Mercato, fiscalità, sovranità: il trattamento fiscale di Apple in Irlanda
Giulia Rossolillo, Università di Pavia
Con decisione del 30 agosto 2016 (v. Comunicato stampa della Commissione europea) la Commissione europea ha dichiarato contrari alle norme in materia di aiuti di Stato i vantaggi fiscali concessi dall’Irlanda ad Apple dal 2003 al 2013, disponendo il recupero di una somma pari a 13 miliardi di euro più interessi.
La decisione, adottata a conclusione di un’indagine avviata nel giugno 2014 (v. Lettera della Commissione con la quale si comunica l’avvio della procedura ex art. 108.2 TFUE), fa riferimento a due ruling fiscali adottati dall’Irlanda nei confronti di due società del gruppo, che hanno di fatto consentito ad Apple di eludere il pagamento delle imposte sulla quasi totalità degli utili generati dalla vendita dei sui prodotti in tutto il mercato unico.
I due ruling riguardavano Apple Sales International e Apple Operations Europe, due società di diritto irlandese detenute al 100% dal gruppo Apple sotto il controllo della società madre statunitense. In particolare, le vendite di Apple erano organizzate in Europa in modo che contrattualmente i clienti acquistassero i prodotti da Apple Sales International in Irlanda, e non invece dai negozi che li vendevano materialmente, affinché tutti gli utili derivanti dalle vendite stesse fossero registrati direttamente in tale Paese. Sulla base dei ruling fiscali sopra citati, poi, la maggior parte degli utili non veniva assegnata in Irlanda, ma a una “sede centrale” di Apple Sales International, che in realtà non era ubicata in alcun Paese, né aveva dipendenti o uffici propri: gli utili assegnati alla “sede centrale” non erano in questo modo tassati in alcuno Stato. Per dare un ordine di grandezza dei profitti non tassati, la Commissione cita i dati comunicati durante le audizioni pubbliche del Senato USA relative al 2011: in quell’anno Apple Sales International ha registrato utili per circa 16 miliardi di euro, dei quali solo 50 milioni di euro erano considerati imponibili in Irlanda sulla base degli accordi sopra citati. L’aliquota effettiva applicata ad Apple Sales International in quell’anno corrispondeva dunque allo 0,05% dei suoi utili annuali complessivi. Negli anni successivi, data la crescita degli utili registrati da Apple Sales International alla quale non ha corrisposto una crescita degli utili tassabili in Irlanda, tale aliquota è diminuita ulteriormente, fino a scendere allo 0,005% nel 2014. Di un regime fiscale analogo ha potuto beneficiare Apple Operations Europe, responsabile della fabbricazione di alcune linee di computer per il gruppo Apple.
Le norme UE in materia di aiuti di Stato (artt. 107-109 TFUE) hanno lo scopo di evitare che uno Stato membro riservi a determinate imprese un trattamento di favore, violando in questo modo il principio della libera concorrenza. Ora, i ruling fiscali emanati dall’Irlanda nei confronti di Apple hanno prodotto secondo la Commissione esattamente questo effetto: l’assegnazione della maggior parte degli utili a una “sede centrale” fittizia consentiva infatti ad Apple di versare molte meno imposte rispetto alle altre imprese.
La decisione in commento ha suscitato scalpore non solo per l’ammontare elevatissimo della somma da recuperare, dovuto all’effetto retroattivo della decisione, ma anche per il dibattito che ne è derivato in Irlanda. Pur rappresentando la somma in questione una quota rilevante del PIL irlandese, il governo irlandese ha annunciato infatti di voler presentare ricorso contro la decisione della Commissione insieme ad Apple, per il timore di perdere il suo ruolo di paradiso fiscale per le multinazionali, con gli svantaggi in termini di introiti fiscali e di posti di lavoro che ne deriverebbero.
Al di là dei risvolti futuri della vicenda, la decisione della Commissione solleva due ordini di questioni generali di non poco conto.
La prima questione concerne il problema della tassazione dei gruppi multinazionali e dello sfruttamento da parte di questi delle opportunità offerte dal mercato unico europeo a fini di elusione fiscale. Come sottolineato dalla Commissione nella Comunicazione “Un regime equo ed efficace per l’imposta societaria nell’Unione europea: i 5 settori principali d’intervento” del 17 giugno 2015, le norme nazionali in materia di tassazione delle società, concepite in un’epoca nella quale le attività transfrontaliere erano limitate e le multinazionali erano per lo più imprese industriali che vendevano beni materiali, si rivelano oggi inadatte a un contesto economico “globalizzato, mobilizzato e digitalizzato”. In tale contesto, data la sempre maggiore complessità delle strutture societarie, a fronte di una estrema facilità nel trasferire gli utili dell’impresa da uno Stato all’altro, è divenuto estremamente difficile stabilire a quale paese spetti il compito di tassare il reddito di una multinazionale. In un regime caratterizzato da 28 regimi fiscali differenti, da un lato, dunque, talune multinazionali spostano gli utili verso Stati membri nei quali l’imposizione fiscale è minima; dall’altro, si viene a creare una vera e propria concorrenza fiscale tra Stati membri che, riducendo le proprie aliquote dell’imposta sulle società, tentano di proteggere la loro base imponibile e di attrarre investimenti diretti esteri.
Ora, la concorrenza fiscale tra Stati membri non è vietata dal diritto dell’Unione europea, trattandosi anzi di un effetto dell’operare delle libertà di circolazione previste dai Trattati. Ad essere vietati sono invece quei comportamenti sia delle imprese che sfruttano abusivamente le libertà di circolazione, sia degli Stati membri che non si limitano a stabilire aliquote basse per le imprese operanti sul loro territorio, bensì concedono ad alcune imprese un trattamento fiscale di favore, ostacolando in tal modo la concorrenza.
Quanto al primo aspetto, come sottolineato a più riprese dalla Corte di giustizia (sentenze Halifax, parr. 68 e 69; e Cadbury Schweppes, parr. 50 e 51), lo sfruttamento delle libertà economiche previste dai Trattati non può spingersi fino a comprendere operazioni realizzate non nell’ambito di transazioni commerciali normali, ma realizzate solo allo scopo di beneficiare abusivamente, attraverso costruzioni puramente fittizie, dei vantaggi previsti dal diritto dell’Unione. Quanto al secondo, la possibilità per alcune imprese di beneficiare di un trattamento fiscale di favore contrasterebbe – come sostiene la Commissione nel caso in esame – con il divieto di aiuti di Stato.
Non va tuttavia dimenticato che la concorrenza fiscale tra Stati, pur legittima, implica anche alcuni rischi. Innanzitutto, come nota la Commissione, «per controbilanciare l’impatto delle minori aliquote dell’imposta societaria e dell’elusione fiscale delle società, alcuni governi hanno […] aumentato il carico fiscale gravante sulle società meno mobili e sul lavoro. Ciò compromette l’efficienza e la capacità dei loro regimi fiscali di creare condizioni favorevoli alla crescita». In secondo luogo, l’esistenza di regimi fiscali differenti nei diversi Stati membri rende difficile per le imprese che non vogliano sfruttare abusivamente tali differenze, bensì mirino semplicemente ad esercitare la propria attività sul territorio di più Stati membri, muoversi in un quadro giuridico chiaro. Come sottolineato dalla stessa Apple in una lettera inviata alla Comunità Apple in Europa, «Apple has long supported tax reform with the objectives of simplicity and clarity».
La soluzione avanzata da tempo dalla Commissione per far fronte a tale ultimo problema consiste in un’armonizzazione minima in materia di imposta sulle società (proposta sulla base imponibile consolidata comune per l’imposta sulle società), ferma tuttavia in Consiglio per l’impossibilità di raggiungere l’unanimità richiesta dall’articolo 115 TFUE. La vicenda Apple/Irlanda potrebbe da questo punto di vista aver prodotto un effetto positivo: i tempi della presentazione di una nuova proposta in materia, già annunciata nella Comunicazione della Commissione sopra citata, subiranno probabilmente un’accelerazione sotto la spinta della vicenda in oggetto. Se si riusciranno a superare le probabili resistenze di alcuni Stati membri, si dovrebbe dunque giungere non tanto a stabilire a livello europeo delle aliquote comuni, la cui determinazione rimarrebbe invece di competenza degli Stati membri, quanto a fissare una base imponibile comune e una formula, basata sul luogo nel quale sono generati gli utili, che consenta di stabilire quanti profitti tassare in un Paese e quanti in un altro.
La vicenda Apple/Irlanda, tuttavia, pone in primo piano anche un’altra questione sostanziale di carattere strutturale: la questione della sovranità degli Stati membri in materia fiscale. Si tratta di un punto messo in luce nella stessa lettera di Apple sopra citata, laddove si sottolinea che la decisione della Commissione «would strike a devastating blow to the sovereignty of EU member states over their own tax matter».
La materia, essendo strettamente collegata all’essenza della sovranità statale e sollevando il problema della legittimazione democratica, pone la discussione su un terreno particolarmente delicato e complesso. È dunque opportuno distinguere le limitazioni della sovranità fiscale degli Stati membri conseguenti all’appartenenza al mercato unico da quelle derivanti dall’Unione economica e monetaria e dalla rinuncia alla propria moneta nazionale.
Per quanto riguarda il primo aspetto, va sottolineato che, se da un punto di vista teorico gli Stati membri possono determinare autonomamente la loro politica fiscale, non essendo questa stata trasferita a livello europeo, in concreto una piena autonomia degli Stati in tale materia si rivela incompatibile con l’esistenza di un mercato unico. In effetti, l’eliminazione degli ostacoli alle libertà di circolazione tra Stati membri e la creazione di un mercato nel quale la libera concorrenza sia pienamente realizzata comportano che siano sottoposte al vaglio delle istituzioni dell’Unione tutte le misure nazionali, comprese quelle adottate in ambito fiscale, suscettibili di ostacolare il raggiungimento di tali obiettivi (v. Corte di giustizia, sentenze Wielockx e Kerckhaert/Morres). Pur rimanendo dunque gli Stati membri liberi di determinare le scelte essenziali della loro politica fiscale, le normative nazionali in tale materia dovranno rispettare il principio di non discriminazione, e dunque non costituire un ostacolo, diretto o indiretto, alle libertà di circolazione, né costituire un aiuto di Stato vietato dai Trattati (v. per tutti Jansen).
Ben più complesso è invece il discorso relativo ai limiti imposti dall’appartenenza all’Unione monetaria. In questo caso, infatti, è la stessa capacità degli Stati membri di decidere autonomamente gli orientamenti generali della loro politica fiscale e di bilancio ad essere messa in discussione. La decisione presa a Maastricht di trasferire a livello sovranazionale la competenza in materia monetaria mantenendo a livello nazionale quella in materia economica e di bilancio ha comportato in effetti che si prevedessero meccanismi di coordinamento tra le politiche economiche degli Stati membri, non essendo concepibile un’unione monetaria tra Stati che gestiscano le loro politiche economiche e fiscali in modo del tutto divergente. Gli Stati membri si impegnano così a mantenere prezzi stabili, finanze pubbliche e condizioni monetarie sane e bilance dei pagamenti sostenibili (art. 119, par. 3, TFUE), e a rispettare i parametri stabiliti nel Patto di stabilità e crescita. Ora, la crisi economica e finanziaria degli ultimi anni e il rischio di un dissolvimento dell’unione monetaria hanno spinto gli Stati membri e le istituzioni dell’Unione e rafforzare tali strumenti di coordinamento e ad andare nella direzione di indicare in modo sempre più puntuale agli Stati le riforme da attuare per rispettare i parametri stabiliti ed evitare il rischio di shock asimmetrici: le raccomandazioni specifiche per Paese nell’ambito del Semestre europeo o le raccomandazioni di Commissione e Consiglio nell’ambito della procedura per gli squilibri macroeconomici – per limitarsi a citare alcune delle misure adottate in seguito alla crisi – possono spingersi in effetti fino ad indicare a uno Stato membro come riformare il proprio sistema pensionistico, quali interventi mettere in atto nel mercato del lavoro, come reperire ed utilizzare risorse fiscali. Gli Stati della zona euro, privati della possibilità di compiere scelte autonome di politica monetaria, rischiano dunque di veder ristretta entro limiti molto stringenti anche la loro capacità di determinare gli orientamenti della loro politica economica, fiscale e di bilancio e di trovarsi in un vicolo cieco, contemporaneamente sottoposti a regole necessarie per mantenere in piedi un’unione monetaria incompleta, ma impossibilitati, per mancanza di risorse e di margini di manovra, a rispettarle.
Il tentativo di preservare la sovranità statale mantenendo le competenze in materia di politica economica e fiscale a livello nazionale rischia in sostanza di trasformarsi in un boomerang e costituire la scelta più pregiudizievole per la sovranità fiscale degli Stati membri (Hinarejos, spec. p. 1634 ss.), mentre ancora lontana sembra la volontà di dar vita a una capacità di bilancio dell’eurozona che, attraverso risorse fiscali raccolte a livello sovranazionale, sia in grado di far fronte agli squilibri fra Stati e di completare l’Unione economica e monetaria.
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