Mutuo riconoscimento e principio della protezione equivalente (Bosphorus): riflessioni a margine della sentenza della Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Avotiņš c. Lettonia
Ornella Feraci, Assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Siena
- Premessa
Con sentenza dello scorso 23 maggio 2016, la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo si è pronunciata sulla tutela «indiretta» dei principi dell’equo processo nell’ambito di un giudizio di riconoscimento ed esecuzione di una sentenza straniera disciplinato dal diritto dell’Unione europea. La decisione traeva origine dal rinvio proposto dal ricorrente del procedimento ai sensi dell’art. 43 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) a seguito della sentenza resa il 25 febbraio 2014 dalla Quarta Sezione (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza Avotiņš c. Lettonia, ricorso n. 17502/07), con la quale la Corte, a maggioranza dei suoi membri, aveva escluso che i giudici lettoni avessero violato le garanzie processuali dell’art. 6, par. 1, CEDU in sede di concessione dell’exequatur ad una decisione contumaciale cipriota (su quest’ultima decisione mi permetto di rinviare ad un mio precedente commento).
La questione posta all’esame della Corte ha consentito, per la prima volta, alla Grande Camera di valutare l’osservanza dell’art. 6, par. 1, CEDU nel contesto del mutuo riconoscimento delle decisioni (civili) straniere nello spazio giudiziario europeo, così come disciplinato dal diritto dell’Unione europea, in particolare dal regolamento (CE) n. 44/2001 concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni nella materia civile e commerciale (cd. «Bruxelles I»), oggi interamente sostituito dal regolamento (UE) n. 1215/2012 (cd. «Bruxelles I-bis»). Più in generale, la decisione della Grande Camera offre l’occasione per riflettere sull’operatività della presunzione di equivalenza della tutela dei diritti fondamentali assicurata dal diritto dell’Unione europea rispetto a quella garantita dalla Convenzione quale risultante dalla nota sentenza Bosphorus (cfr. sentenza della Grande Camera del 30 giugno 2005, Bosphorus Hava Yolları Turizm ve Ticaret Anonim Şirketi c. Irlanda, ricorso n. 45036/98; su di essa si vedano i commenti di Cannizzaro e Ciampi) in settori del diritto dell’Unione condizionati dal rispetto del principio della fiducia reciproca tra Stati membri. Questa nuova prospettiva consente di valutare se e a quali condizioni l’esigenza di osservare un obbligo derivante dall’appartenenza di uno Stato contraente ad un’organizzazione regionale di carattere sovranazionale, alla quale quest’ultimo abbia ceduto una parte della propria sovranità, quale l’obbligo di garantire il principio della libera circolazione delle decisioni straniere nella materia civile e commerciale – nell’osservanza dei soli vincoli derivanti dai motivi di diniego dell’esecuzione stabiliti in modo uniforme e tassativo dal diritto dell’Unione europea – possa costituire un’interferenza lecita rispetto alle garanzie dell’art. 6, par. 1, CEDU. Ciò assume una particolare rilevanza se si considera anche che la sentenza in esame rappresenta la prima reazione della Grande Camera al parere 2/13 (Corte di giustizia, parere 2/13 del 18 dicembre 2014 sul progetto di accordo di adesione dell’Unione alla CEDU, ECLI:EU:C:2014:2454) con il quale, com’è noto, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha dichiarato incompatibile con le caratteristiche e peculiarità del diritto dell’Unione il progetto di accordo di adesione dell’Unione alla CEDU (su di esso si vedano i commenti di Vezzani e Rossi pubblicati su questo blog).
Non si tratta, in verità, del primo caso in cui la Corte europea dei diritti dell’uomo è stata chiamata a pronunciarsi sull’interazione tra il livello di protezione dei diritti fondamentali risultante dall’applicazione del principio Bosphorus in una fattispecie disciplinata dal diritto dell’Unione e il principio del mutuo riconoscimento operante, a livello europeo, nell’ambito della cooperazione giudiziaria in materia civile. Già nel caso Povse c. Austria (sentenza del 18 giugno 2013, ricorso n. 3890/11, Sofia Povse e Doris Povse c. Austria), infatti, la Corte di Strasburgo aveva verificato la compatibilità con la CEDU della decisione con la quale le autorità giurisdizionali austriache avevano riconosciuto l’immediata esecutività di un provvedimento giurisdizionale italiano che ordinava il ritorno di un minore vittima di sottrazione internazionale, in base al regolamento (CE) n. 2201/2003 concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni nella materia matrimoniale e responsabilità parentale (c.d. “Bruxelles II-bis”). In tale occasione, tuttavia, la censura mossa dal ricorrente investiva la compatibilità di un’ipotesi particolare di abolizione dell’exequatur con il diritto alla tutela della vita privata e familiare sancito dall’art. 8 CEDU. In base all’art. 42 del regolamento Bruxelles II-bis, infatti, alcuni provvedimenti che prescrivono il ritorno del minore devono essere dichiarati immediatamente esecutivi negli altri Stati membri, senza che sia necessaria una dichiarazione di esecutività e senza che sia possibile opporsi al loro riconoscimento, allorché essi siano stati muniti di un certificato da parte dell’autorità di origine, a titolo di garanzia del rispetto dei diritti di difesa nel procedimento a quo. Nel caso Povse c. Austria, pertanto, la questione all’esame della Corte europea dei diritti dell’uomo implicava valutazioni sulle condizioni stabilite per le ingerenze consentite dall’art. 8, par. 2, della CEDU, in particolare, sul possibile superamento del principio Bosphorus in sede di valutazione del requisito della necessità «in una società democratica» dell’interferenza per il raggiungimento degli obiettivi consentiti dal paragrafo secondo della medesima disposizione.
- I fatti di causa e il giudizio dinanzi alla quarta sezione della Corte di Strasburgo
La vicenda concreta riguardava la dichiarazione di esecutività (exequatur) rilasciata in conformità al regolamento (CE) n. 44/2001 dall’autorità giurisdizionale lettone (Senato della Suprema Corte) rispetto ad una sentenza contumaciale cipriota che aveva condannato un cittadino lettone, Sig. Avotiņš, al pagamento di una somma di denaro in favore di una società cipriota. In particolare, il giudice d’origine (Limassol District Court), che era stato adito sulla base di una clausola di scelta del foro contenuta nell’atto di ricognizione del debito sottoscritto dal ricorrente, aveva ordinato al Sig. Avotiņš, promotore finanziario residente a Garkalne (nel distretto di Riga), di pagare il debito contrattuale contratto a Cipro in forza di un contratto di prestito concluso con una società locale unitamente agli interessi maturati e alle spese legali dei procedimenti giudiziari. Il debitore era rimasto tuttavia contumace nel giudizio nello Stato di origine a causa di un difetto procedurale occorso al momento dell’instaurazione del giudizio di accertamento della responsabilità contrattuale che aveva impedito, a suo dire, l’esercizio dei suoi diritti di difesa: la notifica della domanda giudiziale, infatti, era stata effettuata presso un indirizzo in Lettonia ove quest’ultimo non aveva potuto prendere effettiva conoscenza del procedimento.
Conclusosi il processo a Cipro con una decisione di condanna nei confronti dell’Avotiņš, la società attrice aveva quindi attivato un procedimento in Lettonia per ottenere la dichiarazione di esecutività della decisione, in conformità alle procedure stabilite dal regolamento Bruxelles I, allora applicabile ratione temporis alla fattispecie. Dopo una prima pronuncia negativa dell’autorità giurisdizionale locale (Riga Regional Court) resa nell’ambito della seconda fase, in contraddittorio, della procedura prescritta dal regolamento, il Senato della Corte suprema lettone, dinanzi al quale la società cipriota aveva infine proposto ricorso, aveva annullato la precedente decisione dichiarando così eseguibile il provvedimento straniero. Valorizzando la circostanza che la sentenza cipriota era ormai divenuta definitiva, il supremo giudice lettone aveva motivato la propria decisione sulla base della mancata impugnazione della decisione de qua nello Stato membro di origine («As [the applicant] did not appeal against the judgment, his lawyer’s submissions to the effect that he was not duly notified of the examination of the case by a foreign court lack relevance»). La possibilità di far valere direttamente nello Stato membro di origine i vizi legati alla tutela dei diritti di difesa del convenuto contumace è concepita, infatti, dall’art. 34 n. 2 del regolamento Bruxelles I come limite al diniego di riconoscimento e esecuzione di una decisione contumaciale straniera al fine di sanzionare l’eventuale negligenza del convenuto contumace nello Stato d’origine. Secondo tale disposizione, infatti, il riconoscimento o l’esecuzione di una sentenza straniera ricadente nel campo di applicazione dello strumento può essere negato qualora «la domanda giudiziale od un atto equivalente non è stato notificato o comunicato al convenuto contumace in tempo utile e in modo tale da poter presentare le proprie difese eccetto qualora, pur avendone avuto la possibilità, egli non abbia impugnato la decisione». A questo riguardo, la Corte di giustizia ha chiarito che il convenuto contumace ha la “possibilità” di impugnare ai sensi dell’art. 34 n. 2 del regolamento (CE) n. 44/2001 «[…] solo se abbia avuto effettivamente conoscenza del contenuto della decisione, mediante notificazione o comunicazione effettuata in tempo utile per consentirgli di presentare le sue difese dinanzi al giudice dello Stato di origine» (così Corte di giustizia, sentenza del 14 dicembre 2006, ASML Netherlands BV c. Semiconductor Industry Services GmbH, causa C-283/05, par. 49).
Soltanto in sede di exequatur, dunque, l’Avotiņš aveva appreso dell’esistenza della sentenza cipriota e del relativo procedimento di esecuzione in Lettonia. Pertanto, ritenendo di aver subito un’indebita lesione dei propri diritti di difesa, questi aveva promosso un ricorso dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo lamentando la violazione dei principi dell’equo processo sanciti dall’art. 6, par. 1, CEDU sia da parte delle autorità cipriote al momento dello svolgimento del giudizio di origine (violazione “diretta” della Convenzione) sia da parte delle autorità lettoni al momento della concessione dell’exequatur in base alla disciplina contenuta nel regolamento Bruxelles I (violazione “indiretta” o par ricochet della Convenzione; sulla rilevanza dell’art. 6, par. 1, CEDU in relazione all’efficacia delle decisioni straniere si vedano: Lopes Pegna).
Nell’ambito del giudizio svoltosi dinanzi alla quarta sezione, la Corte di Strasburgo aveva, innanzitutto, dichiarato irricevibile la censura mossa nei confronti di Cipro a causa della tardiva proposizione del ricorso, non essendo stato osservato il requisito temporale dei sei mesi prescritto dall’art. 35, par. 1, della Convenzione. Non disponendo, pertanto, di competenza ratione personae per pronunciarsi sull’osservanza degli obblighi convenzionali da parte delle autorità cipriote, la Corte si era quindi limitata a valutare se il giudice dello Stato membro richiesto lettone avesse dichiarato eseguibile la sentenza cipriota dopo aver debitamente verificato il rispetto dei principi dell’equo processo nell’ambito del giudizio di origine. Tale obbligo di verifica, infatti, si impone alle autorità giurisdizionali degli Stati contraenti anche nei rapporti con altri Stati contraenti, in analogia con il principio espresso dalla Corte di Strasburgo nella sentenza Pellegrini c. Italia (sentenza del 20 luglio 2001, ricorso n. 30882/96, parr. 40-41) in relazione al riconoscimento e all’esecuzione di una decisione resa dalle autorità giurisdizionali di uno Stato non contraente. Nella giurisprudenza successiva la Corte di Strasburgo ha poi confermato, in via generale, l’applicabilità dell’art. 6, par. 1, CEDU ai giudizi di esecuzione delle decisioni straniere passate in giudicato formale (cfr. ex multis, Corte europea dei diritti dell’uomo, Wagner e J.M.W. L. c. Lussemburgo, ricorso n. 76240/01, sentenza del 28 giugno 2007; McDonald c. Francia, ricorso n. 18648/04, decisione del 29 aprile 2008; Vrbica c. Croazia, ricorso n. 32540/05, sentenza del 1 aprile 2010; Sholokhov c. Armenia e Moldova, ricorso n. 40358/05, sentenza del 31 luglio 2012).
La quarta sezione aveva escluso la violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU sulla base di due argomentazioni. In primo luogo, fondandosi sulla giurisprudenza Bosphorus, aveva sbrigativamente rammentato che il livello di protezione dei diritti fondamentali garantito nell’Unione europea deve ritenersi equivalente a quello imposto dalla Convenzione (par. 47 della sentenza) e che il rispetto degli obblighi derivanti dall’appartenenza dello Stato convenuto all’Unione, quale l’obbligo di dare esecuzione ad un regolamento sul diritto internazionale privato e processuale, costituisce una questione di interesse generale (par. 49 della sentenza). Pertanto, le autorità giurisdizionali lettoni avevano dato corretta attuazione all’obbligo prescritto dal diritto europeo di assicurare una rapida ed efficace esecuzione della decisione cipriota in Lettonia, così come richiesto dal principio della fiducia reciproca tra gli Stati membri. In secondo luogo – sulla base di considerazioni meno limpide rispetto ai poteri conferiti al proprio sindacato – la Corte di Strasburgo aveva ravvisato che il ricorrente avrebbe dovuto prevedere le conseguenze processuali del proprio inadempimento alla luce del tenore degli impegni contrattuali assunti con la controparte e avrebbe potuto informarsi, anche tramite l’assistenza di un legale, sui rimedi processuali utili a far valere i propri diritti di difesa dinanzi alle autorità giurisdizionali dello Stato membro di origine (par. 51 della sentenza). Alla luce di tali considerazioni, pertanto, la mancata impugnazione della decisione de quo a Cipro rappresentava un elemento decisivo per escludere qualsiasi lesione dei diritti di difesa del convenuto.
- Le motivazioni della Grande Camera
Con la decisione Avotiņš c. Lettonia la Grande Camera – con 16 voti favorevoli e uno contrario – ha confermato le conclusioni della quarta sezione, escludendo qualsiasi violazione “indiretta” dell’art. 6, par. 1, CEDU da parte delle autorità lettoni. Le motivazioni seguite dalla Grande Camera si discostano, tuttavia, sotto alcuni aspetti, da quelle accolte dalla sezione semplice e sollevano questioni in parte già emerse nella prima decisione, in parte nuove.
In primo luogo, essa nell’applicare al caso di specie il principio della protezione equivalente enunciato nella sentenza Bosphorus ha non solo chiarito le ragioni dell’applicabilità del principio alla situazione concreta ma ha anche valutato il possibile superamento della presunzione nel caso di specie attraverso il test della «manifesta carenza» enunciato nella medesima sentenza (sentenza Bosphorus, cit., par. 156). Ciò mira a colmare una lacuna evidente nelle motivazioni della decisione della quarta sezione, che sul punto erano rimaste silenti. Tutti i giudici della sezione semplice, infatti, compresi quelli dissenzienti, avevano condiviso l’applicabilità teorica del principio, come implicita conseguenza della riconducibilità della situazione di specie nel campo di applicazione del diritto dell’Unione europea, ma avevano poi omesso di indagare, in concreto, sia la sussistenza dei presupposti per la sua applicazione sia la possibile compressione, nel caso di specie, della tutela dei diritti fondamentali derivante dall’osservanza del regime del mutuo riconoscimento delle decisioni straniere nello spazio giudiziario europeo.
La Grande Camera, al contrario, seguendo le indicazioni sintetizzate dalla sentenza Michaud (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza del 6 dicembre 2012, Michaud c. Francia, ricorso n. 12323/11, parr. 102-104) ha condotto un’analisi puntuale della fattispecie al fine di rinvenire, in primo luogo, la sussistenza delle condizioni sostanziali utili a giustificare il ricorso al principio della protezione equivalente.
A tale riguardo, essa ha rilevato, innanzitutto, che la Suprema Corte lettone era stata chiamata ad applicare una norma del diritto dell’Unione europea contenuta in un regolamento (ossia, l’art. 34 n. 2 del regolamento (CE) n. 44/2001), che per sua natura è direttamente applicabile in modo uniforme in tutti gli Stati membri ed è obbligatorio in tutti i suoi elementi, privando così il giudice nazionale di qualsiasi margine di apprezzamento discrezionale (par. 106 della sentenza). In secondo luogo, la Corte di Strasburgo ha ravvisato che anche l’ulteriore condizione per l’applicazione del principio Bosphorus, che richiede la piena disponibilità di meccanismi di controllo della tutela dei diritti fondamentali previsti dal diritto dell’Unione, dovesse ritenersi soddisfatta (parr. 109-111 della sentenza). Su questo aspetto, la Corte ha fornito chiarimenti che finora erano risultati incerti nella giurisprudenza successiva al caso Bosphorus, circa la necessità che i meccanismi di controllo stessi siano stati effettivamente attivati nel caso concreto. A questo riguardo la Grande Camera sembra seguire un approccio nuovo e flessibile, ritenendo che tale requisito non risulta inficiato dalla circostanza che il Senato della Suprema Corte lettone non abbia sollevato un rinvio pregiudiziale dinanzi alla Corte di giustizia al fine di ottenere l’interpretazione dell’art. 34 n. 2 del regolamento (CE) n. 44/2001. Quest’ultimo aspetto, infatti, non può essere inteso come una condicio sine qua non per il funzionamento del principio Bosphorus, in quanto eccessivo rispetto alla ratio sottesa allo stesso (par. 109 della sentenza). Nel caso di specie, pertanto, la suprema corte lettone non avrebbe – implicitamente – ravvisato, nell’interpretare la norma europea applicabile al caso di specie, una «genuine and serious issue» rispetto alla protezione dei diritti fondamentali garantiti dall’Unione tale da richiedere una pronuncia in via pregiudiziale alla Corte di giustizia. La Grande Camera ha altresì precisato che la seconda condizione per l’applicabilità del principio Bosphorus deve essere comunque valutata rispetto alle circostanze del caso concreto. A questo riguardo, essa ha valorizzato esclusivamente la condotta inerte del ricorrente, senza prestare alcuna attenzione alla natura di giudice di ultima istanza dell’autorità lettone e all’obbligo di proposizione del rinvio pregiudiziale che incomberebbe su quest’ultima ai sensi dell’art. 267 TFUE. La Grande Camera invece si è limitata a rilevare che il ricorrente non aveva sollevato alcun dubbio circa l’interpretazione del motivo di diniego del riconoscimento in sede di exequatur della decisione cipriota, né tantomeno sollecitato il giudice lettone a sollevare un rinvio pregiudiziale di interpretazione dinanzi alla Corte di giustizia (par. 111 della sentenza). Pertanto, il giudice dello Stato membro richiesto aveva semplicemente adempiuto agli obblighi derivanti per la Lettonia dalla sua appartenenza all’Unione europea agendo conformemente alle disposizioni contenute nella Convenzione.
Successivamente, la Grande Camera, svolgendo considerazioni sui limiti imposti alla libera circolazione delle sentenze nella materia civile e commerciale, in deroga al principio del riconoscimento automatico, stabilito dal regolamento Bruxelles I, ha valutato ed infine escluso che, nel caso di specie, nell’applicare tale normativa, la tutela dei diritti fondamentali coinvolti risultasse «manifestamente carente» («manifestly deficient»), situazione quest’ultima che, come indicato dalla sentenza Bosphorus, rappresenta l’unica ipotesi in cui l’interesse alla salvaguardia della cooperazione internazionale, posto alla base della teoria della protezione equivalente, potrebbe essere superato dal ruolo della Convenzione di «strumento costituzionale dell’ordine pubblico europeo» (sentenza Bosphorus, cit., par. 156).
- Sull’applicabilità del principio “Bosphorus” e sulla sua interferenza con il principio del mutuo riconoscimento
Il caso di specie suscita vari spunti di riflessione, alcuni attorno alle modalità di protezione dei diritti fondamentali sanciti dalla CEDU nei rapporti tra Stati membri dell’Unione europea, allorquando operi il principio della fiducia reciproca (1), altri concernenti i limiti del sindacato della Corte europea dei diritti dell’uomo in fattispecie ricadenti nel campo di applicazione del diritto dell’Unione europea (2).
Sotto il primo profilo, la sentenza in rilievo solleva, innanzitutto, la questione dell’applicabilità del principio della protezione equivalente in una situazione, come quella di specie, che risulta disciplinata da una disciplina europea uniforme di diritto internazionale privato (nella specie, il Regolamento (CE) n. 44/2001) adottata in attuazione al principio della fiducia reciproca tra Stati membri. Ciò comporta infatti la possibilità che l’applicazione della protezione equivalente sia depotenziata dal diverso bilanciamento dei valori fondamentali in gioco operato nell’ambito del diritto dell’Unione e posto a fondamento del principio della fiducia reciproca ai fini dell’amministrazione della giustizia in seno all’Unione.
Com’è noto, il mutuo riconoscimento rappresenta un «principio costituzionale» del diritto dell’Unione europea che permea l’intero spazio di «libertà, sicurezza e giustizia» disciplinato dal Titolo V, Parte III, del TFEU (cfr. sul punto: Lenaerts). Esso trae origine dal principio della fiducia reciproca tra gli Stati membri che si traduce nella circostanza che i rispettivi ordinamenti giuridici nazionali sono in grado di fornire una tutela equivalente ed effettiva dei diritti fondamentali, riconosciuti a livello dell’Unione, in particolare nella Carta (v., in tal senso, sentenza F., C‑168/13 PPU, EU:C:2013:358, punto 50, nonché, per analogia, per quanto riguarda la cooperazione giudiziaria in materia civile, sentenza Aguirre Zarraga, C‑491/10 PPU, EU:C:2010:828, punto 70). Il carattere primario della fiducia reciproca nel contesto del diritto dell’Unione poggia, infatti, sulla premessa fondamentale secondo cui «ciascuno Stato membro condivide con tutti gli altri Stati membri, e riconosce che questi condividono con esso, una serie di valori comuni sui quali l’Unione si fonda, così come precisato all’articolo 2 TUE» (Corte di giustizia, parere 2/13, cit., par. 168).
In particolare, la centralità del principio del mutuo riconoscimento nel contesto della cooperazione giudiziaria in materia civile, risulta, a livello normativo, sia dall’art. 67, par. 4, TFUE secondo cui «l’Unione facilita l’accesso alla giustizia, in particolare attraverso il principio di riconoscimento reciproco delle decisioni giudiziarie ed extragiudiziali in materia civile», sia dalle conclusioni del Consiglio europeo di Tampere del 1999 ove è stato definito come «la pietra angolare» della cooperazione giudiziaria in materia civile e penale (cfr. Weller). Occorre tuttavia ricordare che anche il diritto derivato europeo volto a dare attuazione al principio del riconoscimento automatico delle decisioni è tenuto a rispettare i diritti fondamentali enunciati dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e dai principi generali.
Rispetto alla circolazione delle decisioni rese nella materia civile e commerciale, il regime di riconoscimento e di esecuzione previsto nel regolamento Bruxelles I attua la fiducia reciproca tra Stati membri prevedendo che le decisioni giudiziarie emesse in uno Stato membro siano non solo riconosciute di pieno diritto in un altro Stato membro, ma anche che la procedura diretta a rendere tali decisioni esecutive in quest’ultimo Stato sia rapida ed efficace. Nell’ambito del regolamento (CE) n. 44/2001, lo Stato membro dell’esecuzione può rifiutarsi di eseguire la sentenza straniera solo quando ricorrono i motivi tassativi di diniego del riconoscimento stabiliti dall’art. 34 e dall’art. 35, par. 1, dello stesso, come interpretati dalla Corte di giustizia, i quali costituiscono eccezioni rispetto al principio generale della libera circolazione delle decisioni nello spazio giudiziario europeo e devono essere pertanto oggetto di interpretazione restrittiva. Com’è noto, in questo contesto la fiducia reciproca risulta oggi rafforzata dal regolamento (UE) n. 1215/2012 (“Bruxelles I-bis”) che ha sostituito il regolamento (CE) n. 44/2001, nei rapporti tra Stati membri, a decorrere dal 10 gennaio 2015, introducendo, tra le altre cose, il principio dell’esecuzione automatica (abolizione dell’exequatur) delle decisioni.
Come visto, la maggioranza dei giudici della Grande Camera è stata netta nel ravvisare la sussistenza delle condizioni sostanziali per l’applicabilità nel caso di specie del principio Bosphorus, così come sintetizzate nella sentenza Michaud, senza introdurre correttivi legati alla particolarità del settore del diritto dell’Unione interessato. Se la sussistenza del primo requisito (assenza di discrezionalità per le autorità nazionali nell’attuazione dell’obbligo posto dal diritto dell’Unione) non desta particolari perplessità, l’osservanza del secondo criterio (afferente al corretto funzionamento dei meccanismi di controllo dei diritti fondamentali offerti dal diritto dell’Unione) appare meno pacifica nel caso di specie. Come visto, la posizione tenuta dalla Grande Camera a questo riguardo appare flessibile, avendo quest’ultima sganciato la protezione equivalente dall’esigenza che il meccanismo di controllo previsto dal diritto dell’Unione sia stato effettivamente attivato nello Stato membro convenuto. La Corte giustifica questo approccio sostenendo che l’obbligo di sollevare dinanzi alla Corte di giustizia una domanda pregiudiziale di interpretazione non si imporrebbe quando non sorgano serie e genuine questioni riguardo alla protezione dei diritti fondamentali da parte del diritto dell’Unione o quando la Corte di giustizia abbia già interpretato le norme europee applicabili (par. 109 della sentenza). Ciò pare porsi in linea con l’orientamento della Corte di giustizia secondo cui le autorità giurisdizionali nazionali di ultima istanza possono derogare all’obbligo di rinvio pregiudiziale quando l’interpretazione della norma in questione è chiara o risulta già da una pronuncia della Corte di giustizia su una questione identica o analoga (si veda la sentenza 6 ottobre 1982, CILFIT, causa 283/81, EU:C:1982:335). L’indicazione sopra menzionata della Grande Camera potrebbe, tuttavia, implicare un affievolimento del significato della condizione, e, quindi, del principio che su di essa si fonda, indebolendo di fatto il «ruolo complementare» dei giudici nazionali nei meccanismi di controllo del diritto dell’Unione atti a fornire garanzie sulla protezione dei diritti convenzionali (Bosphorus, cit., par 164). La circostanza che, nel caso di specie, il ricorrente non abbia sollecitato la Suprema Corte lettone a sollevare il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia ai fini dell’interpretazione dell’art. 34 n. 2 del regolamento Bruxelles I non esonererebbe in ogni caso il giudice nazionale di ultima istanza (dello Stato membro richiesto) dall’obbligo di motivare le ragioni che non giustificano un suo ricorso alla Corte di giustizia anche quando quest’ultimo sembra aver completamente ignorato l’ipotesi di un rinvio in relazione alla fattispecie concreta con il rischio di avallare una violazione di un diritto fondamentale (si veda al riguardo anche il richiamo a ciò operato dalla Grande Camera, nel par. 110, alle sentenze 20 settembre 2011, Ullens de Schooten and Rezabeck v. Belgio, ricorsi nn. 3989/07 e 38353/07; 8 aprile 2014, Dhabi v. Italia, ricorso n. 17120/09, nonché sul tema Marino, “L’obbligo di rinvio pregiudiziale fra responsabilità dello Stato e circolazione delle sentenze nell’Unione”, in Rivista di diritto internazionale, 2015, p. 1270 ss.). A questo riguardo la corte lettone sembra non essersi posta il problema di un rinvio pregiudiziale sull’interpretazione dell’art. 34 n. 2 del regolamento Bruxelles I rispetto alla tutela dei diritti di difesa del convenuto contumace, ciò che farebbe pensare ad un’adesione da parte di quest’ultima alla giurisprudenza interpretativa sul punto. Tuttavia, il giudice dello Stato dell’esecuzione non ha, al contempo, correttamente applicato le indicazioni fornite dalla Corte di giustizia nel caso ASLM circa l’esigenza di un’effettiva conoscenza del contenuto della sentenza da impugnare, da acquisirsi, come visto, attraverso la notifica della stessa.
Sotto questo profilo il caso di specie, in effetti, si differenzia dalle situazioni concrete nelle quali il principio della protezione equivalente è venuto finora in rilievo nell’ambito della giurisprudenza della Corte. Nel caso Bosphorus, infatti, l’autorità giurisdizionale irlandese aveva preventivamente richiesto un rinvio pregiudiziale di interpretazione alla Corte sul regolamento applicabile nel caso concreto ed aveva ottenuto a tale riguardo indicazioni dalla stessa (Bosphorus, cit., parr. 42-55). Il caso qui in esame si distingue anche da Michaud, in cui la Corte europea dei diritti dell’uomo ha riscontrato che la presunzione di tutela equivalente doveva ritenersi confutata nelle circostanze del caso di specie, in considerazione del fatto che il meccanismo di controllo previsto dalla legislazione dell’Unione Europea non era stato attivato, poiché il Conseil d’Etat francese aveva rifiutato di presentare domanda di pronuncia pregiudiziale alla Corte di giustizia sulla dedotta violazione dei diritti del ricorrente previsti dalla Convenzione (Michaud, cit., par. 115). Nel caso Povse, la Corte europea dei diritti dell’uomo non aveva ravvisato, al contrario, alcun cattivo funzionamento dei meccanismi di controllo dell’osservanza dei diritti delle ricorrenti tutelati dalla Convenzione, atteso che l’autorità dello Stato membro convenuto (Corte Suprema austriaca) aveva correttamente fatto uso del meccanismo di controllo previsto dalla legislazione dell’Unione Europea, avendo essa presentato domanda di pronuncia pregiudiziale di interpretazione dell’art. 11(8) del regolamento Bruxelles II-bis alla CGUE nel corso del primo procedimento relativo all’esecuzione della sentenza italiana controversa che disponeva il ritorno di un minore (Povse, cit., par. 81).
In effetti la questione oggetto del caso Avotiņš c. Lettonia è apparsa peculiare anche ai giudici Lemmens e Briede, che, pur condividendo le conclusioni della maggioranza, hanno tuttavia ravvisato che nel caso di specie mancasse il presupposto stesso delle argomentazioni della Corte, ossia il difetto processuale contestato nell’ambito del giudizio dello Stato membro richiesto. Ciò rendeva superfluo, a loro avviso, il ricorso al principio Bosphorus (joint concurring opinion dei giudici Lemmens e Briede, par. 6).
Soltanto il giudice dissenziente Sajó ha, invece, valorizzato la particolarità della materia oggetto della sentenza, evidenziando le possibili criticità dell’estensione del principio Bosphorus a settori del diritto dell’Unione europea ispirati al mutuo riconoscimento. Tale scelta, a suo avviso, darebbe luogo a una «presumption unsustained by the realities of life even according to the CJEU, as became clear most recently in C-404/15 and C-659/15 PPU. This Court shall remain faithful to its position adopted in M.S.S (…)» (dissenting opinion del giudice Sajó, par. 9). Il rilievo, in altre parole, segnala il rischio di una radicalizzazione della presunzione di protezione equivalente che possa di fatto condurre a legittimare violazioni di garanzie convenzionali attraverso l’applicazione del diritto dell’Unione. Il fugace richiamo operato dal giudice Sajó è alla recentissima sentenza della Corte di giustizia resa nel caso Aranyosi e Căldăraru decisa dalla grande Camera lo scorso 5 aprile 2016 in relazione all’esecuzione di un mandato di arresto europeo (Corte di giustizia (Grande Sezione), sentenza del 5 aprile 2016, Pál Aranyosi e Robert Căldăraru, cause riunite C-404/15 e C-659/15 PPU, ECLI:EU:C:2016:198, su cui si veda il commento di Lazzerini, “Gli obblighi in materia di protezione dei diritti fondamentali come limite all’esecuzione del mandato di arresto europeo: la sentenza Aranyosi e Căldăraru”, in corso di pubblicazione in Diritti umani e diritto internazionale, 2016, n. 2). In tale pronuncia la Grande Sezione della Corte di giustizia, con riguardo al settore della cooperazione giudiziaria in materia penale, anch’esso ispirato, come il regime di circolazione delle decisioni straniere, al principio del mutuo riconoscimento, ha, infatti, stabilito che l’autorità dello Stato membro richiesto di eseguire un mandato di arresto europeo non può procedere alla consegna dell’individuo destinatario della misura ove accerti un «rischio concreto» di violazione del divieto sancito dall’art. 4 della Carta – corrispondente all’art. 3 CEDU, ai sensi dell’art. 52, par. 3 della Carta – di subire un trattamento inumano e degradante a causa delle condizioni di detenzione previste nello Stato membro richiedente (par. 104 della sentenza). Ciò tuttavia, come ha precisato la Corte di giustizia, non implica l’obbligo automatico del giudice dello Stato membro richiesto di non dare esecuzione a un mandato di arresto europeo, allorquando sia accertato un rischio concreto di trattamento inumano o degradante dovuto alle condizioni generali di detenzione nello Stato membro emittente (par. 91 della sentenza), ma l’obbligo di verificare il rischio concreto per il destinatario del mandato di arresto europeo, con la possibilità a seconda dei casi di ritardare o impedire l’esecuzione della misura. Ciò dunque non potrebbe essere equiparato sic et simpliciter ai motivi di diniego (tassativi) dell’esecuzione del mandato di arresto europeo previsti dalla decisione quadro del Consiglio 2002/584/GAI.
Tale conclusione dà concretezza alla possibilità che limitazioni al principio della fiducia reciproca tra Stati membri possano essere apportate “in circostanze eccezionali” così come enunciato dalla Corte di giustizia nel parere 2/13 sul progetto di accordo di adesione dell’Unione europea alla CEDU («il principio della fiducia reciproca impone a ciascuno di detti Stati, segnatamente per quanto riguarda lo spazio di libertà, di sicurezza e di giustizia, di ritenere, tranne in circostanze eccezionali, che tutti gli altri Stati membri rispettino il diritto dell’Unione e, più in particolare, i diritti fondamentali riconosciuti da quest’ultimo» v., in tal senso, parere 2/13, par. 191). Come chiarito dalla stessa Corte di giustizia, da tale principio discendono due conseguenze: da un lato, gli Stati membri, allorché attuano il diritto dell’Unione, non possono esigere da un altro Stato membro un livello di tutela nazionale dei diritti fondamentali più elevato di quello garantito dal diritto dell’Unione; dall’altro, essi non possono, salvo casi eccezionali, verificare se tale altro Stato membro abbia effettivamente rispettato, in un caso concreto, i diritti fondamentali garantiti dall’Unione (parere 2/13, par. 192).
Il limite delle «circostanze eccezionali» in cui non opera il principio della fiducia reciproca deve peraltro essere interpretato alla luce degli obblighi di protezione derivanti dalla CEDU anche a prescindere dall’adesione formale dell’Unione alla Convenzione, operando già le garanzie convenzionali nel diritto dell’Unione in forza dell’art. 52, par. 3, della Carta (principio dell’interpretazione parallela dei diritti della Carta corrispondenti per portata e per significato a quelli della CEDU) e del ruolo riconosciuto ai principi generali in forza dell’art. 6, par. 3, TUE (così Lazzerini, op. cit.).
Nella sentenza Avotiņš c. Lettonia la Grande Camera ha rilevato che la limitazione a casi eccezionali del potere dello Stato richiesto di verificare l’inosservanza dei diritti fondamentali da parte dello Stato di origine potrebbe, in pratica, ostacolare il rispetto della condizione imposta dalla CEDU secondo cui il giudice dello Stato richiesto deve almeno poter condurre una verifica commisurata alla gravità di qualsiasi seria pretesa violazione di diritti fondamentali nello Stato di origine al fine di assicurare che la protezione di tali diritti non risulti manifestamente deficiente (par. 114 della sentenza).
La Grande Camera ha, quindi, rilevato la potenziale doppia limitazione in cui rischia di incorrere il potere di controllo delle autorità degli Stati membri rispetto alla protezione dei diritti fondamentali allorquando questi ultimi, nell’applicare il diritto dell’Unione, siano tenuti a rispettare, al contempo, sia il principio del mutuo riconoscimento (con la conseguente presunzione di osservanza dei principi fondamentali sanciti dalla Carta e dai principi generali) sia il livello di protezione equivalente stabilito dal principio Bosphorus rispetto alla tutela dei diritti stabiliti dalla Convenzione (par. 115 della sentenza). Il bilanciamento tra i due principi è raggiunto allora dalla Grande Camera nel test della «manifesta carenza». In altre parole, l’osservanza del principio del mutuo riconoscimento si impone finché essa non si traduce in una manifesta carenza del livello di protezione dei diritti convenzionali: pertanto, laddove venga lamentata dinanzi ai giudici degli Stati membri una «seria e fondata» lesione di un diritto garantito dalla CEDU, e tale situazione non possa essere sanata attraverso il diritto dell’Unione, tali giudici non possono astenersi dall’accertare tale censura sulla base del solo motivo che sono chiamati ad applicare il diritto dell’Unione (par. 116 della sentenza).
- Sui limiti alla libera circolazione delle decisioni nella materia civile e commerciale e sull’ampiezza del sindacato della Corte europea dei diritti dell’uomo
Un secondo ordine di considerazioni deriva dalla valutazione dei limiti alla libera circolazione delle decisioni nella materia civile e commerciale risultante dall’apprezzamento compiuto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo rispetto al test della «manifesta carenza» e del profilo ad esso strettamente connesso dell’ampiezza del sindacato della Corte.
Per confutare la presunzione di tutela equivalente, la Grande Camera si è incentrata sull’applicazione dell’art. 34 n. 2 del regolamento Bruxelles I.
A questo riguardo, sorprendentemente, la Corte non si limita a svolgere un controllo sulle motivazioni fornite dal giudice lettone riguardo all’applicazione della disposizione come risultante dall’interpretazione della Corte di giustizia sopra ricordata, ma, al contrario, compie un apprezzamento autonomo su aspetti procedurali che sfuggono in verità alla propria competenza. Essa, infatti, fonda il proprio ragionamento sulla valutazione dell’onere della prova relativo all’esistenza e alla disponibilità di mezzi di ricorso a Cipro, che essa pone interamente a carico del ricorrente («It was therefore up to the applicant himself, if need be with appropriate advice, to enquire as to the remedies available in Cyprus after he became aware of the judgment in question»: par. 123 della sentenza) e che ricava per di più da «information provided by the Cypriot Government, at the Grand Chamber’s request» (par. 112 della sentenza). La Corte impiega questo elemento per condizionare così il funzionamento dell’art. 34 n. 2 del regolamento Bruxelles I e ne trae la conclusione che la protezione dei diritti fondamentali nel caso concreto non sia stata manifestamente carente in quanto «[the] Cypriot law afforded the applicant, after he had learned of the existence of the judgment, a perfectly realistic opportunity of appealing despite the length of time that had elapsed since the judgment had been given» (par. 122 della sentenza). Pertanto, non avendo il ricorrente fatto uso di tale possibilità impugnando la decisione controversa nello Stato membro di origine, nessuna violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU poteva essere ravvisata nel caso di specie.
Questa conclusione appare criticabile, innanzitutto, dal punto di vista del diritto internazionale privato europeo che non impone, nello specifico, alcun requisito sull’onere della prova dei mezzi di rimedio processuale nello Stato di origine ai fini del funzionamento del meccanismo di protezione del convenuto contumace come previsto dal regolamento Bruxelles I. Infatti, la stessa Grande Camera è costretta ad ammettere che «the determination of the burden of proof … is not governed by European Union law»; contemporaneamente, tuttavia, essa giudica tale questione determinante nel caso di specie («decisive in the present case»: par. 121 della sentenza), ritenendo che la stessa Corte suprema lettone abbia tacitamente presunto che tale onere della prova ricadesse sul ricorrente o che tale rimedio fosse disponibile per quest’ultimo (par. 121 della sentenza). Le motivazioni di una tale conclusione non paiono in verità così limpide né si rinvengono elementi chiari in tal senso nell’ambito delle motivazioni fornite dal giudice lettone, atteso che l’unico fattore valorizzato dal giudice nazionale in sede di exequatur è stata la mancata impugnazione della decisione cipriota da parte del ricorrente. Ciò invece potrebbe valere anche in senso opposto come spia dell’avvenuta lesione dei diritti di difesa del convenuto contumace nello Stato di origine, laddove non siano rinvenuti dal giudice dell’esecuzione mezzi effettivi di impugnazione nell’ordinamento di origine (cfr. sul tema Lopes Pegna, “Concentrazione delle difese nello Stato di origine e sue conseguenze per il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni”, in Verso un «ordine comunitario» del processo civile. Pluralità di modelli e tecniche processuali nello spazio europeo di giustizia, (a cura di Boschiero e Bertoli), Editoriale Scientifica, Napoli, 2008, p. 103 ss.)
In ogni caso, ogni valutazione sull’onere della prova rientra nel campo di applicazione del diritto processuale civile nazionale dello Stato membro interessato e non, come visto, del diritto dell’Unione. Spettava quindi alla Corte suprema lettone verificare questo aspetto sulla base delle norme processuali interne, non disponendo, invece, la Corte europea dei diritti dell’uomo del potere di dedurlo implicitamente per il tramite di informazioni fornite dal governo dello Stato membro di origine. Oltretutto, come viene chiarito anche dalla joint concurring opinion dei giudici Lemmens e Briede allegata alla sentenza, neppure l’art. 6, par. 1, CEDU richiederebbe un’indagine sulla questione dell’onere della prova sui mezzi di ricorso rilevanti ai fini di verificare l’effettiva osservanza dei diritti di difesa del convenuto contumace (joint concurring opinion dei giudici Lemmens e Briede, par. 3).
Questo aspetto allora pone evidentemente il problema dei limiti del sindacato della Corte e del rischio già rilevato nell’ambito della sentenza resa dalla quarta sezione (vedi Feraci, cit., pp. 199-200) secondo cui la Corte europea dei diritti dell’uomo possa trasformarsi in giudice di quarta istanza, spingendosi persino ad interpretare il diritto interno di uno Stato contraente in violazione degli obblighi stabiliti dall’art. 19 della Convenzione. Inoltre, come è stato sottolineato dai giudici Lemmens e Briede «the majority interpret provisions of the domestic law of a third State, which, moreover, do not seem to have been the subject of adversarial debate before the domestic courts of the respondent State» (joint concurring opinion dei giudici Lemmens e Briede, par. 5).
Questo esito contraddice le considerazioni iniziali del giudizio della Grande Camera ove quest’ultima aveva richiamato i limiti dei propri poteri di controllo risultanti dalla Convenzione (parr. 99-100). La Grande Camera al contrario avrebbe dovuto limitarsi a verificare se nel caso di specie «[…] the review conducted by the Senate of the Latvian Supreme Court was sufficient for the purposes of Article 6, par. 1» (par. 98 della sentenza), attenendosi alle motivazioni fornite dal giudice dello Stato convenuto rispetto all’art. 34(2) del regolamento, così come interpretato dalla Corte di giustizia (in particolare, attraverso la sentenza ASML).
A questo proposito resta tutt’ora aperta una questione già emersa nell’ambito della sentenza della quarta sezione (v. Feraci, cit., p. 200) che, mi pare, continua a rivestire, almeno sul piano teorico, una certa rilevanza: nel caso di applicazione scorretta del diritto dell’Unione da parte delle autorità di Stati membri dell’Unione europea, può sorgere il rischio che i diritti fondamentali sottesi alla normativa europea rilevante e corrispondenti ai diritti protetti dalla Convenzione, risultino compromessi e che la loro inosservanza non possa essere riscontrata neppure successivamente dalla Corte di Strasburgo, in via complementare, alla luce dei vincoli derivanti dal proprio sindacato.
Questo rilievo unitamente alle considerazioni precedenti sembra confermare allora come la questione giuridica di fondo del caso Avotiņš c. Lettonia travalichi i confini della protezione delle garanzie dell’equo processo, quali risultanti dall’art. 6, par. 1, CEDU e investa, più in generale, profili legati al trattamento del diritto dell’Unione da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo, profili, questi ultimi, sui quali potranno venire maggiori chiarimenti dalla ripresa dei negoziati sul processo di adesione dell’Unione europea alla CEDU.
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