotto questo profilo, ancor più decisiva è, forse, una considerazione di ordine pragmatico: rispetto agli attacchi all’Iraq nel 1981 e alla Siria nel 2007 – comunque condannati come illegittimi (Ronzitti, 112-113) – la Corea del nord già possiede un arsenale di armi nucleari, la cui esatta collocazione geografica, pare, peraltro, incerta. Un attacco volto a neutralizzare tale arsenale, per quanto rapido ed efficace, difficilmente annullerebbe le chance di reazioni di Pyongyang e l’eventuale conseguente lancio di testate nucleari o utilizzo di armi chimiche – anch’esse sospettate di essere nella disponibilità nordcoreana – comporterebbe rischi gravissimi per milioni di vite umane.
Rimangono, quindi, le sanzioni disposte in forza dell’art. 41 della Carta. Quali le principali criticità?
L’apparato sanzionatorio disposto dal Consiglio di sicurezza nei confronti della Corea del Nord è assai articolato; già ab origine combinava sanzioni mirate volte a colpire l’establishment nordcoreano (da, ultimo, aggiornate con la Risoluzione 2356 del 2017) e sanzioni economiche generali nella forma di un embargo su armi e materiale militare progressivamente più esteso, affiancato dal divieto di esportare in Corea del Nord beni di lusso (misura quest’ultima che rappresenterebbe uno schiaffo simbolico all’oligarchia nordcoreana (Fasulo, 69-70)). Con le citate Risoluzioni 2270 e 2321 si è assistito a un considerevole “salto di qualità” nelle sanzioni economiche. Ne risulta un quadro di sanzioni volto a isolare la Corea del Nord dai circuiti bancari e finanziari mondiali; pregiudicarne, salvo limitatissime eccezioni, le relazioni diplomatiche; ridurne grandemente le possibilità commerciali, incidendo in particolare sui suoi settori produttivi principali, limitando le possibilità di trasporto di beni per mare e per via area e vietando ogni forma di trade assistance alle imprese che decidano comunque di intrattenere rapporti commerciali con la Corea del Nord.
Eppure, come anche il test missilistico del 4 luglio sembra dimostrare, Pyongyang non sembra retrocedere rispetto alle proprie ambizioni militari. La stampa economica, seppur con qualche imprecisione, ha recentemente messo in dubbio la capacità delle sanzioni disposte dal Consiglio di sicurezza di incidere in modo significativo sull’economia nordcoreana. Ciò stimola ad indagare in modo più approfondito i problemi del regime sanzionatorio in oggetto. A tal fine conviene distinguere tre piani concettuali: le circostanze che “circondano” l’adozione delle misure da parte del Consiglio, la loro formulazione e l’esistenza di meccanismi di suivi e di misure capaci, eventualmente, di incidere sull’elusione delle sanzioni.
Riguardo al primo punto, si deve sottolineare che le Risoluzioni n. 2270 e 2321 esplicitano l’intenzione di promuovere il regime di non-proliferazione nucleare nei confronti di un Paese, il cui establishment politico, come accennato, ritiene che lo sviluppo del programma nucleare costituisca la migliore garanzia per la propria sussistenza. Si comprende bene che per incidere su un tale programma, allora, non bastano sanzioni sulla carta capaci di paralizzare economicamente il Paese. È altrettanto importante, per la concreta attuazione delle stesse, che vi sia assoluta unanimità di intenti e azione da parte almeno degli Stati più influenti. Tuttavia, sebbene entrambe le risoluzioni siano state adottate all’unanimità, le dichiarazioni rilasciate dall’ambasciatore cinese in occasione dell’adozione della Risoluzione 2321, per cui le sanzioni non sarebbero intese a «affecting the normal economic and trade activities» con la Corea del Nord sollevano serie perplessità, essendo proprio l’isolamento economico e commerciale di Pyongyang l’obiettivo principale delle sanzioni più incisive. Come si avrà mododi osservare a breve, peraltro, l’ambiguità che trasuda dalla citata dichiarazione non ha mancato di riflettersi in fase di attuazione delle sanzioni.
Sulla formulazione, si nota che la maggior parte delle scappatoie che caratterizzavano le misure disposte dalla Risoluzione 2270, lasciando margini discrezionali agli Stati membri in sede di attuazione, sono stati corretti con la Risoluzione 2321. In questo senso, soprattutto, è stata corretta la sanzione economica principale, ossia il divieto per i Paesi membri dell’ONU di importare carbone dalla Corea del Nord, di gran lunga la sua principale commodity. Occorre notare, difatti, che la Risoluzione 2270 vietava l’importazione di carbone tranne che ciò avvenisse «exclusively for livelihood purposes», senza però circostanziare ulteriormente tali propositi, né precisare della sussistenza di chi dovesse trattarsi. La Cina – in assoluto, il principale importatore di carbone nordcoreano – ebbe, dunque, buon gioco, nel sostenere che l’uso finale del carbone (i.e. la generazione di energia) esentasse le sue importazioni dal divieto. Solo dopo il test nucleare del settembre 2016, con l’adozione della Risoluzione 2321, il meccanismo di esenzione appena illustrato è stato sostituito dall’introduzione di soglie di valore e volume entro le quali ancora tollerare le importazioni effettuate «exclusively for livelihood purposes», purché l’operazione commerciale non coinvolga individui e enti inseriti nelle liste ai fini delle sanzioni mirate. Contestualmente, gli Stati membri sono obbligati a comunicare mensilmente al Comitato delle Sanzioni sulla Corea del Nord il quantitativo raggiunto e terminare immediatamente le importazioni al raggiungimento della percentuale del 95% delle soglie tollerate.
Non è la prima volta che la comunità internazionale si è risolta a bloccare il commercio del primario bene di esportazione di un Paese per indurlo a desistere dallo sviluppo di armi di distruzione di massa. La Risoluzione 2321 ricorda, infatti, con alcune importanti differenze, le misure unilaterali di blocco sul petrolio iraniano che accompagnarono le sanzioni disposte dal Consiglio di sicurezza. Tuttavia, mentre l’Iran poteva contare solamente su una decina di grandi acquirenti direttamente controllati dai rispettivi Stati, il successo della misura contro la Corea del Nord dipende quasi esclusivamente dalla volontà politica di Pechino e dalla sua capacità amministrativa di assicurare che numerosissime imprese di piccole e medie dimensioni situate nelle province di Liaoning e Jilin, per la cui attività il carbone nordcoreano è materia prima essenziale, smettano di importarlo. In effetti, dopo i lanci missilistici dello scorso febbraio, il ministro del commercio cinese, in una dichiarazione ufficiale rilasciata congiuntamente con l’agenzia delle dogane, annunciò che la Cina avrebbe immediatamente smesso di importare carbone dalla Corea del Nord. Tuttavia, ancora il mese scorso la stampa riportava di navi cargo nordcoreane cariche di carbone presso diversi porti cinesi. Sempre con riguardo al “disegno” delle sanzioni, non sono ben chiare le ragioni che hanno “salvato” grafite e magnesite dai minerali oggetto di divieto d’importazione dalla Corea del Nord, trattandosi comunque di minerali di cui essa è ricca e la cui vendita avviene principalmente nei mercati esteri.
Infine, i meccanismi di suivi disposti dalle risoluzioni del Consiglio di sicurezza rivelano che: «[the DPRK] is flouting sanctions through trade in prohibited goods, with evasion techniques that are increasing in scale, scope and sophistication […] Designated entities and banks have continued to operate in the sanctioned environment by using agents who are highly experienced and well trained in moving money, people and goods, including arms and related materiel, across borders […] Diplomats, missions and trade representatives of [the DPRK] systematically play key roles in prohibited sales, procurement, finance and logistics», (United Nations Security Council, 4). Nel palesare l’esistenza di un fitto sottobosco di intermediari, consulenti e strutture societarie create ad hoc offshore, utilizzati, inter alia, da soggetti collegati al regime nordcoreano per eludere sanzioni multilaterali e unilaterali, anche i c.d. Panama Papers forniscono importanti elementi per la presente analisi. Leggendo questi dati alla luce della recente notizia che gli Stati Uniti hanno sanzionato unilateralmente un gruppo di questi c.d. foreign enablers (in casu, individui e banche cinesi) per aver agevolato l’evasione delle sanzioni alla Corea del Nord, è agevole comprendere che anche il problema dell’attuazione delle sanzioni multilaterali ormai si interseca con il tema, già evocato in dottrina e da autorevoli esperti, della promozione di forme più incisive e stringenti di regolamentazione internazionale dei requisiti di trasparenza e dell’attività di tutti quei soggetti giuridici, che, muovendosi nelle pieghe dei diversi ordinamenti e beneficando dei limiti dei rispettivi ordinamenti domestici, proliferano nell’opacità, permettendo e agevolando la commissione di illeciti di varia natura perpetrazione di numerose tipologie di condotte illecite.
In conclusione, è difficile dire se lo strumento delle sanzioni può, da solo, indurre la Corea del Nord a rinunciare al proprio programma di sviluppo militare. Rimane che, al momento, questa sembra l’unica strada percorribile. Dall’analisi che precede appare però evidente che l’attuale regime di sanzioni, per quanto innegabilmente ampio e duro, è indebolito da talune importanti criticità che devono essere corrette. Anzitutto, se la via eletta è quella della leva economica, non dovrebbe essere più tollerata alcuna ambiguità, soprattutto da parte degli Stati più influenti; su di essi dovrebbe, quindi, esercitarsi forte pressione diplomatica per assicurarsi che superino quei problemi di compartimentalizzazione amministrativa (ad esempio, in Cina, tra autorità centrali, provinciali e locali) che è di ostacolo all’efficacia delle sanzioni economiche potenzialmente più incisive. Altre correzioni dovrebbero andare nel senso di includere misure di embargo selettivo sui rimanenti prodotti nordcoreani capaci di generare ricchezza attraverso il commercio internazionale. Infine, la comprovata capacità di elusione delle sanzioni da parte della Corea del Nord richiede di essere affrontata in modo sistematico. Anzitutto, attraverso un utilizzo più metodico delle sanzioni secondarie sui soggetti che facilitano l’elusione. In un orizzonte temporale più ampio – ed, evidentemente, non solo ai fini di una maggiore efficacia delle sanzioni contro Pyongyang – è altresì opportuno che siano poste in essere, anche attraverso l’attività delle organizzazioni internazionali con mandato specifico, forme di regolamentazione volte, soprattutto, a rendere maggiormente trasparenti le attività di tanti soggetti che proliferano grazie all’opacità dei regimi finanziari, bancari e fiscali di alcuni ordinamenti giuridici nazionali.
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