Il tribunale dell’Unione Europea prova a scrivere l’ultima pagina sulla fiscalità (immobiliare) degli istituti religiosi in Italia
Marco Greggi, Università di Ferrara
“La Guerra dei dieci anni”: così potrebbe essere sintetizzato il conflitto che ha visto contrapposti in Italia (prima) e in Lussemburgo (poi) da un lato stakeholders interessati a caducare un regime fiscale asseritamente distorsivo e favorevole agli istituti religiosi (la detassazione ai fini ICI riservata agli immobili ecclesiastici), e dall’altro chi invece in quella previsione trovava riconoscimento di una giusta diversità degli enti in questione. Per vero, va da subito chiarito che l’esenzione in parola non si applicava solo agli enti di ispirazione religiosa, ma anche a molti altri che svolgevano attività economiche «con modalità non esclusivamente commerciali».
È presto per dire se questa possa essere considerata davvero l’ultima pagina di un dibattito che ha attirato l’attenzione pubblica (in un mix esplosivo di religione e tasse) come pochi altri, ma di per certo il Tribunale dell’Unione aiuta a mettere ordine sul tema, e lo fa con una decisione equilibrista a cavallo fra diritto ed esigenze di effettività.
In sintesi, gli istituti religiosi italiani che svolgevano anche attività commerciale non esclusiva (il riferimento è essenzialmente all’attività formativa ed educativa), negli anni fino al 2012, hanno beneficiato di un regime fiscale favorevole per quanto riguarda la tassazione immobiliare (l’ICI), e questo sistema di favore ha costituito un aiuto incompatibile con il diritto dell’Unione europea, distorsivo della libera concorrenza, falsatore del mercato comune e qualificato da inaccettabili asimmetrie. A rigore e al di là delle semplificazioni giornalistiche (a volte arbitrarie), tale regime trovava applicazione agli immobili destinati tra l’altro alle attività di cui all’art. 16 lettera (a) l. 222 del 1985 e il regime fiscale in parola trovava espressa regolamentazione all’art. 7, co. 1, lett. (i) del D. lgs. 504 del 1992.
Il nuovo sistema di tassazione immobiliare, invece, è perfettamente compatibile con il diritto UE perché ha mostrato di ovviare alle maggiori distorsioni di quello precedente (limitando i benefici solamente agli enti non commerciali che svolgono la loro attività con modalità effettivamente non commerciali).
Dall’accertamento dell’aiuto non compatibile con il diritto UE non scaturisce però la necessità per l’Italia di provvedere al recupero. Non si tratta di una graziosa concessione da parte della Commissione europea (e confermata dall’autorità giurisdizionale), quanto di una possibilità (peraltro non frequentissima nella giurisprudenza della Corte di giustizia) prevista laddove l’effettivo recupero sia impossibile ovvero straordinariamente difficile.
Insomma, per quanto riguarda il passato, violazione c’è stata, ma da essa non scaturiscono conseguenze. Per quanto concerne il presente e il futuro, invece, nessuna censura può essere mossa alle scelte del legislatore italiano e alle interpretazioni che di quelle scelte la prassi si è voluta fare portatrice.
Si tratta di una conclusione che ha acceso indubbiamente gli animi dei primi commentatori, su un tema che difficilmente si presta a una valutazione serena e scevra da preconcetti in un senso o nell’altro.
Per provare a offrire un inquadramento al lettore è necessario partire dall’inizio della vicenda: dall’anno 2006 nel quale la maggior parte dei nodi sono venuti al pettine per poi passare rapidamente al 2012, altro snodo centrale del conflitto. È infatti al 2012 che risale la decisione della Commissione europea che è stata oggetto di impugnazione dinanzi al Tribunale, e che da quest’ultimo è stata invece confermata.
Dal 1992 una serie di enti non commerciali italiani (fra i quali indubbiamente anche quelli di natura religiosa) hanno potuto beneficiare di una esenzione dell’imposta sui loro immobili «a prescindere dalla natura eventualmente commerciale dell’attività» ivi svolta, purché non esclusiva. Dal punto di vista quantitativo, i casi più ricorrenti erano quelli delle scuole partitarie.
La distinzione fra attività “commerciale” e “non commerciale” è stata tradizionalmente oggetto di ampio dibattito fra i giuristi nel diritto tributario: una discussione forse neppure oggi del tutto sopita. Ad ogni modo, cartina al tornasole della commercialità o meno di un ente era normalmente considerato l’art. 149 del Testo unico delle imposte dirette (n. 917/86), che forniva (e fornisce ancora) una serie di criteri in base ai quali accertare la ricorrenza di tale caratteristica ai fini fiscali.
La bussola dell’articolo 149, tuttavia (e questo è forse l’autentico pomo della discordia), non si applica agli enti religiosi (e per il vero anche alle associazioni sportive dilettantistiche) per i quali invece i criteri sono altri, così come il controllo della loro sussistenza.
È la disciplina riguardante il sostentamento della Chiesa in Italia, di derivazione dall’Accordo di modifica del Concordato lateranense dell’11 febbraio 1929 (o meglio del suo protocollo del 15 novembre 1984) ad attribuire il potere di controllo sulla natura non commerciale degli enti religiosi al Ministero dell’Interno, che opera sulla base di criteri di legge che quei Patti, e poi la legge nazionale che ne ha dato attuazione, hanno individuato (il riferimento a questo sistema di controllo è chiarito nei punti 119 e 120 della sentenza).
Insomma, questo è il punto in questione: gli enti religiosi potevano continuare ad essere considerati non commerciali anche quando, coeteris paribus, un ente diverso (laico) forse non lo sarebbe stato. Questa permanenza nell’alveo della non commercialità avrebbe recato con sé la possibilità di beneficiare di una esenzione ICI che agli altri, invece, non era possibile. Concludendo, per dirla parafrasando George Orwell, tutti gli enti non commerciali erano uguali, ma alcuni lo erano più degli altri.
Il legislatore italiano, con il passaggio da ICI a IMU, si è avveduto che quella distinzione non poteva più reggere alla prova dei fatti, e ha fatto così venire meno la precisazione riguardante l’attività in forma commerciale che … permaneva non commerciale se svolta dall’ente religioso. Con il passaggio alla nuova imposta immobiliare ha fatto anche cessare la ragione del contendere, o almeno ha tolto molte frecce all’arco di chi quella soluzione criticava.
Restava tuttavia il pregresso: un sistema di (de)tassazione fondato su di una ambiguità espressiva delle norme tributarie e su di un intreccio (pericoloso) fra legislazione nazionale, principi comunitari e trattati internazionali fra Italia e Santa Sede.
Il rischio più evidente in questa situazione era quello di portare il Tribunale a decidere in un contesto di potenziale conflitto fra norme costituzionali, Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, clausola di sopravvivenza per gli accordi ad esso previgenti e da ultimo necessità di valutare in questa dimensione i diversi accordi raggiunti dalla Repubblica italiana (prima e dopo il Trattato di Roma, con possibile applicazione dell’art. 351 TFUE).
È un rischio che il Tribunale ha magistralmente evitato (punto 126), osservando come in questo caso il controllo (effettivo) esercitato dal Ministero dell’Interno ben poteva essere considerato sufficiente per poter “premiare” con lo status di ente non commerciale quegli enti religiosi che autenticamente si caratterizzavano come tali. Nessuna rottura costituzionale quindi, nessuna pericolosa tensione fra i patti bilaterali e il diritto dell’Unione.
È vero che il trattamento fiscale era risultato essere distorsivo nei fatti, ma la regolamentazione bilaterale poteva essere considerata salva: restava da porre rimedio agli effetti.
La disciplina sugli aiuti di Stato è sicuramente una delle più stringenti all’interno del diritto dell’Unione, a presidio com’è dell’efficienza del mercato comune e, in pratica, della sua ragion d’essere. Senza divieto agli aiuti di Stato, parlare di libera concorrenza e di level playing field è, semplicemente, un nonsense.
Per questo motivo, una volta accertati i requisiti per poter considerare una misura come aiuto incompatibile con il Trattato (in quanto non autorizzato, selettivo ed effettivamente distorsivo nella concorrenza nell’Unione) non solamente il Paese deve rimuovere la norna incriminata, ma deve anche sterilizzare ex post gli effetti distorsivi della misura. Il che non vuole dire, si badi bene, eradicare l’aiuto, ma semplicemente rimuovere i vantaggi economici da esso generati.
Sul punto la dottrina è copiosissima, e anche la giurisprudenza della Corte ha avuto modo di precisare il tema. Si pensi ad esempio ad una impresa che, grazie a un aiuto poi giudicato inammissibile abbia evitato lo stato di insolvenza. Rimuovere l’aiuto non significa condurre, ex lege, quell’impresa al fallimento (al quale sarebbe sicuramente giunta senza la misura), ma semplicemente rimuovere ex post il vantaggio economico del quale la stessa ha beneficiato.
Insomma, non soltanto la disciplina degli aiuti si caratterizza per una forte trasversalità, ma anche le procedure di claw back degli stessi risultano particolarmente articolate. In linea tendenziale, tuttavia, resta fermo il principio: lo Stato deve recuperare quanto ha erogato. Incerto è il quantum, certo l’an.
Orbene, in alcune ipotesi dall’accertamento dell’aiuto non conseguono obblighi per il Paese: si tratta dei casi in cui il recupero stesso diviene o impossibile o straordinariamente difficile stante la difficoltà nel tracciare i soggetti che da esso hanno avuto beneficio … o in ragione del decorso del tempo.
Apparentemente, nel caso in questione, ricorrevano entrambe queste condizioni. Nonostante la strenue difesa del ricorrente al Tribunale, la Commissione (e l’Italia, che si è costituita sostenendo nel frattempo la posizione di quest’ultima) ha avuto buon gioco nell’osservare che, anche attualmente, la banca dati catastale non è in grado di rilevare la destinazione specifica di un immobile (in tutto o in parte) e che il decorso del tempo non rende operativamente possibile una attività istruttoria e di verifica sul campo (i cui costi sarebbero comunque sicuramente sensibili).
Non sarebbe dunque possibile scoprire chi abbia tratto benefici dall’ingiusta esenzione IMU.
Il quadro che si ottiene dalla lettura della sentenza del Tribunale è nel senso di archiviare una situazione che si dà oramai per esaurita, osservando che per il futuro la normativa IMU rimuove le storture di cui si è dato conto: una sanatoria, forse, senza recupero dell’aiuto invero infrequente nel diritto dell’Unione, ma che in questo caso sembra poter trovare giustificazione in una situazione di fatto difficilmente criticabile.
Dall’orientamento del Tribunale emergono sia conferme di orientamenti pregressi, che spunti originali
Fra i primi va annoverato il tema della ricorribilità diretta da parte di un terzo leso dalla disciplina nazionale senza che questa si traduca in un provvedimento direttamente pregiudizievole per quest’ultimo (il caso era stato introdotto in Tribunale da un istituto scolastico che si era visto leso nella sua “attrattività” studentesca dalla concorrenza di istituti formativi di matrice religiosa che non scontavano l’ICI, prima, e tutta l’IMU, poi).
Fra i secondi il principio secondo il quale la Commissione stessa possa valutare ex ante, ed unilateralmente, l’impossibilità di recupero dell’aiuto erogato e quindi sollevare lo Stato dall’onere della prova in questo senso.
Tradizionalmente, l’impossibilità del recupero è dichiarata dallo Stato e poi validata dalla Commissione europea. È cioè il Paese che deve dimostrare alla Commissione che, nel caso di specie, per le particolari circostanze che si sono verificate, procedere al recupero dell’aiuto erroneamente erogato è impossibile ovvero sproporzionatamente difficile. Sulla base delle allegazioni del Paese, poi, la Commissione effettua le sue valutazioni confermando la conclusione ovvero sanzionando lo Stato per inadempimento.
Nel caso dell’ICI e degli enti religiosi, invece, è la Commissione, nell’ambito della sua decisione, che ha unilateralmente accertato l’impossibilità per il nostro Paese di procedere in questo senso, e conseguentemente ha sollevato la Repubblica italiana anche solo dall’obbligo di tentare il recupero o di allegare ulteriori prove a conferma di tale impossibilità.
I lettori più attenti ai risvolti politici della sentenza hanno potuto leggere in questa resa ex ante quasi una volontà di garantire all’Italia un commodus discessus anche avuto riguardo alla natura del soggetto interessato maggiormente alla disciplina in questione e al quale gli enti formativi facevano (e fanno ancora) riferimento.
Se però si libera l’analisi da argomentazioni fondate su precondizioni ideologiche non si può non convenire sul fatto che la posizione assunta dalla Commissione e poi validata dal Tribunale risulti essere del tutto coerente con quei vincoli di imparzialità e di buon andamento dell’Amministrazione che sono diritti fondamentali riconosciuti in una dimensione europea e sicuramente applicabili anche all’amministrazione dei tributi, ma che, in modo del tutto coerente, l’Unione rivolge prima di tutto verso se stessa nella prospettiva dell’articolo 41 della Carta UE dei diritti fondamentali.
Imporre all’Italia un tentativo di recupero o un’ulteriore attività istruttoria e probatoria volta a dimostrare ciò che già evidente era, pareva essere un fuor d’opera che non avrebbe fatto altro che prolungare ancora una volta questa “Guerra dei dieci anni” dalla quale si cerca finalmente di uscire, un passo alla volta.
Resta ancora aperto il capitolo riguardante la qualificazione (commerciale o meno) dell’attività condotta da molti enti di ispirazione religiosa ai fini delle imposte dirette, come la giurisprudenza evidenzia in diverse decisioni riprese dalla prassi ministeriale a conferma delle proprie (restrittive) tesi. Si tratta tuttavia di un fronte che riguarda l’applicazione dell’aliquota ridotta IRES per il calcolo del tributo dovuto, e che solo in parte insiste sui profili sin qui trattati.
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