Iran e Stati Uniti di nuovo davanti alla Corte
Alice Ollino, Università degli Studi di Milano-Bicocca
Il 15 giugno 2016, la Repubblica Islamica dell’Iran ha presentato un ricorso contro gli Stati Uniti d’America presso la Corte Internazionale di Giustizia, accusando lo Stato americano di aver violato alcune disposizioni del Trattato di Amicizia stipulato fra i due paesi nel 1955 regolante i rapporti diplomatici, le relazioni economiche e i diritti consolari. Il ricorso dell’Iran alla Corte di Giustizia costituisce la risposta all’adozione, da parte degli Stati Uniti d’America, di provvedimenti di natura legislativa ed esecutiva volti al congelamento e al sequestro di fondi detenuti negli Stati Uniti e appartenenti alla Banca Markazi, la Banca Centrale Iraniana.
L’intera vicenda ha origini piuttosto complesse: a seguito di alcuni attentati nei confronti di cittadini americani nel corso degli anni ’90 a opera del gruppo terroristico di Hezbollah – fra cui il bombardamento di una caserma statunitense avvenuto a Beirut nel 1983, e l’attacco alle Khobar Towers avvenuto in Arabia Saudita nel 1996 -, i familiari delle vittime hanno intentato una serie di procedimenti risarcitori di fronte alle corti americane contro l’Iran, considerato Stato finanziatore del gruppo terroristico.
In particolare, la possibilità per le corti statunitensi di esercitare la propria giurisdizione nei confronti della Repubblica Islamica derivava dall’applicazione della cosiddetta ‘terrorism exception’ contenuta nel Foreign Sovereignty Immunity Act. Quest’ultimo, così come emendato nel 1996, prevede che uno Stato estero considerato sponsorizzatore del terrorismo non possa invocare l’immunità dalla giurisdizione, quando il risarcimento dei danni per lesioni o morte sia richiesto dalla vittima e dai suoi aventi causa per atti di tortura, uccisioni extragiudiziali, sabotaggio di aerei e presa di ostaggi (28 U.S.C. § 1605 A).
Lo Stato iraniano ha sempre contestato la validità dei procedimenti in esame, rifiutandosi di risarcire i danni subiti dalle vittime e dai loro familiari. Pertanto, al fine di garantire un rimedio effettivo ai ricorrenti, il Governo americano ha adottato alcuni provvedimenti volti a rendere esecutive le pronunce contro l’Iran. In particolare, con l’Executive Order No. 13599 del 2012, gli Stati Uniti disponevano il blocco dei beni e dei fondi iraniani con sede nel territorio americano; con l’adozione dell’Iran Threat Reduction and Syria Human Rights Act sempre del 2012, il Governo affermava l’esecutività della pronuncia di condanna dell’Iran al pagamento di danni punitivi e risarcitori nel caso Peterson et al. v. Islamic Republic of Iran et al. La Section 502 di quest’ultimo documento infatti dispone che i beni finanziari iraniani bloccati, detenuti negli Stati Uniti da intermediari esteri, anche se di proprietà della Banca Centrale iraniana, dell’Autorità Monetaria del Governo dell’Iran o di qualsiasi altra agenzia del Governo, siano soggetti ad esecuzione «notwithstanding any other provision of law, including any provision of law relating to sovereign immunity» (Section 502 (a)(1), U.S.C. § 8772). Inoltre, si prevede espressamente che tali beni finanziari debbano essere identificati in quelli detenuti dalla Banca Markazi «subject of proceedings in the United States District Court for the Southern District of New York in Peterson et al. v.Islamic Republic of Iran» (Section 502 (b), U.S.C. § 8772).
Il 20 aprile 2016 la Corte Suprema americana ha confermato la validità del provvedimento del Congresso che di fatto priva la Banca Iraniana di qualsiasi appiglio legislativo contro l’esecutività nei suoi confronti della sentenza, autorizzando dunque il sequestro e l’appropriazione di fondi per un valore di oltre 1.75 miliardi di dollari.
È da queste vicende che origina il ricorso della Repubblica Islamica di fronte alla Corte di Giustizia. L’Iran ritiene che i provvedimenti statunitensi volti al blocco e al sequestro dei beni finanziari di proprietà della Banca Markazi comportino la violazione di alcuni articoli del Trattato di Amicizia tra Iran e Stati Uniti, e in particolare degli articoli III. 1 (riconoscimento dello status giuridico delle società e imprese Iraniane), III.2 (accesso equo e imparziale alla giurisdizione), IV.1 (trattamento equo e imparziale dei propri cittadini e delle proprie imprese), IV.2 (protezione e sicurezza garantite ai propri cittadini e alle proprie imprese), V.1 (diritto di acquisizione e disposizione di beni e proprietà), VII.1 (divieto di restrizioni sui pagamenti o al trasferimento di fondi) e art X.1 (libertà di commercio e navigazione).
Qualsiasi pronostico riguardante la controversia appare prematuro, tuttavia la questione presenta alcuni aspetti rilevanti sotto il profilo del diritto internazionale. In primo luogo, la vicenda tocca alcune questioni fondamentali in tema d’immunità degli Stati dalla giurisdizione straniera e immunità dei beni degli Stati stranieri da provvedimenti cautelari o esecutivi. Tuttavia l’oggetto della disputa iniziata dall’Iran attiene precipuamente alla violazione specifica di alcune norme del Trattato di Amicizia tra i due paesi, le quali toccano solo indirettamente il problema dell’immunità. Ciò deriva dall’impossibilità per la Repubblica Islamica di instaurare una controversia sulla base della violazione di norme consuetudinarie in tema d’immunità, atteso che entrambe le parti non riconoscono come obbligatoria la giurisdizione della Corte ai sensi dell’art. 36.2 dello Statuto. Ne consegue che qualsiasi disputa fra i due Stati debba limitarsi ai casi espressamente previsti nei trattati stipulati dai due paesi.
A questo riguardo, il Trattato di Amicizia prevede espressamente la possibilità di ricorrere alla giurisdizione della Corte. L’art. XXI.2 dispone infatti che «any dispute between the High Contracting Parties as to the interpretation and application of the present Treaty, not satisfactorily adjusted by diplomacy, shall be submitted to the International Court of Justice, unless the High Contracting Parties agree to settlement by some other pacific means».
È stato giustamente rilevato (si veda a questo proposito l’intervento del Prof. Ku su Opinio Juris) che l’art. XXI.2 ha già costituito fonte di giurisdizione per la Corte nei casi del Personale Diplomatico e Consolare degli USA a Teheran nel 1980 e delle Piattaforme Petrolifere del 2003; questo costituisce pertanto una valida base per la giurisdizione nella controversia in esame. Inoltre, nel caso di specie, la vicenda presenta i caratteri di una disputa ai sensi dell’Art. XXI.2, atteso che l’Iran si è sempre rifiutato di rispettare le decisioni delle corti americane e provvedere al risarcimento delle vittime statunitensi. Giacché poi nessun accordo o risoluzione diplomatica sono mai stati raggiunti dalle parti in merito alla vicenda e anzi lo scorso 20 aprile la Corte Suprema statunitense ha confermato la validità dei provvedimenti esecutivi di espropriazione e sequestro dei fondi della Banca Centrale Iraniana, sussistono i presupposti per ritenere che la disputa sia suscettibile di esame di fronte alla Corte di Giustizia.
Si tratta a questo punto di stabilire se la questione sollevata dall’Iran nel proprio ricorso attenga effettivamente all’interpretazione e all’applicazione del Trattato di Amicizia fra i due paesi, e pertanto sussistano anche i requisiti per la giurisdizione della Corte ratione materiae. A questo riguardo, un primo problema concerne la possibilità che la Banca Centrale dell’Iran rientri effettivamente nella definizione di «company» prevista dal Trattato e in particolare dagli artt. III, IV, e V, la cui violazione è invocata dall’Iran come base del suo ricorso. È ragionevole ipotizzare infatti che gli Stati Uniti contesteranno l’applicazione delle norme sul Trattato nei confronti della Banca Markazi, in virtù di un’interpretazione di natura letterale delle norme in questione.
In particolare, nella memoria presentata nel 2015 davanti alla Corte Suprema in qualità di amicus curiae, lo Stato americano ha affermato che l’art. III e l’art. IV non possono trovare applicazione nei confronti della Banca Centrale Iraniana in quanto quest’ultima non può definirsi né «national» né «company» ai sensi del Trattato. Mentre il termine national «make(s) sense only if (…) understood to refer exclusively to natural persons» (Bank Markazi v Peterson et al, Brief for the United States as amicus curiae, p. 21), il termine company può riferirsi esclusivamente a «corporations, partnerships, companies and other associations, whether or not with limited liability and whether or not of pecuniary profit» (p. 22). Per gli Stati Uniti, la Banca Centrale Iraniana costituirebbe invece un’agenzia di stato per lo svolgimento di funzioni pubbliche, pertanto non rientrante in alcuna delle categorie predette. Inoltre un’interpretazione restrittiva del termine company sarebbe confermata secondo gli USA dall’uso all’art. XI.4 del termini «government agencies and instrumentalities» accanto ai concetti distinti di «corporations and associatioins» (p. 22). Nella risposta alla memoria depositata dagli Stati Uniti, la Banca Markazi ha affermato che non solo una tale interpretazione non sarebbe mai stata adottata, ma che, inoltre, durante la fase negoziale del Trattato sarebbero stati proprio gli USA a voler includere nella definizione di company tanto società private quanto entità pubbliche (Bank Markazi v Peterson et al, Supplement Brief for Petitioner, p. 10).
Anche ammesso che la Banca Markazi possa rientrare nella definizione di company e dunque essere coperta dal Trattato, resterebbero comunque da risolvere altre questioni rilevanti. Fra queste rientra certamente il problema di stabilire se i provvedimenti esecutivi concernenti il congelamento e il sequestro dei fondi della Banca Centrale costituiscano effettivamente una violazione del principio di «fair and equitable treatment» previsto dall’art. IV.1 del Trattato. Nel caso delle Piattaforme Petrolifere, la Corte di Giustizia, negando che l’art IV potesse riguardare il caso in esame e in particolare le azioni di forza poste in essere dagli Stati Uniti nei confronti dell’Iran, affermava che la norma concerne «the treatment by each party of the national companies of the other party, as well as property and enterprises» (CIG, Oil Platform, 1996, para. 36). Per quanto la definizione sembri comprendere la questione in esame, e in particolare il trattamento riservato dagli Stati Uniti nei confronti dei beni finanziari iraniani sotto la propria giurisdizione, è pur vero che nella memoria amicus curiae gli USA, ribadendo quanto affermato in precedenza dalla Corte d’appello, hanno sostenuto che nessuna violazione sarebbe ipotizzabile poiché la Section 502 dello U.S. code § 8772, che consente l’esecuzione sui beni finanziari iraniani, non ha alcuna natura discriminatoria (p. 10). Questo perché, nonostante i paragrafi (a) e (b) della norma facciano espresso riferimento all’esecuzione dei beni finanziari iraniani detenuti negli Stati Uniti, il par. (c) specifica che «nothing in this section shall be construed (1) to affect the availability, or the lack thereof, of a right to satisfy a judgement in any other action against a terrorist party in any proceedings other than proceeding». Di conseguenza, l’eventualità di poter procedere all’esecuzione sui beni finanziari di altri Stati stranieri ritenuti finanziatori del terrorismo e nei cui confronti siano iniziati procedimenti di risarcimento del danno per lesioni o morte di cittadini americani priverebbe la norma della sua natura discriminatoria.
Una delle norme più importanti del Trattato che l’Iran ritiene violata è l’art. IV.2. La norma garantisce il minimo di protezione e sicurezza riconosciuti dal diritto internazionale generale, laddove afferma che «property of nationals and companies of either High Contracting Party (…) shall receive the most constant protection and security within the territories of the other High Contracting Party, in no case less than that required by international law». Qualora la Corte di Giustizia ritenesse che i provvedimenti di blocco e sequestro dei fondi della Banca Markazi attengano all’applicazione e all’interpretazione del trattato poiché potenzialmente lesivi delle norme sulla protezione e la sicurezza dei beni stranieri, l’Iran potrebbe sostenere la violazione da parte degli USA delle norme consuetudinarie in materia d’immunità degli Stati, e in particolare delle norme sull’immunità dei beni degli Stati stranieri da provvedimenti cautelari o esecutivi. In effetti l’art. IV.2 è l’unico a prevedere espressamente un riferimento agli standard di diritto internazionale, potendo pertanto costituire la valvola attraverso cui inserire la questione dell’immunità. Non è detto però che la Corte ritenga le norme sull’immunità dei beni stranieri dai procedimenti esecutivi parte delle regole di diritto internazionale generale sulla protezione e sulla sicurezza degli investimenti. D’altronde, «full protection and security» si riferisce primariamente agli obblighi di diligenza che uno Stato deve osservare al fine di prevenire azioni da parte di soggetti terzi (privati o organi di Stato) che minino la sicurezza fisica dell’investimento. Vero è che tale principio potrebbe riferirsi non solo alla protezione fisica dell’investimento, ma anche a quella giuridica (così sembra peraltro implicitamente affermare la CIG nel caso ELSI, par. 109-111). Tuttavia, resterebbe comunque da chiarire se gli obblighi di diligenza volti a garantire tale protezione giuridica (obblighi tradizionalmente identificabili nel divieto di diniego di giustizia) comprendano anche il rispetto delle norme consuetudinarie in materia di immunità.
Quella dell’immunità rappresenta indubbiamente uno dei punti più rilevanti di tutta la controversia. È difficile ipotizzare che la Corte possa esprimersi riguardo all’immunità dello Stato iraniano dalla giurisdizione americana e alla validità della «terrorism exception clause», giacché potrebbe ritenere tale problematica non rilevante – in quanto concernente atti rivolti contro lo Stato dell’Iran, e non direttamente la protezione e la sicurezza della Banca Markazi. Anche ammettendo poi che la Corte ritenesse l’art. IV.2 rilevante ai fini delle norme attinenti all’immunità dei beni degli stati stranieri da provvedimenti cautelari o esecutivi esteri, resterebbe comunque aperta la questione della portata consuetudinaria di tali norme.
A questo riguardo, nel caso Immunità giurisdizionali dello Stato, la Corte Internazionale di Giustizia ha affermato che «rules of customary international law governing immunity from enforcement and those governing jurisdictional immunity (…) are distinct, and must be applied separately» (CIG, Jurisdictional Immunity, 2012, par. 113). Collegandosi all’art. 19 della Convenzione delle Nazioni Unite sulle immunità giurisdizionali degli Stati e dei loro beni (pur non ancora in vigore), la Corte ha affermato che, affinché un bene straniero possa essere assoggettato a qualsiasi misura cautelare o esecutiva da parte di uno stato estero, è necessario che a) il bene in questione sia utilizzato per attività che non perseguono scopi pubblicistici oppure b) che lo stato straniero proprietario del bene abbia acconsentito alle misure esecutive adottate dallo stato estero, oppure ancora c) che lo stato straniero abbia messo a disposizione il bene per il soddisfacimento in sede giudiziaria dello stato estero (par. 118).
Ipotizzando che né b) né c) si applichino al caso di specie, la Corte si troverebbe a stabilire se i fondi della Banca Markazi detenuti negli Stati Uniti perseguano o meno scopi non-commerciali, tali da renderli immuni da qualsiasi provvedimento esecutivo nei loro confronti. Per quanto concerne l’applicazione di questo principio da parte delle corti americane, il “test” dell’esercizio di attività commerciali o pubbliche è stato da queste regolarmente applicato al fine di determinare se i beni finanziari delle Banche Centrali possano effettivamente essere coperti da immunità. Ciò è avvenuto e avviene sulla base della Section 1611(b)1 dello US Code, la quale, in materia di immunità giurisdizionali, dispone che «the property of a foreign state shall be immune from attachment and from execution (…) if the property is that of a foreign central bank or monetary authority held for its own account». A questo riguardo, l’espressone ‘for its own account’ si è rivelata piuttosto complessa da interpretare; le Corti tendenzialmente l’hanno intesa come riferita a tutti quei fondi e beni che attengono allo svolgimento delle attività centrali di una Banca, e non alle sue funzioni commerciali (Bank of Credit v. State Bank of Pakistan, United States Court of Appeal Second Circuit, 2001, par. 239). Tuttavia, per funzioni commerciali le Corti americane hanno inteso tutte quelle attività che possono essere potenzialmente esercitate anche da un soggetto privato (Republic of Argentina et al. v. Weltover, US Court of Appeal for the Second Circuit, 1992, par. 614,), rendendo in tal modo particolarmente restrittiva la regola di applicazione dell’immunità. Con riferimento alla natura delle attività della Banca Markazi, la Corte distrettuale americana nel 2013, interrogandosi proprio sulla questione dell’immunità, affermava che, a prescindere dalle clausole e dai provvedimenti governativi eccezionali limitanti l’immunità giurisdizionale ed esecutiva, «the activities of Bank Markazi are not central banking activities that would provide immunity» (Peterson v Islamic Republic of Iran, US District Court of New York, 2013, p. 27).
Ci si potrebbe infine domandare se, tra i vari motivi che potrebbero essere avanzati dagli USA al fine di ottenere una dichiarazione di difetto di giurisdizione da parte della Corte, possa figurare anche l’art. XX.1(d) (peraltro già invocato dagli Stati Uniti nel caso delle Piattaforme Petrolifere), in virtù del quale «the present Treaty shall not preclude the application of measures necessary to fulfill the obligations of a High Contracting Party for the maintenance or restoration of international peace and security, or necessary to protect its essential security interests». Ciò sarebbe possibile qualora gli USA sostenessero per esempio che i ricorsi contro l’Iran e i provvedimenti esecutivi riguardanti i beni della Banca Centrale costituiscano delle contromisure in risposta agli attacchi terroristici finanziati dall’Iran. È stato tuttavia giustamente notato (si veda l’intervento di Grandauber su EJIL:Talk!) come un simile argomento sia difficile da sostenere, in quanto il sequestro dei fondi iraniani per un valore di 1.75 miliardi di dollari costituirebbe certamente una contromisura di carattere non reversibile, in violazione di quanto previsto dall’art. 49.3 del Progetto di Articoli sulla responsabilità dello Stato. Sotto questo profilo, una difesa degli Stati Uniti basata sull’ambito di applicazione delle norme del trattato volta ad escludere la Banca Markazi dai soggetti titolari di protezione ai sensi delle norme invocate dall’Iran appare essere più convincente.
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