La trasfigurazione del Sovrano. Il diritto dell’Unione come fattore di evoluzione costituzionale nel Regno Unito
Giuseppe Martinico, Scuola Universitaria Superiore Sant’Anna
Come era prevedibile, viste anche le grandi attese suscitate dai blog di settore, R (Miller) v Secretary of State for Exiting the European Union della High Court ha subito scatenato un’intensa discussione dai contorni non solo tecnici, ma anche, inevitabilmente, politici. Da una parte, alcune testate hanno attaccato i giudici, definendoli «enemies of the people», dall’altra, si è scritto anche di vittoria del diritto sulla politica.
La polarizzazione del dibattito è anche frutto di un sistema che ha dovuto rimettere in discussione l’originario concetto di sovranità parlamentare e che sta ancora vivendo (come già è avvenuto negli Stati Uniti, anche se con evidenti differenze) le tensioni fra costituzionalismo politico e giuridico, esplose, nel Regno Unito, soprattutto all’indomani dello Human Rights Act.
A ciò si aggiunga anche il crescente ricorso allo strumento referendario, che sta inevitabilmente offrendo un altro fattore di ripensamento della “classica” dottrina della sovranità parlamentare e riproducendo, in un contesto particolare, alcune problematiche conseguenze legate al suo “innesto” in contesti di democrazia rappresentativa, note anche altrove.
Va anche sottolineato che l’attuale fase del processo integrativo è spia di una crisi più ampia e in questo senso probabilmente ci saremmo trovati in una situazione analoga anche nell’eventualità di una vittoria del Remain, dato che quest’ultima avrebbe comportato l’entrata in vigore di un accordo (la “nuova intesa per il Regno Unito nell’Unione europea”) davvero problematico e di dubbia compatibilità con il nucleo del diritto dell’Unione.
Tutto questo fa da sfondo a una decisione, a parere di chi scrive, saggia nella sostanza e nel risultato, ma problematica nell’argomentazione, in cui, a dispetto di quello che hanno scritto i giornali inglesi, la High Court non ha bloccato il c.d. Brexit, ma ha chiarito la necessità di coinvolgere il Parlamento inglese nella decisione relativa alla notifica ex art. 50 TUE.
La decisione, da questo punto di vista, è tutt’altro che preoccupante – e tutt’altro che inaspettata – a mio avviso, mentre oggettivamente problematica è la reazione delle istituzioni inglesi all’aggressività dei media. Come si è avuto modo di sostenere altrove, gli attori politici (sia a livello nazionale che sovranazionale) in questa vicenda hanno mostrato una serie di preoccupanti ambiguità, facendo di tutto per aggirare, semplificare e ridicolizzare il ruolo delle norme giuridiche in gioco (in primis il famigerato art. 50 TUE, che, con tutti i suoi difetti, offre delle linee guida che dovrebbero essere seguite in questa fase). Vale la pena di ricordare come gli stessi attori politici abbiano, in alcuni casi, anche attaccato il ruolo dei giuristi e degli accademici in quanto tali e la nota vicenda riguardante alcuni colleghi della LSE è solo l’apice di questo preoccupante fenomeno.
Sia chiaro, Miller non rappresenta la vittoria del diritto sulla politica, tuttavia, lo sforzo fatto dalla High Court nel tentare di riallineare l’agire politico al quadro giuridico (rectius, costituzionale) è encomiabile e fa di questa decisione una pietra miliare. A coloro che pensano che le norme siano solo la cristallizzazione di rapporti di forza politici, la decisione Miller ha ricordato che le norme sono soprattutto la cornice che forgia e canalizza il potere, risultando, così, di enorme impatto costituzionale.
Senza analizzare nel dettaglio la decisione (già ampiamente esplorata da autorevoli studiosi in interventi disponibili sia in inglese che in italiano) si cercheranno di evidenziare brevemente due problematici elementi del ragionamento della High Court: uno relativo alla revocabilità della notifica e l’altro relativo al concetto di “legge costituzionale” nell’ordinamento britannico.
Per quanto riguarda il primo, all’indomani della decisione, gli studiosi si sono divisi sul ruolo che ha giocato nella stessa l’interpretazione data all’art. 50 TUE con specifico riferimento alla questione della irrevocabilità della notifica (del resto, già prima del referendum del 23 giugno la letteratura sul punto era divisa).
A mio avviso, il richiamo all’art 50 TUE è tutt’altro che fuori luogo: l’appartenenza del Regno Unito all’UE ha creato, negli anni, norme complesse nel senso etimologico del termine (frutto di un intreccio – complexus – normativo difficilmente districabile, fra diritto interno e diritto europeo; si veda la “categorizzazione” dei diritti offerta dalla High Court ai par. 57-66 della decisione); ciò, quindi, rende inevitabile il riferimento al diritto dei Trattati per la corretta lettura del quesito posto al giudice.
La stessa lettera dell’art. 50 TUE, del resto, rinvia al diritto interno quando dispone che «ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall’Unione» (come, d’altra parte, fanno anche altre norme dei Trattati, per esempio il rinvio contenuto all’art. 48, par. 4, TUE e molte delle disposizioni della Carta dei diritti fondamentali dell’UE). Tuttavia, è anche vero che, a seconda della revocabilità o meno della notifica, varia anche il margine di manovra lasciato al Parlamento inglese e ciò rende il riferimento rilevante ai fini della decisione (contra si vedano alcuni dei commenti pubblicati nella blogosfera).
Se la situazione è “complessa” (nel senso di intrecciata) ecco allora che questioni di puro diritto interno producono conseguenze sul piano del diritto dell’UE. A chi spetta notificare? Si tratta di una prerogativa che può esercitare l’Esecutivo? È necessario coinvolgere il Parlamento di Westminster? Il Parlamento scozzese ha una qualche forma di veto? O l’eventuale conflitto fra Parlamenti del Regno Unito si avrà solo a notifica avvenuta? In quel caso che accadrà? Prevarrà il Parlamento di Westminster? Che ruolo potranno giocare fattori come la Sewel convention? La decisione di notificare spetta al governo ma con il controllo del Parlamento? (si veda un importante report recentemente pubblicato dalla House of Lords).
Come si può intuire, si tratta di questioni che non hanno solo un impatto a livello di diritto interno, perché implicano scenari non necessariamente coincidenti. Concedere, come del resto entrambe le parti hanno fatto (questo apre anche scenari interessanti in vista della decisione della Corte Suprema), che la notifica ex art. 50 TUE sia irrevocabile comporta inevitabilmente un restringimento del margine di manovra per il Parlamento in caso di mancato coinvolgimento nella fase pre-notifica, perché, pur ammettendo che quest’ultimo intervenga successivamente per razionalizzare l’intreccio normativo creato da anni di integrazione europea, lo si condanna a farlo per eseguire una decisione presa e dall’evidente impatto sui «rights of individuals or companies» (par. 33). È vero, infatti, che il Parlamento ha avuto modo di intervenire prima del voto con lo European Union Referendum Act del 2015, ma va anche ricordato che la dottrina è quasi unanime nel riconoscere il valore non vincolante del referendum (e non sono mancate critiche e casi giurisprudenziali sulla questione della titolarità del voto), proprio alla luce della particolari caratteristiche di questo istituto nel Regno Unito:
«Most, if not all, British constitutional lawyers would accept the proposition that referenda do not generate legally binding obligations upon government to implement their results, and the lack of provisions in the 2015 Act contrasts starkly with the Northern Ireland Act 1998 and the Parliamentary Voting and Constituencies Act 2011. Given the relative silence of the European Union Referendum Act 2015, one can only infer that the result of the referendum is advisory only, and does not trigger Article 50 in and of itself. If any legal obligations follow from the Referendum they are to be found elsewhere, or are to be considered to be purely political» (Young, 2016).
È alla luce delle peculiarità britanniche (il contesto scozzese meriterebbe delle considerazioni a parte, come ricorda Douglas Scott) che va inquadrata la tensione fra sovranità popolare e sovranità parlamentare. Riemerge qui, in tutta la sua problematicità, l’ambiguità con cui il termine “sovranità” è stato utilizzato nei mesi precedenti al voto del 23 giugno:
«A mantra of Leave campaigners seems to have been the desire to ‘take back control’. There has been much talk of sovereignty, although less clarity on what it actually means. However, at its most basic, there are at least three notions of sovereignty that are relevant in the context of Brexit, and they are often confused. The first is parliamentary sovereignty, which is said to have particular resonance in the UK because, due to the vagaries of the uncodified UK constitution, the Westminster parliament has been recognised as a body with unlimited legislative power. Yet the parliamentary sovereignty of a representative democracy may seem to be at odds with popular sovereignty as exercised in a referendum. Popular sovereignty also has other implications, such as in Scotland, where an indigenous Scottish tradition claims that sovereignty resides in the Scottish people, in spite of the alternative claims of Diceyan parliamentary sovereignty. Thirdly, there is external sovereignty, whereby a country may be sovereign and recognised as independent by the international community […]. These are three different concepts of sovereignty, but they have become very confused in the context of Brexit and the UK’s relations with the EU» (Douglas-Scott, 2016).
Bene ha fatto, quindi, la High Court a ricordare l’art. 50 TUE; tuttavia, proprio per l’impatto che la questione della revocabilità o meno della notifica ha sul margine di manovra del Parlamento, il passaggio in cui si è optato per la non revocabilità è risultato probabilmente troppo rapido e poco meditato.
Come si è scritto in precedenza, la dottrina sul punto è divisa e, anche all’indomani della decisione, quello che sembrava un dettaglio “tecnico” è diventato oggetto di dibattito sulle principali testate inglesi.
Probabilmente la High Court avrebbe dovuto sollevare una questione pregiudiziale alla Corte di giustizia. A mio avviso dovrà probabilmente farlo la Corte Suprema, a questo punto, a meno che non decida di vestire la propria decisione con argomenti di diritto interno (scelta altrettanto difficile per quanto ricordato sopra), ma sul punto si rinvia ad altri puntuali commenti.
Certo, un rinvio ex art. 267 TFUE operato dalla Corte Suprema avrebbe un impatto mediatico e politico enorme, esporrebbe i giudici (e anche la Corte di giustizia dell’UE) all’attacco degli attori politici e della stampa, ma questo è il prezzo che spesso i leading cases pagano ed è la conseguenza della recente introduzione dell’art. 50 TUE. Del resto, ammettere la revocabilità della notifica ex art. 50 TUE aprirebbe scenari nuovi, darebbe un senso diverso anche all’intervento, successivo alla eventuale notifica, del Parlamento inglese e potrebbe anche giustificare l’ipotesi di un referendum sui contenuti degli accordi successivi alla notifica.
Più in generale, alcuni commentatori hanno scritto che la High Court si è mostrata poco sensibile e rispettosa del voto popolare, richiamando la Corte Suprema canadese a modello, pensando alla nota Reference del 1998. Tuttavia, si tratta di una lettura superficiale della Reference, in cui si è ricordata la necessità di una «clear majority» (sicuramente non una maggioranza del 51,89%, alla luce anche delle problematiche esclusioni del diritto al voto dei cittadini dell’UE residenti nel Regno e dei cittadini del Regno residenti all’estero da più di 15 anni) e di una «clear question» per poter dedurre dal risultato di un referendum l’obbligo di negoziare l’eventuale uscita della Provincia francofona dal Canada:
«Our democratic institutions necessarily accommodate a continuous process of discussion and evolution, which is reflected in the constitutional right of each participant in the federation to initiate constitutional change. This right implies a reciprocal duty on the other participants to engage in discussions to address any legitimate initiative to change the constitutional order. A clear majority vote in Quebec on a clear question in favour of secession would confer democratic legitimacy on the secession initiative which all of the other participants in Confederation would have to recognize» (par. 150).
Sempre in quella Reference la Corte Suprema canadese ricordava anche il necessario coinvolgimento degli attori politici (par. 101-102), incaricati di dare un seguito al voto popolare. Proprio nell’attenzione al sistema costituzionale canadese (inteso non solo come insieme di disposizioni scritte, ma, anche e soprattutto, come «underlying principles» non scritti) risiede la grandezza di quella Reference, che ha prodotto una vera e propria riabilitazione dell’istituto della secessione all’interno degli studi giuridici (e la fine – almeno parziale – di quello che la dottrina ha chiamato il “tabù” della secessione). Dal 1998 si è passati dal silenzio delle costituzioni sul punto al dibattito su come costituzionalizzare la secessione. Perché il diritto dovrebbe poter dire qualcosa su un fenomeno che viene tradizionalmente percepito come rivoluzionario, perché necessariamente implicante la rottura dell’ordinamento? Perché le costituzioni, come ricorda Vermeule, sono anche strumenti di gestione del rischio politico, e in contesti caratterizzati da pluralismo culturale può avere senso codificare il diritto all’uscita da un ordinamento per salvaguardare dei beni costituzionali superiori alla stessa integrità territoriale, per garantire, in altre parole, il giusto equilibro fra unità e diversità. In questo senso le clausole di secessione (la scelta del termine «recesso», utilizzato nella versione italiana del TUE, è il portato di quelli che La Pergola avrebbe chiamato i residui contrattualistici del federalismo) possono essere viste come un pezzo dell’omogeneità assiologica che caratterizza ogni ordinamento, essendo volte a proteggere la continuità del rispetto di determinati valori anche nella transizione da un ordinamento unitario alla nascita – per secessione – di un nuovo ordinamento. In altre parole, procedimentalizzando la secessione (come cerca di fare l’art. 50 TUE) l’ordinamento dell’UE condiziona l’uscita di un suo Stato membro al rispetto di determinate condizioni (come del resto sottolineava nella celebre Reference anche la Corte Suprema canadese, al par. 90). In quest’ottica assume rilevanza il contenuto sugli accordi relativi alle future relazioni fra l’Unione e lo Stato che ha deciso di uscire e ciò impedisce, a mio avviso, di definire il recesso in termini di “strappo unilaterale”, che avrebbe come conseguenza quella di esporre all’arbitrio il rispetto dei diritti dei cittadini dell’UE nel Regno Unito e quelli dei cittadini del Regno Unito residenti nel territorio dell’UE.
Un secondo punto che merita attenzione è quello relativo allo status giuridico di fonti nazionali quali lo European Community (EC) Act del 1972, ad esempio. Si tratta di un altro passaggio che rivela la natura dinamico-evolutiva dell’ordinamento britannico. Anche se una delle definizioni più celebri della costituzione inglese è quella di Griffith – secondo cui «The constitution of the United Kingdom lives on, changing from day to day, for the constitution is no more and no less than what happens» – non sono mancate ricostruzioni giurisprudenziali che hanno identificato delle fonti costituzionali. Il caso a cui si fa riferimento nella decisione Miller è soprattutto Thoburn vs. Sunderland, in cui il Lord Justice (LJ) Laws concepiva l’esistenza di un gruppo di “leggi costituzionali” nell’ordinamento inglese, a cui riconduceva anche lo EC Act del 1972. Il LJ Laws individuava due grandi ambiti di leggi costituzionali (quelle sui diritti fondamentali e quelle sul rapporto fra Stato e cittadino), con riferimento ai quali la stessa sovranità del Parlamento inglese doveva ritenersi limitata. Il ragionamento di LJ Laws permetteva di mantenere l’assunto della superiorità comunitaria, fondando però tale superiorità su un atto di diritto interno del Parlamento, lo EC Act del 1972: è pertanto in virtù di questo, e non per forza propria del diritto comunitario, che il diritto sovranazionale prevale su quello interno.
L’esistenza di diritti legati all’appartenenza al processo integrativo europeo e la natura costituzionale dello EC Act rappresentano la base del ragionamento che esclude la possibilità di concepire una Royal Prerogative (nelle parole di Gina Miller, «this Ancient, Secretive Royal Prerogative») esercitabile dall’Esecutivo. Va segnalato, inoltre, che la Royal Prerogative è la “grande incompiuta” della “stagione delle riforme” iniziata nella seconda metà degli anni novanta.
Dalla natura costituzionale dello EC Act la High Court fa discendere il principio secondo cui «the Crown has no power to alter the law of the land by prerogative powers» (par. 86):
«In this context, it is also relevant to bear in mind the profound effects which Parliament intended to produce in domestic law by enactment of the ECA 1972, which has led to its identification as a statute of special constitutional significance. The wide and profound extent of the legal changes in domestic law created by the ECA 1972 makes it especially unlikely that Parliament intended to leave their continued existence in the hands of the Crown through the exercise of its prerogative powers. Parliament having taken the major step of switching on the direct effect of EU law in the national legal systems by passing the ECA 1972 as primary legislation, it is not plausible to suppose that it intended that the Crown should be able by its own unilateral action under its prerogative powers to switch it off again. Moreover, the status of the ECA 1972 as a constitutional statute is such that Parliament is taken to have made it exempt from the operation of the usual doctrine of implied repeal by enactment of later inconsistent legislation» (par. 87-88).
Anche qui alcuni commentatori hanno criticato il richiamo a Thoburn e all’interpretazione di LJ Laws (tutt’altro che pacifica e, anzi, ritenuta da alcuni «an unconvincing theory, not much backed up by subsequent cases from higher courts»; Gardner, 2016) e questo spiega anche perché, all’indomani di Miller, alcuni studiosi abbiano contestato la decisione ribadendo un parallelismo che a noi osservatori, abituati ad altre categorie, appare assurdo, quello fra il potere unilaterale di notifica esercitabile dal governo con riferimento ad accordi sulla doppia tassazione e quello ex art. 50 TUE. Anche su questo sarà interessante vedere cosa dirà la Corte Suprema: è vero che di fonti costituzionali ormai i colleghi inglesi scrivono da anni (per esempio, Feldman, “The nature and significance of ‘constitutional’ legislation”, in The Law Quarterly Review, 2013, p. 343 ss.), ma non c’è (proprio per la natura prevalentemente non scritta della costituzione inglese) unanimità sulla identificazione di esse e sulle conseguenze in termini di capacità di interventi successivi del legislatore “ordinario”. Ciò anche perché, secondo alcuni colleghi britannici, in Thoburn si sarebbe in realtà chiarito che: «a statutory provision is constitutional not because the legislature intended it to have that status (which in any case had not been recognized in law when the 1972 Act was passing through Parliament) but because the common law confers that status on it» (Feldam, 2016).
In conclusione, la decisione Miller rappresenta un punto di svolta nella storia costituzionale inglese e un banco di prova per un sistema costituzionale particolare come quello britannico, per definizione dinamico ed evolutivo, che si scopre inevitabilmente diverso da come era negli anni ’70, prima che la celebre «incoming tide» del diritto europeo attraversasse il suo ordinamento, parzialmente riforgiandone i contorni.
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