diritto dell'Unione europea

Il Consiglio europeo in tempo di crisi: dall’involuzione istituzionale all’unità nella frammentazione

Carlo Tovo, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna

1. Introduzione

Il 29 aprile il Consiglio europeo si è riunito per la prima volta ufficialmente nel formato “EU27”, per formulare gli orientamenti che stabiliscono i “principi e le posizioni generali” dell’Unione nei negoziati per il recesso del Regno Unito. Poche settimane prima, gli stessi ventisette Capi di Stato o di governo avevano celebrato i sessant’anni dalla firma dei Trattati istitutivi di CEE e CECA adottando, insieme ai Presidenti del Consiglio europeo, della Commissione e del Parlamento europeo, la c.d. dichiarazione di Roma. Tra i due eventi si snoda, idealmente, la storia recente del Consiglio europeo, dalla progressiva involuzione istituzionale in risposta alla “policrisi” dell’UE alla ritrovata unità nella frammentazione.

Insieme alla BCE, il Consiglio europeo è la più giovane istituzione dell’Unione, nata come tale solo con il Trattato di Lisbona. I primi anni dello sviluppo del Consiglio europeo hanno coinciso con quelli della crisi economico-finanziaria dell’UE e sono stati caratterizzati da un assoluto protagonismo politico e da un grande attivismo giuridico. Il progressivo miglioramento delle condizioni macro-economiche e l’insediamento della nuova Commissione sembravano destinate a relegare il Consiglio europeo ai margini della scena istituzionale europea. Le ragioni di tale perdita di centralità avevano radici giuridiche e politiche. Tra le prime si pensi, ad esempio, al rafforzamento del «partenariato speciale» tra Commissione e Parlamento europeo (e tra i rispettivi Presidenti); alla progressiva giurisdizionalizzazione dei conflitti interistituzionali (si v., ad esempio, le cause in tema di distinzione tra atti delegati e di esecuzione, di potere di ritiro della proposta, di azione esterna della Commissione in rappresentanza dell’UE) e all’adozione del nuovo accordo interistituzionale «Legiferare meglio». Ad esse si sommano altri fattori esogeni alle dinamiche giuridiche interistituzionali, quali l’annunciata (ri)politicizzazione della Commissione europea ad opera del nuovo Presidente Juncker; l’allargamento del tandem franco-tedesco ad altri attori (in particolare l’Italia, prima sola e poi insieme ai Paesi fondatori dell’UE, e da ultimo la Spagna) e il consolidamento di nuove alleanze tra Stati dell’UE (su tutte, il Gruppo di Visegrad) o, infine, il cambio di leadership, dal belga Van Rompuy al polacco Tusk.

L’esplosione di due nuove crisi “esistenziali” dell’Unione—quella migratoria e quella del processo di integrazione, a seguito della c.d. Brexit—hanno inevitabilmente riportato il Consiglio europeo e il suo Presidente al centro delle trame politiche dell’Unione. Il rinnovato protagonismo del Consiglio europeo, tuttavia, si fonda sul ricorso all’informalità, all’atipicità e a soluzioni intergovernative di carattere extra-ordinamentale. Parafrasando quanto sostenuto dal primo Segretario generale del Consiglio europeo, sempre più frequentemente i Capi di Stato o di governo operano «in detachment from the EU institutional system», «carefully [dis]respecting the role of the (other) EU institutions» (v. Corsepius, p. 143).

Come noto, si tratta di un approccio al quale il Consiglio europeo aveva già fatto ricorso in risposta alla crisi economico-finanziaria, in particolare per l’adozione del Meccanismo europeo di stabilità (ESM) e del Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance dell’Unione economica e monetaria (in tema si v., tra gli altri, Izzo). Ciò nondimeno, tale prassi contrasta con l’istituzionalizzazione del Consiglio europeo operata dal Trattato di Lisbona (§ 2). Essa presenta inoltre diversi profili di potenziale incompatibilità con i Trattati, che meritano di essere brevemente analizzati (§ 3) e inquadrati nelle più complessive tendenze di sviluppo del processo d’integrazione (§ 4).

 

2. L’involuzione istituzionale del Consiglio europeo nella gestione delle crisi

Come anticipato, un primo “teatro di crisi” dell’Unione, nel quale è (ri)emersa la tendenza all’informalità del Consiglio europeo è costituito dall’emergenza migratoria.

Un primo segnale in tal senso è giunto dalle dichiarazioni a margine della riunione informale dei Capi di Stato o di governo del settembre 2015. Dette dichiarazioni hanno infatti definito gli orientamenti generali dell’UE nella risposta alla crisi migratoria, che sono stati recepiti e di fatto solo precisati dalle successive conclusioni formali del Consiglio europeo dell’ottobre 2015.

Il cambio di passo nella gestione intergovernativa della crisi è emerso con evidenza, però, nello sviluppo dei rapporti bilaterali tra Unione e Turchia.

Il vertice informale di settembre, infatti, è stato seguito, nel novembre 2015, da una prima riunione dei Capi di Stato o di governo con la controparte turca, nel corso della quale è stato adottato il piano d’azione comune UE-Turchia, convenuto ad referenda nel corso del mese di ottobre. Pur essendo stato definito su impulso dei Capi di Stato o di governo, il piano impegnava l’UE e le sue istituzioni (e non i singoli Stati membri) ad adottare una serie di azioni per contenere i flussi migratori e contrastare l’immigrazione irregolare.

L’esigenza di «pervenire a una riduzione sostanziale e sostenibile del numero di ingressi illegali nell’UE dalla Turchia» (segnalata nelle conclusioni del Consiglio europeo del febbraio 2016, al punto 7) ha spinto i Capi di Stato o di governo a riunirsi in altre due occasioni: il 7 marzo 2016, anzitutto con il primo ministro turco e poi separatamente a livello informale, e il 18 marzo 2016, a margine e a seguito del Consiglio europeo. In quest’ultima occasione, i «membri del Consiglio europeo» e «la controparte turca» hanno adottato la Dichiarazione UE-Turchia (in seguito, “Dichiarazione”).

Il carattere vincolante di tale Dichiarazione è stato dibattuto in dottrina: secondo alcuni Autori (si v., tra gli altri Gatti, Cannizzaro, Corten e Dony) essa costituirebbe un accordo internazionale atipico, come tale concluso in violazione dell’art. 218 TFUE; secondo altri Autori, invece, la Dichiarazione avrebbe natura di statement politico (Peers e Fernández Arribas) e sarebbe pertanto formalmente valida. Ai fini della presente analisi, tuttavia, ciò che rileva è la “fuga” dal diritto e dal quadro istituzionale dell’Unione operata dagli Stati membri e sancita dal Tribunale nell’ordinanza NF c. Consiglio europeo (causa T-192/16, punto 71).

Dalla lettera e del contenuto della Dichiarazione si può desumere che essa costituisca un atto negoziato dal Presidente del Consiglio europeo e concluso da (tutti) i «membri del Consiglio europeo» e che impegna l’Unione e le sue istituzioni e agenzie. Ciò nonostante, tutte le istituzioni politiche dell’UE (incluso il Parlamento, contro il proprio interesse) e i giudici di Lussemburgo hanno sostenuto che la Dichiarazione non costituisca un atto del Consiglio europeo, ma vada attribuita agli Stati membri riuniti in sede di Consiglio europeo.

 

Una seconda frontiera della “de-istituzionalizzazione” del Consiglio europeo è quella riguardante la risposta alla crisi identitaria dell’Unione, idealmente consumatasi nell’arco di tempo compreso tra la Nuova intesa per il Regno Unito nell’Unione europea (in seguito, “Nuova intesa”) e la dichiarazione di Roma del 25 marzo scorso.

Come noto, a seguito della formalizzazione della convocazione del referendum da parte dell’allora premier Cameron nel corso del Consiglio europeo del giugno 2015, e di intensi negoziati condotti dal Presidente Tusk, il Consiglio europeo del febbraio 2016 aveva raggiunto un accordo che rafforzava lo “status speciale” del Regno Unito nell’UE. Quest’ultimo era definito, in particolare, da una decisione dei Capi di Stato o di governo riuniti in sede di Consiglio europeo.

Come sottolineato da numerosi autori (Jacqué, Rossolillo, Pistoia) e dal giureconsulto del Consiglio europeo, nel parere dell’8 febbraio sulla bozza di decisione, essa costituiva un accordo internazionale giuridicamente vincolante concluso dai Capi di Stato o di governo dell’UE in forma semplificata. Sebbene trovasse dei precedenti in due decisioni adottate in occasione dei referendum danese e irlandese (dunque precedentemente all’istituzionalizzazione del Consiglio europeo), la Nuova intesa aveva un valore particolarmente “eversivo” rispetto ai fondamenti del processo di integrazione.

In primo luogo, la decisione contestava il cardine politico della costruzione europea, cioè la sua finalizzazione alla «destinazione comune» di «un’unione sempre più stretta fra i popoli europei». A tal fine, le Parti contraenti non si limitavano ad un’affermazione di principio, ma, fin dal secondo ‘considerando’, qualificavano la decisione come uno strumento di interpretazione dei Trattati ai sensi dell’art. 31(3)(a) della Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati, invocando implicitamente il precedente della sentenza Rottmann (causa C-135/10, punto 40), riguardante la decisione dei Capi di Stato o di governo in vista del referendum danese. In secondo luogo, la decisione obbligava gli Stati membri a procedere ad una revisione dei Trattati per recepire gli «aspetti di merito» dell’atto e li impegnava a inserire nei futuri atti di adesione misure transitorie limitative della libertà di circolazione.

Come noto, in virtù dell’esito del referendum, favorevole alla Brexit, l’insieme delle disposizioni convenute in sede di Consiglio europeo ha cessato di esistere. L’esito del referendum non ha tuttavia determinato un ritorno alle forme e alle procedure tipiche previste dai Trattati. Al contrario, ha aperto una nuova e più intensa fase di informalità in seno al Consiglio europeo.

La decisione del governo inglese di rinviare l’avvio delle procedure di recesso disciplinate dall’art. 50 TUE ha infatti obbligato gli altri ventisette Stati membri dell’UE a procedere a consultazioni informali, separatamente o a margine di Consigli europei.

Le riunioni informali, susseguitesi a cadenza sostenuta tra il giugno 2016 e il marzo 2017, hanno avuto ad oggetto la Brexit e, più in generale, il futuro del processo d’integrazione, in vista della celebrazione dell’anniversario della firma dei Trattati di Roma. In entrambi i casi i vertici si sono svolti in una formazione analoga a quella del Consiglio europeo, con la partecipazione dei Presidenti del Consiglio europeo e della Commissione.

Le riunioni si sono generalmente concluse con la pubblicazione di dichiarazioni, riconducibili a quelli che Dashwood ha definito «Council conduct agreements»», norme di condotta che vincolano a vario titolo gli Stati nell’esercizio delle loro funzioni negli organi intergovernativi dell’UE. Pur rimarcando che spettava al Consiglio europeo adottare gli orientamenti relativi ai negoziati ai sensi dell’art. 50(2) TUE, la dichiarazione del 29 giugno 2016 ha infatti predeterminato alcuni elementi non negoziabili della posizione dell’UE27, come ad esempio l’inscindibilità delle libertà fondamentali. La successiva dichiarazione del dicembre 2016, invece, oltre a ribandire l’impegno di «attenersi ai principi» stabiliti dalla precedente, ha dettato precise direttive procedurali per la negoziazione dell’accordo di recesso, ulteriori rispetto a quelle previste dall’art. 50 TUE, ad esempio riguardo all’identità del negoziatore dell’Unione e alla composizione della squadra di negoziato, o agli obblighi di informazione periodica a favore del PE (v. allegato alla dichiarazione, parr. 3 e 7).

Anche la dichiarazione di Bratislava del settembre 2016, del resto, ha di fatto sottratto al Consiglio europeo la sua funzione di impulso, anticipando l’adozione di alcune decisioni e orientamenti da parte di quest’ultimo e più in generale definendo le «priorità essenziali» dell’UE in un programma di lavoro concordato con il Presidente del Consiglio europeo, la presidenza del Consiglio e la Commissione.

Diversamente dalla gestione della crisi migratoria, nel caso della Brexit il ricorso all’informalità può essere, per così dire, giustificato dallo “stato di necessità” determinato dalla scelta del Regno Unito di ritardare la notifica formale della propria intenzione di recedere, pur avendo affermato sul piano politico l’irreversibilità della scelta referendaria. Le riunioni informali dei Capi di Stato o di governo erano, in tal senso, funzionali a preservare l’unità del quadro istituzionale e testimoniavano la volontà degli Stati membri di rispettare le procedure dettate dall’art. 50 TUE, secondo il principio «no negotiations without notification» (come si desume chiaramente, ad esempio, dalla lettera inviata dal Presidente Tusk ai Capi di Stato o di governo prima del vertice di Bratislava). Entrambe le crisi, tuttavia, hanno messo in luce i medesimi limiti all’istituzionalizzazione del Consiglio europeo e le antinomie che un ricorso—volontario o obbligato—all’informalità fa sorgere rispetto ai Trattati e ai principi generali del diritto dell’UE.

 

Infine, l’ultima, simbolica, pagina dell’involuzione istituzionale del Consiglio europeo è stata scritta in occasione della rielezione (a maggioranza qualificata) del Presidente Tusk, nel marzo 2017.

Per la prima volta dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, infatti, il Consiglio europeo non è pervenuto all’adozione di conclusioni, a causa dell’opposizione di un membro. Come noto, si tratta della Polonia, che aveva duramente contrastato la ricandidatura di Tusk, minacciando di opporre il proprio veto alla pubblicazione delle conclusioni. Sotto il profilo giuridico, ciò che rileva è che le conclusioni siano state adottate dal Presidente del Consiglio europeo, analogamente alla prassi antecedente alla revisione dei Trattati, in base alle quale gli esiti delle riunioni dei Capi di Stato o di governo erano riassunti da conclusioni della Presidenza (del Consiglio dei ministri).

Alla luce della giurisprudenza della Corte (si v. in particolare la sentenza Parlamento c. Consiglio e Commissione, cause riunite C-181/91 E C-248/91, punto 14) e considerato il contenuto dell’atto (che fa riferimento al Consiglio europeo, anche in termini prescrittivi) e le circostanze della sua adozione (una riunione formale del Consiglio europeo, con la partecipazione di tutti i suoi membri), le conclusioni sembrano attribuibili al Consiglio europeo. D’altra parte, però, è la stessa lettera dell’atto a precisare che le conclusioni non godono dell’«approvazione formale» di tale organo «in quanto istituzione».

Si potrebbe sostenere dunque che, nel caso di specie, si sia di fronte ad una sorta di duplice dédoublement fonctionnel del Consiglio europeo. Esso ha agito come consesso intergovernativo, come tale privo di autonomia giuridica nell’ordinamento dell’UE, esprimendo una volontà collegiale distinta da quella dell’istituzione dell’Unione. A tal fine, il Consiglio europeo è stato rappresentato dal proprio Presidente, che ha operato al contempo da organo dell’Unione ex art. 15(6) TUE e da organo comune degli Stati membri riuniti in sede di Consiglio europeo, raccogliendo le deliberazioni di questi ultimi nelle proprie conclusioni.

Pur trattandosi di un incidente di percorso, che le stesse conclusioni addebitano a «ragioni indipendenti dal merito», la vicenda si presta dunque ad esemplificare plasticamente l’involuzione istituzionale del Consiglio europeo sopra riassunta.

 

3. I principali profili di illegittimità della prassi decisionale del Consiglio europeo

La prassi analizzata presenta almeno tre profili di incompatibilità con i Trattati e i principi generali del diritto dell’Unione, che toccano i principali “fondamenti costituzionali” dell’ordinamento dell’UE.

Una prima antinomia investe le norme che regolano il riparto di competenze tra Stati membri e Unione europea. Si tratta in particolare dell’ipotesi, adombrata dal Tribunale nell’ordinanza NF c. Consiglio europeo (punti 71-72), nella quale si considerasse la dichiarazione UE-Turchia come un accordo internazionale vincolante concluso in forma semplificata dai Capi di Stato o di governo.

Infatti, in un settore di competenza concorrente quale quello dello spazio di libertà sicurezza e giustizia, gli Stati membri non sono legittimati ad agire, né singolarmente, né tantomeno collettivamente, nella misura in cui l’UE abbia già esercitato la propria competenza e non li abbia autorizzati ad assumere obblighi in propria rappresentanza. Ciò discende, su di un piano generale, dal combinato disposto dell’art. 2(6) TFUE e delle basi giuridiche specifiche relative alla politica comune dell’immigrazione e in materia di asilo (artt. 77-79 TFUE)—che peraltro prevedono una competenza esterna espressa dell’UE rispetto alla conclusione di accordi in materia di riammissione (art. 79(3) TFUE), già esercitata nel caso della Turchia—e dai principi di preemption e del parallelismo delle competenze interne ed esterne (sul punto si cfr. Cannizzaro 2016 e Cannizzaro 2017).

A tali considerazioni si potrebbe obiettare che, anche qualora l’UE goda di una competenza (esterna) esclusiva in materia, gli Stati membri possono legittimamente concludere, singolarmente o collettivamente, accordi internazionali con Stati terzi per conto e nell’interesse dell’Unione, qualora autorizzati da quest’ultima. Tale è il caso, in particolare, dei protocolli d’intesa conclusi dagli Stati membri con Stati terzi al fine di dare attuazione ad accordi di riammissione conclusi dall’UE, previsti anche dall’accordo di riammissione UE-Turchia, agli artt. 20 e 21 (si v., su tale prassi, Casolari, pp. 47-48 e 57 ss.). Si potrebbe dunque sostenere che la dichiarazione UE-Turchia costituisca un atto atipico di attuazione dell’accordo di riammissione, al quale sarebbe applicabile per analogia la disciplina dettata per i protocolli. A ben vedere, tuttavia, lo stesso accordo di riammissione condiziona l’entrata in vigore di tali protocolli alla previa notifica al comitato misto per la riammissione istituito dall’accordo e legittima la conclusione di sole intese bilaterali, condizioni che difettano nel caso della dichiarazione UE-Turchia.

 

Una seconda specie di conflitti tra la prassi analizzata in precedenza e il diritto primario riguarda le disposizioni dei Trattati che dettano specifiche procedure per l’adozione di atti dell’UE.

Come anticipato, tale sarebbe sicuramente il caso della dichiarazione UE-Turchia, qualora la si qualificasse—diversamente dal Tribunale—come un accordo vincolante concluso dall’UE. Infatti, insistendo su settori coperti dalla procedura legislativa ordinaria, tale accordo avrebbe dovuto essere adottato nel rispetto dell’art. 218 TFUE e in particolare avrebbe dovuto essere approvato dal Parlamento europeo, ai sensi dell’art. 218(6) TFUE (così Gatti).

Un’altra potenziale ipotesi di violazione, cessata a seguito dell’esito del referendum inglese, riguardava invece la Nuova intesa e in particolare il rapporto tra la relativa decisione dei Capi di Stato o di governo e l’art. 48 TUE.

Si è già sottolineato che la decisione impegnava gli Stati membri a recepire alcuni «aspetti di merito» dell’atto nel diritto primario, in occasione di una successiva revisione dei Trattati. Secondo il già menzionato parere del giureconsulto del Consiglio europeo (parr. 7 e 13), nella misura in cui facevano riferimento al merito e non alla lettera delle revisioni, queste norme non pre-negoziavano né pregiudicavano la precisa formulazione degli emendamenti ai Trattati e dunque non violavano le procedure di revisione previste dagli stessi. Il parere sottolineava inoltre il fatto che la decisione facesse salvo espressamente il rispetto delle «pertinenti disposizioni dei Trattati» e delle «rispettive norme costituzionali degli Stati membri».

Si tratta, evidentemente, di un’interpretazione formalistica del diritto primario. Da un lato, in ragione dell’identità dei soggetti deliberanti, la Nuova intesa frustrava l’obbligo di previa consultazione del Parlamento europeo e della Commissione previsto dall’art. 48(3) TUE per l’adozione di decisioni del Consiglio europeo favorevoli all’esame di un progetto di revisione. Consultazione che, in quanto riflesso del principio democratico, avrebbe dovuto essere necessariamente effettiva (v., per analogia, le c.d. sentenze Isoglucosio, nelle cause Roquette frères c. Consiglio, 138/79, punto 33 e Maizena c. Consiglio, 139/79, punto 34). Dall’altro lato, nella misura in cui, in virtù delle loro funzioni, i Capi di Stato o di governo riuniti in sede di Consiglio europeo impegnano la volontà dei rispettivi Stati membri ai sensi dell’art. 7(2)(a) della Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati, la Nuova intesa predeterminava nel merito l’esito della conferenza intergovernativa di cui all’art. 48(4) TUE, vanificando le eventuali raccomandazioni adottate dalla convenzione.

 

Una terza ed ultima specie di antinomia sorge infine con riferimento ad alcuni principi generali del diritto dell’Unione, il cui rispetto si impone anche agli Stati membri nel legittimo esercizio delle proprie competenze (si v. la sentenza Pringle, al punto 69).

La prassi ricostruita nel corso del paragrafo precedente sembra contrastare non solo con il principio di attribuzione, ma anche con quello di leale cooperazione, nella sua dimensione “ascendente” di cui all’art.4 (3)(3) TUE. Si potrebbe sostenere, ad esempio, che gli Stati membri avrebbero dovuto astenersi dall’adottare una misura, come la dichiarazione UE-Turchia, che mettesse in pericolo la realizzazione degli obiettivi dell’Unione, tra i quali figurano, ex art. 3(3) e (5) TUE, la lotta contro le discriminazioni e la promozione dei valori dell’UE, ivi compreso il rispetto della dignità e dei diritti umani, dell’uguaglianza e dello Stato di diritto (v. ad esempio, le considerazioni di Roman rispetto alla discriminazione sulla base della nazionalità dei richiedenti asilo).

La scelta degli Stati membri di procedere per vie intergovernative extra-ordinamentali in settori che rientrano nella sfera d’applicazione del diritto dell’UE (e dunque della Carta, alla luce delle sentenze Åkerberg Fransson, punti 19-21 e Delvigne, punti 26-27) viola inoltre il diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva (in tema v. anche Cannizzaro 2017).

Come rilevato dal Tribunale nell’ordinanza NF c. Consiglio europeo (punto 43), il Trattato di Lisbona, riconducendo il Consiglio europeo al quadro istituzionale dell’UE, aveva esteso la competenza della Corte di giustizia agli atti adottati da tale organo, colmando il precedente deficit di controllo giurisdizionale. La stessa ordinanza (ivi, punti 44-45) ha tuttavia affermato che se, alla luce del loro contenuto e delle circostanze in cui sono state adottate, le decisioni dei Capi di Stato o di governo fisicamente convenuti nella sede di un’istituzione dell’UE sono assunte in rappresentanza dei rispettivi Stati membri, nell’esercizio collettivo dei poteri di questi ultimi e non in qualità di membri del Consiglio europeo, tali atti sfuggono al controllo della Corte di giustizia.

L’ordinanza si pone in continuità con la precedente giurisprudenza della Corte relativa alle deliberazioni assunte dagli Stati membri in sede di Consiglio. Alla luce della composizione e delle modalità deliberative del Consiglio europeo, tuttavia, l’analogia operata dal Tribunale si rivela strutturalmente impropria. Come noto, infatti, il Consiglio europeo è composto da leader che in ragione delle loro funzioni rappresentano gli Stati membri senza presentare pieni poteri e da due membri non votanti (i Presidenti del Consiglio europeo stesso e della Commissione); esso delibera generalmente per consenso e non è subordinato ad alcuna procedura, né a particolari obblighi di forma o pubblicità (artt. 4(3) e 10(1) del regolamento interno del Consiglio europeo). L’esame condotto dal Tribunale nell’ordinanza NF c. Consiglio europeo (punti 49-55 e 62-69), di conseguenza, testimonia come sia sufficiente che, nell’esercizio della propria autonomia istituzionale, il Consiglio europeo si spogli della propria veste istituzionale e qualifichi la propria formazione come una riunione dei Capi di Stato o di governo in rappresentanza dei rispettivi Stati membri, perché gli atti prodotti in tale sede sfuggano al controllo della Corte.

Infine, un ulteriore potenziale profilo di illegittimità della prassi informale in sede di Consiglio europeo rispetto ai principi generali del diritto dell’UE potrebbe investire il principio dell’equilibrio istituzionale, così come codificato dall’art. 13(2) TUE. L’antinomia discenderebbe dall’«uso» del Consiglio europeo, del suo Presidente e di altri organi dell’UE da parte degli Stati membri, in violazione della loro autonomia istituzionale e del riparto di attribuzioni orizzontale tra istituzioni dell’UE.

Diversamente dalle ipotesi precedenti, tuttavia, in quest’ultimo caso la prassi esaminata sembra essere compatibile con il diritto dell’UE. A tal proposito, nella già menzionata sentenza Pringle (punto 158) la Corte ha sostenuto che «nei settori che non rientrano nella competenza esclusiva dell’Unione, gli Stati membri hanno il diritto di affidare alle istituzioni, al di fuori dell’ambito dell’Unione, compiti come il coordinamento di un’azione comune da essi intrapresa o la gestione di un’assistenza finanziaria […] a condizione che tali compiti non snaturino le attribuzioni che i Trattati UE e FUE conferiscono a tali istituzioni», attribuzioni delle quali la Corte ha proposto un’interpretazione particolarmente estensiva (v., ad esempio, ai punti 163-164, rispetto ai compiti relativi alla promozione dell’interesse generale e all’applicazione del diritto dell’UE conferiti alla Commissione dall’art. 17(1) TUE).

Nella misura in cui non amplino il novero dei poteri degli organi dell’UE, ma solo l’ambito di applicazione materiale di tali poteri (dunque senza violare l’equilibrio istituzionale definito dal Trattato), l’impiego strumentale degli organi dell’UE da parte degli Stati membri riuniti in sede intergovernativa sembra dunque legittimo. Tale sembra essere, ad esempio, il caso delle funzioni esercitate dalla Commissione e dal Presidente del Consiglio europeo nei negoziati che hanno preceduto l’adozione della dichiarazione UE-Turchia.

 

4. Conclusioni: unità nella disintegrazione e possibili riforme costituzionali

La scelta di affidare la definizione degli orientamenti e le priorità generali dell’Unione ad un organo, qual è il Consiglio europeo, che delibera per consenso, si fonda su un assioma, proclamato dal preambolo ai Trattati: la tensione unitaria degli Stati membri verso il traguardo finalistico dell’«Unione sempre più stretta fra i popoli dell’Europa». In base a tale principio, al Consiglio europeo spetterebbe solo dar forma ad un «common sense of direction and a feeling of shared responsibility within the Union» nell’ambito del processo (positivo) di integrazione (così Corsepius, p. 136).

Come testimoniato, con il consolidarsi di tendenze centrifughe e il rifiuto politico (se non giuridico) dell’obiettivo della ever closer Union, ratificato dallo stesso Consiglio europeo fin dalle conclusioni del giugno 2014, la definizione degli indirizzi politici dell’Unione non ha più potuto basarsi sul contemperamento delle diverse “ricette nazionali” d’integrazione europea. Al contrario, si è dovuta fondare su una conventio ad excludendum rispetto a quegli Stati membri (Regno Unito, Repubblica Ceca, Polonia, …) non più disposti, in tutto o in parte, a partecipare al processo deliberativo.

L’istituzionalizzazione “debole” del Consiglio europeo, fondata sul consenso, nel contesto di un ordinamento formalistico improntato a principi di coerenza e completezza, ha impedito di internalizzare un processo deliberativo fondato sul conflitto (v. in tal senso la Risoluzione del Parlamento europeo del 16 febbraio 2017 sulle evoluzioni e gli adeguamenti possibili dell’attuale struttura istituzionale dell’Unione europea, ‘considerando’ N). L’assenza di strumenti decisionali maggioritari ha consegnato le chiavi di tale processo agli Stati membri, in un «deserto istituzionale» intergovernativo nel quale «il potere politico è concentrato nelle mani degli Stati che agiscono per tramite del Consiglio europeo» (così Cannizzaro), proprio nel momento della definizione degli impulsi fondamentali per lo sviluppo dell’UE, quali quelli relativi alle modalità di soluzione della “policrisi” dell’Unione.

Come dimostrato, il prezzo pagato dall’ordinamento dell’UE a tale scelta è altissimo. La “fuga” dal diritto dell’Unione e dalla sua cornice istituzionale hanno comportato innanzitutto la rinuncia alle garanzie fornite da tale ordinamento, in particolare sotto il profilo della completezza e dell’effettività del controllo giurisdizionale degli atti giuridici dell’UE. Esse hanno accentuato, inoltre, l’opacità nella ripartizione delle responsabilità politiche tra istituzioni dell’Unione e tra queste e gli Stati membri (così anche la Risoluzione del Parlamento europeo del 16 febbraio 2017 sulle evoluzioni e gli adeguamenti possibili dell’attuale struttura istituzionale dell’Unione europea, par. 6), e con essa la tendenza all’“EU bashing”. Il processo di “de-istituzionalizzazione” del Consiglio europeo, inoltre, ha negato l’impegno, affermato dalla relazione finale del gruppo di lavoro IX Semplificazione della Convenzione europea, a che «atti dotati della stessa forza giuridico-politica abbiano lo stesso fondamento in termini di legittimità democratica».

 

Paradossalmente (ma auspicabilmente), l’avvio formale di processi di disintegrazione e l’apertura politica a percorsi di differenziazione, sembrano fattori in grado di arrestare, se non di invertire, l’involuzione istituzionale del Consiglio europeo.

In primo luogo, a seguito della notifica dell’intenzione di recedere da parte del Regno Unito del 29 marzo 2017, e fin dall’annuncio dell’avvenuta notifica, il Consiglio europeo ha pienamente riassunto le proprie funzioni, nella formazione a ventisette prevista dall’art. 50(4) TUE. A tal proposito, appare interessante rilevare che gli orientamenti del Consiglio europeo in vista dei negoziati per il recesso si concludono con una norma di salvaguardia (par. 28) mediante la quale il Consiglio europeo approva—e, dunque, si vincola a—le procedure per la conduzione di tali negoziati dettate dalla dichiarazione dei ventisette Capi di Stato e di Governo, del Presidente del Consiglio europeo e della Commissione, a margine della riunione informale del 15 dicembre 2016.

Ciò sembra confliggere con la lettera del Trattato e con l’obbligo di leale cooperazione nei confronti dello stato recedente da parte del Consiglio europeo e degli altri Stati membri riuniti informalmente in tal sede, riconosciuto dagli stessi orientamenti (par. 25). Ai sensi dell’art. 50(4) TUE, infatti, lo stato recedente è escluso dalle deliberazioni e dalle decisioni del Consiglio europeo solo «ai fini dei paragrafi 2 e 3» dell’art. 50 TUE e dunque limitatamente alla formulazione degli orientamenti in vista dei negoziati relativi all’accordo di recesso e all’eventuale proroga del termine biennale per la conclusione di tali negoziati. A fortiori, l’esclusione dello stato recedente dal Consiglio europeo si applica dunque solo successivamente alla notifica dell’intenzione di recedere. D’altra parte, la previsione in esame testimonia l’intenzione del Consiglio europeo di sanare il vulnus seguito al referendum inglese, attraverso una norma di copertura che consenta di attribuire retroattivamente le deliberazioni informali dei ventisette all’istituzione dell’Unione.

In secondo luogo, nell’ambito della c.d. dichiarazione di Roma, figura un’apertura (implicita) dei ventisette Capi di Stato o di governo a percorsi di integrazione differenziata, nella forma di cooperazioni rafforzate. Tale dichiarazione recita infatti: «we will act together, at different paces and intensity where necessary, while moving in the same direction, as we have done in the past, in line with the Treaties and keeping the door open to those who want to join later». Se fosse recepita, questa indicazione dovrebbe portare a ricondurre la cooperazione intergovernativa nell’alveo del diritto dell’Unione e dunque all’abbandono della pratica del ricorso ad accordi internazionali tra Stati membri.

In questo contesto, emerge con sempre maggiore evidenza il fatto che la chiave di volta dell’unità e integrità del quadro istituzionale dell’Unione sia costituita dal Presidente del Consiglio europeo, più che dall’istituzione nella sua composizione collegiale. È spettato a quest’ultimo, infatti, assicurare la continuità dei lavori e facilitare il consenso non solo all’interno della tradizionale cornice istituzionale, ma anche in occasione delle riunioni informali in sede di Consiglio europeo; il ruolo del Presidente ha costituito, inoltre, un trait d’union imprescindibile tra tali consessi intergovernativi e il quadro istituzionale dell’Unione.

Non stupisce, perciò, che proprio questo organo sia stato recentemente oggetto di dibattito (si v. la Risoluzione del Parlamento europeo del 16 febbraio 2017 sul miglioramento del funzionamento dell’Unione europea sfruttando le potenzialità del trattato di Lisbona, par. 26 e gli interventi di Esposito e Galli della Loggia, Tajani, Letta e Gozi) rispetto all’opportunità di fondere le funzioni di Presidente della Commissione e del Consiglio europeo e di procedere alla sua elezione diretta attraverso il meccanismo degli Spitzenkandidaten.

Si tratta di una proposta suggestiva, che tuttavia, a Trattati costanti, sottovaluta il rischio di aggravare in tal modo la percezione dei cittadini di un deficit di trasparenza, efficienza e democraticità dell’Unione. Un Presidente dell’UE privo di poteri di impulso e orientamento politico resterebbe infatti pur sempre alla mercé dei Capi di Stato o di governo e sarebbe probabilmente ancor più incentivato a ricorrere al diritto internazionale per superare gli ostacoli derivanti dal complesso equilibrio istituzionale dell’Unione.

Più in generale, non va dimenticato che le istituzioni non sono il fine ma lo strumento del processo d’integrazione.

Come testimonia il Libro bianco sul Futuro dell’Europa presentato dalla Commissione europea, la riflessione è aperta e l’esito di tale processo d’integrazione ancora incerto. Ancora una volta, spetterà al Consiglio europeo tirare le fila del dibattito e decidere una linea d’azione unitaria. L’auspicio è che i Capi di Stato o di governo assumano finalmente la responsabilità “costituzionale” di dare all’Unione «gli impulsi necessari al suo sviluppo», all’interno della cornice istituzionale europea e senza più fuggire dal diritto dell’UE.

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Carlo Tovo

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