II) Brexit: Should They Go…
Pierluigi Simone, Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”
Qualora all’esito del referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione europea, previsto per il 23 giugno 2016 e indetto sulla base degli European Union Referendum Act del 17 dicembre 2015 (per la Gran Bretagna e l’Irlanda del Nord) e del 28 gennaio 2016 (per Gibilterra), la maggioranza degli elettori britannici dovesse pronunciarsi a favore dell’uscita dall’Unione, non avrebbero effetto le misure varate dal Consiglio europeo del 18-19 febbraio 2016 (v. al riguardo il post di Rossolillo). Prenderebbe invece avvio la procedura di recesso disciplinata (in modo alquanto lacunoso, in verità) dall’art. 50 TUE, norma introdotta dal Trattato di Lisbona e mai, fino a questo momento, concretamente utilizzata (cfr. Łazowski, p. 116; Piris, p. 112 ss.).
Stando al par. 1 dell’art. 50, «Ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall’Unione». Tale decisione assume dunque carattere unilaterale e appartiene esclusivamente allo Stato membro interessato; non occorre che essa venga approvata dagli altri Stati membri dell’Unione né tantomeno essa richiede motivazioni o giustificazioni di sorta. Previa (eventuale) verifica in merito alla «conformità alle norme costituzionali» del Regno Unito (controllo che andrebbe compiuto esclusivamente dalle competenti autorità nazionali), il Governo britannico dovrebbe pertanto notificare la sua intenzione al Consiglio europeo, come prescritto dal par. 2 dell’art. 50.
Si aprirebbe così un negoziato bilaterale, fondato su orientamenti formulati dal Consiglio europeo (alla cui seduta, ex art. 50, par. 4, TUE, non parteciperebbe il Primo Ministro britannico) per pervenire, tenendo conto del quadro delle future relazioni con l’Unione, alla stipula di un Accordo tra l’Unione europea e il Regno Unito volto a definire le modalità del recesso. Tale negoziato andrebbe condotto in conformità dell’art. 218, par. 3, TFUE: la Commissione dovrebbe quindi presentare una raccomandazione al Consiglio, il quale emanerebbe poi una decisione che autorizzi l’avvio del negoziato stesso e designi il negoziatore o il capo della squadra di negoziato dell’Unione. L’Accordo di recesso verrebbe concluso, per l’Unione, dal Consiglio, con delibera adottata a maggioranza qualificata (senza la partecipazione del rappresentante britannico) previa approvazione del Parlamento europeo. A differenza di quanto si verifica per i trattati di adesione (art. 49 TUE), il voto unanime del Consiglio non è richiesto. Inoltre, a differenza di quanto stabilito in caso di revisione dall’art. 48 TUE, per l’Accordo di recesso neppure sono necessarie le ratifiche degli Stati membri dell’Unione, mentre questo adempimento è previsto, espressamente, dal par. 4, 2° comma, dell’art. 48, nella procedura di revisione ordinaria e dal successivo par. 6, 2° comma, per la decisione adottata dal Consiglio europeo nella prima procedura di revisione semplificata; implicitamente, dal par. 7, 3° comma, della medesima disposizione, laddove si permette ai parlamenti nazionali di opporsi alla decisione che il Consiglio europeo intendesse adottare nell’ambito della seconda procedura di revisione semplificata. Una simile omissione appare alquanto singolare se riferita all’art. 50 TUE, giacché, verosimilmente, a un qualsiasi Accordo di recesso non possono non accompagnarsi modifiche o correzioni dei Trattati istitutivi. Di per sé un Accordo di recesso, a tacer d’altro, non può non incidere, perlomeno, sull’art. 52 TUE, nel quale vengono elencati gli Stati membri dell’Unione; sull’art. 355 TFUE, relativo al campo di applicazione territoriale dei Trattati; e sulle varie norme del TUE, del TFUE e dei Protocolli allegati in cui si dà conto del numero dei componenti di istituzioni e organi. Non sembra dunque azzardato pensare che, in parallelo all’Accordo di recesso, ci si possa trovare costretti, all’atto pratico, a siglare un trattato di revisione con il quale farsi carico degli emendamenti da apportare alle fonti primarie (Piris, p. 114).
L’art. 50 TUE contempla nel suo par. 3 tanto l’ipotesi in cui il negoziato di recesso si concluda positivamente, entro due anni dalla notifica della volontà di recedere ovvero entro due anni più il maggior tempo supplementare concesso in proroga dal Consiglio europeo (all’unanimità e d’intesa con lo Stato membro che voglia abbandonare l’Unione); quanto l’ipotesi in cui esso, entro il suddetto periodo, non riesca a completarsi. Nel primo caso, il Regno Unito uscirebbe dall’Unione, e i Trattati cesserebbero di essere a esso applicabili, a decorrere dal giorno dell’entrata in vigore dell’Accordo di recesso, sottoscritto e ratificato da entrambi i contraenti. Sarebbe anche possibile, se le Parti lo ritenessero opportuno, applicare in via provvisoria alcune clausole dell’Accordo prima della sua entrata in vigore, a far data dalla firma (art. 218, par. 5, TFUE). Se, al contrario, il biennio (e la sua eventuale estensione) prescritti dall’art. 50 trascorressero invano, il recesso opererebbe comunque, in automatico, e i Trattati da quel momento non sarebbero ugualmente più applicabili al Regno Unito. Nel periodo intercorrente tra la notifica al Consiglio europeo della sua intenzione di recedere dall’Unione e l’entrata in vigore dell’Accordo di recesso (o fintantoché non si esaurisca il periodo utile per il negoziato), il Regno Unito resterebbe peraltro membro dell’Unione europea a pieno titolo. L’unica eccezione, prevista dall’art. 50, par. 4, TUE, consiste infatti nel mancato coinvolgimento dello Stato membro interessato in tutte le decisioni e deliberazioni che vadano assunte in relazione al recesso stesso. Come già accennato, il Primo Ministro britannico non potrebbe intervenire alle riunioni con le quali il Consiglio europeo sarebbe chiamato a definire gli orientamenti per il negoziato o a posticiparne la fine; i rappresentanti britannici (rispettivamente, ministri o equivalenti e diplomatici) non potrebbero partecipare né alle sedute del Consiglio convocate ai sensi dell’art. 218 TFUE e dell’art. 50, par. 2, TFUE, né alle riunioni del Comitato dei rappresentanti permanenti degli Stati membri (COREPER I e II) ad esse propedeutiche; i funzionari, gli agenti e, nel complesso, il personale impiegato nell’Unione con cittadinanza britannica non potrebbero essere preposti ad attività connesse all’iter di recesso. Tutti manterrebbero però intatto e inalterato il proprio ruolo in qualsiasi altra occasione. Va da sé che i cittadini britannici continuerebbero senza dubbio a vantare pienamente i diritti loro attribuiti dalla cittadinanza dell’Unione (Piris, p. 114).
L’uscita del Regno Unito dall’Unione europea (che, se sancita dal referendum, non potrebbe essere fermata e rispetto alla quale non ci si potrebbe opporre) avrebbe delle ripercussioni che nessuno, per il momento, è in grado di calcolare e definire con certezza. I sostenitori del ritiro britannico (tra questi, l’United Kingdom Independence Party e diverse frange del Partito Conservatore, ufficialmente neutrale) ritengono che esso consentirebbe al Regno Unito, riappropriatosi della sua sovranità, di controllare l’immigrazione, di rivestire una posizione migliore nella conduzione delle proprie trattative commerciali e di liberarsi dai vincoli imposti dai regolamenti e dalla burocrazia europei. I sostenitori della permanenza nell’Unione (i Partiti Laburista, Liberal Democratico e Nazionalista Scozzese, alcune multinazionali e il settore bancario in generale, tra gli altri) ritengono, al contrario, che un recesso comprometterebbe la prosperità del Regno Unito, diminuirebbe la sua influenza a livello internazionale, metterebbe in pericolo persino la sicurezza nazionale (in quanto verrebbe ridotto l’accesso alle banche dati comuni europee sul crimine) e creerebbe barriere commerciali con l’Unione europea; si subirebbero perdite di posti di lavoro, ritardi negli investimenti e non sarebbero evitabili seri rischi per le imprese.
Una cosa è indubbia: il recesso del Regno Unito dall’Unione europea, seppure si consumasse, non troncherebbe di netto i legami storici, geografici ed economici da sempre sussistenti con l’Europa continentale. Bisognerebbe invece, è appena il caso di dirlo, impostare nuovi collegamenti (commerciali e non solo) con l’Unione (il «quadro delle future relazioni» di cui parla l’art. 50 TUE, da considerare nel percorso verso l’Accordo di recesso e altrettanto da considerare se a tale Accordo non si riuscisse ad arrivare), così da disciplinare l’inevitabile: la posizione di merci, persone, servizi e capitali britannici rispetto alle libertà di circolazione garantite dai Trattati, ovvero le future condizioni di ingresso del Regno Unito nel mercato interno. È perciò evidente quale sarebbe la vera sfida per il Regno Unito: costruire una rinnovata interazione con l’Unione europea, ossia con un’area di destinazione naturale per i cittadini, le imprese e i prodotti britannici; e con i suoi Stati membri, cioè con quelli che sono attualmente i partner commerciali principali (il Centre for European Reform di Londra ha calcolato un incremento, dal 1973 a oggi, pari al 55% delle esportazioni dalla Gran Bretagna verso tali Stati).
All’interno di quale cornice giuridica e su quali fondamenta normative concepire allora i rapporti tra Regno Unito e Unione europea all’indomani di un risultato referendario favorevole al recesso? Gli scenari presumibilmente immaginabili, alternativi alla permanenza nell’Unione, sembrano essere diversi: alcuni più, altri meno (o molto meno) plausibili, ma tutti astrattamente possibili (Piris, p. 117 ss.).
Il negoziato per giungere all’Accordo di recesso sarebbe di sicuro una sede idonea per tentare di dare alle nuove relazioni tra Regno Unito e Unione europea una struttura adeguata, al fine di rendere la separazione meno traumatica. L’Accordo di recesso vero e proprio potrebbe recare disposizioni al riguardo, oppure si potrebbero abbinare a esso uno o più strumenti ad hoc, i quali dovrebbero però assumere forma mista (con ratifica dei rimanenti Stati membri dell’Unione, nonostante l’art. 50 TUE non la richieda) qualora concernessero impegni per il Regno Unito su materie di competenza concorrente, sulla politica estera e di sicurezza comune (PESC) o sulla politica di sicurezza e difesa comune (PSDC) (Łazowski, p. 118 s.). Nel corso delle trattative, il Regno Unito e l’Unione (con la Commissione in veste di negoziatore) si fronteggerebbero quali portatori di punti di vista contrapposti. Il Regno Unito, dando per scontati gli opt out odierni, vorrebbe trarre tutti i benefici che determinate politiche dell’Unione possono procurare. Sarebbe perciò fautore di un approccio settoriale e tenterebbe di ottenere una partecipazione al mercato interno in settori specifici che tengano conto degli interessi britannici (escludendo, ad esempio, la politica agricola comune, la pesca, la coesione economica e sociale). Non potrebbe però evitare di dover comunque rispettare il diritto dell’Unione primario e derivato, vigente nei settori suddetti (senza poter più votare per adottarlo o modificarlo), in quanto discriminazioni tra gli operatori economici nel mercato stesso non sarebbero tollerabili. L’Unione resisterebbe al supposto approccio settoriale, difenderebbe la sua autonomia decisionale e probabilmente vorrebbe mantenere il controllo del rispetto degli obblighi giuridici assunti dal Regno Unito. Non si può escludere che sull’andamento della discussione influirebbe il contenuto della decisione dei Capi di Stato e di Governo e delle dichiarazioni allegate, approvate dal Consiglio europeo del 18-19 febbraio 2016 e sopra richiamate. Il Regno Unito, divenuto Stato terzo, si vedrebbe anche costretto a ridefinire i suoi rapporti con lo Spazio economico europeo (SEE), nel quale è attualmente coinvolto come membro dell’Unione, tramite apposito trattato internazionale da siglare con l’Unione, gli Stati membri di questa e del SEE e gli Stati non membri dell’Unione ma membri del SEE (Islanda, Liechtenstein e Norvegia).
Una seconda opzione per il Regno Unito che decidesse di lasciare l’Unione, sarebbe quella di riaderire all’Associazione europea di libero scambio (EFTA), organizzazione della quale era stato membro fino al 31 dicembre 1972, attivando, nelle more del termine di cui all’art. 50, par. 3, TUE, la procedura prevista dall’art. 56 della Convenzione di Stoccolma del 4 gennaio 1960 (come emendata a Vaduz il 21 giugno 2001). Così facendo, il Regno Unito potrebbe aggiungersi all’Islanda, al Liechtenstein e alla Norvegia (Stati membri dell’EFTA) quale partecipante al SEE sopra menzionato; o potrebbe anche preferire di rimanere nell’EFTA senza partecipare al SEE (v. Burke, Hannesson, Bangsund, p. 77 ss.).
Lo Spazio economico europeo è stato costituito mediante l’Accordo di Porto del 2 maggio 1992 (Accordo SEE), in vigore tra ventisette Stati membri dell’Unione europea (ne è esclusa, per ora, la Croazia) e tre Stati membri dell’EFTA, ossia l’Islanda, il Liechtenstein e la Norvegia (non la Svizzera). In virtù di esso, i suddetti Stati membri dell’EFTA possono usufruire del mercato interno dell’Unione pur non essendo Parti dell’Unione medesima. Essi adottano quasi tutta la legislazione comunitaria e dell’Unione relativa al mercato interno (libera circolazione di merci, persone, servizi e capitali; concorrenza; protezione dei consumatori; ecc.), a eccezione delle norme sull’agricoltura e sulla pesca. L’Accordo SEE non prevede il coordinamento delle tariffe doganali, e non dà perciò luogo a un’unione doganale. La scelta del Regno Unito di entrare nello Spazio economico europeo in qualità di (nuovo) membro dell’EFTA, ai sensi dell’art. 128 dell’Accordo SEE (scelta da alcuni ritenuta ottimale: cfr. Burke, Hannesson, Bangsund, p. 69 ss.), avrebbe dunque il pregio della linearità, in quanto si rimarrebbe nel solco di una realtà ben conosciuta e ormai consolidata. È tuttavia arduo pensare che il Regno Unito (membro dell’EFTA e non più dell’Unione europea) possa acconsentire a determinati vincoli derivanti dall’Accordo SEE, trascurabili magari per un membro del SEE che sia anche membro dell’Unione, ma gravosi e sgraditi per uno Stato tornato nell’EFTA appunto per non essere più “sottomesso” all’Unione: ad esempio, il doversi esprimere “con una sola voce”, insieme agli altri Stati membri dell’EFTA, in seno al Comitato misto SEE (art. 93 dell’Accordo SEE); il dover integrare nell’ordinamento britannico tutti i nuovi atti dell’Unione inerenti al mercato interno, senza avere (più) il diritto di influenzarne sostanzialmente il contenuto (art. 102 dell’Accordo SEE); il dover tenere conto dei poteri conferiti all’Autorità di vigilanza EFTA e alla Corte di giustizia EFTA (art. 108 dell’Accordo SEE) (Piris, p. 121; v. sul punto le notazioni di Burke, Hannesson, Bangsund, p. 82 s.). Il modello in questione sta inoltre presentando dei problemi, tant’è che nelle Conclusioni del Consiglio Affari Generali del 16 dicembre 2014 sono stati sottolineati con preoccupazione «i ricorrenti arretrati e ritardi registrati durante l’intero processo di integrazione della legislazione dell’UE nell’accordo SEE, come pure nell’attuazione e applicazione della legislazione pertinente negli Stati SEE-EFTA». In tale contesto, pur accogliendo con favore «gli sforzi compiuti dagli Stati SEE-EFTA negli ultimi anni per accelerare il ritmo dell’integrazione», il Consiglio si è rammaricato del fatto che essi siano «ancora insufficienti per affrontare efficacemente e complessivamente i problemi esistenti» e ha osservato, in particolare, come «l’ampio ricorso alla possibilità prevista dall’accordo di chiedere adattamenti e deroghe, nonché i ritardi nel soddisfacimento dei requisiti costituzionali e nell’attuazione e nell’applicazione della legislazione SEE già adottata negli Stati SEE-EFTA», contribuiscano a una frammentazione del mercato interno e a una asimmetria dei diritti e degli obblighi degli operatori economici che non giovano alla competitività globale dello Spazio economico europeo.
Se il Regno Unito ridiventasse membro dell’EFTA senza entrare però nel SEE, sarebbe necessario concludere con l’Unione un accordo di libero scambio analogo a quelli stipulati in passato dalla Comunità economica europea con i singoli Stati membri dell’EFTA (alcuni decaduti man mano che i contraenti hanno aderito alle Comunità, altri surrogati dall’Accordo SEE) nonché a quelli, ancora in vigore, conclusi dagli Stati membri dell’EFTA con numerosi Stati terzi e con organizzazioni internazionali. Le relazioni che verrebbero a instaurarsi di riflesso tra il Regno Unito e il SEE dovrebbero peraltro essere oggetto di un accordo multilaterale tra il Regno Unito, l’Unione europea, i ventisei Stati membri dell’Unione partecipanti al SEE e i tre Stati membri dell’EFTA anch’essi partecipanti al SEE.
Nel ridisegnare i loro rapporti reciproci dopo il recesso, il Regno Unito (a prescindere da un suo rientro nell’EFTA) e l’Unione potrebbero altresì orientarsi verso un assetto ispirato al meccanismo che lega attualmente l’Unione europea e la Svizzera (Stato membro dell’EFTA ma non del SEE), con un accordo di libero scambio (Accordo di Bruxelles del 22 luglio 1972) corredato da una serie di accordi bilaterali settoriali, tra i quali quelli del “pacchetto I”, del 1999 (su libera circolazione delle persone; trasporti terrestri e aerei; agricoltura; ostacoli tecnici al commercio; forniture alla pubblica amministrazione; ricerca scientifica) e del “pacchetto II”, del 2004 (su giustizia, sicurezza, asilo e immigrazione; fiscalità e risparmio; lotta alle frodi; prodotti agricoli trasformati; ambiente; statistica; pensioni; educazione, formazione professionale e gioventù), che includono un’ampia gamma di politiche dell’Unione, compresa la partecipazione della Svizzera a molteplici elementi del mercato interno. La soluzione sarebbe forse gradita al Regno Unito (gli accordi bilaterali di cui sopra sono basati su una cooperazione internazionale di stampo classico, non contemplando essi il trasferimento di competenze normative e decisionali a favore di un’istanza sovranazionale, ed essendo ogni Parte contraente responsabile della loro corretta attuazione sul proprio territorio), ma sarebbe probabilmente respinta dall’Unione, che auspica da tempo un ripensamento e un cambiamento del modello in questione (Burke, Hannesson, Bangsund, p. 96). Nelle Conclusioni dei Consigli Affari Generali tenutisi a Bruxelles il 14 dicembre 2010 e il 20 dicembre 2012, le relazioni con la Svizzera sono state infatti descritte come molto complesse, tali da non garantire la necessaria omogeneità e generatrici di incertezza; il 6 maggio 2014 il Consiglio ha autorizzato «l’avvio di negoziati su un accordo tra l’Unione europea e la Svizzera relativo a un quadro istituzionale» che sovrintenda alle relazioni reciproche.
Altra strada teoricamente percorribile dal Regno Unito e dall’Unione europea sarebbe quella di un accordo di associazione basato sull’art. 217 TFUE, conforme a quelli tuttora sussistenti tra l’Unione (stipulante originaria o succeduta alle Comunità europee) e vari Stati terzi, europei ed extraeuropei, caratterizzati, come afferma l’art. 217, «da diritti ed obblighi reciproci, da azioni in comune e da procedure particolari». Potrebbe essere, un accomodamento simile, gratificante per il Regno Unito? È ragionevole credere di no. Gli accordi di associazione creano relazioni assai intense tra le Parti, con una fitta rete di diritti e obblighi reciproci molto più penetranti di quelli che nascono da accordi di altro genere, e predispongono una struttura istituzionale con organi espressivi sia di una cooperazione intergovernativa, sia di una collaborazione a livello parlamentare. La reciprocità di diritti e obblighi non comporta però una completa parità dei contraenti. Inoltre, gli accordi di associazione, per le cui norme la giurisprudenza della Corte di giustizia non nega la possibilità di efficacia diretta (purché esse implichino obblighi chiari e precisi, i cui effetti non dipendano dall’adozione di provvedimenti ulteriori, e purché l’accordo di riferimento abbia un contenuto e uno scopo appropriati) non concedono agli Stati associati un accesso sostanziale al mercato interno dell’Unione. Si potrebbe immaginare uno schema associativo più avanzato, paragonabile a quello esistente con la Turchia, il quale, partendo dall’Accordo di Ankara del 12 settembre 1963, ha avuto poi una significativa evoluzione con l’adozione, a opera del Consiglio di associazione CE-Turchia (organo istituito dallo stesso Accordo di Ankara), della decisione n. 1/95 del 22 dicembre 1995, relativa all’attuazione della fase finale dell’unione doganale, entrata in vigore il 31 dicembre 1995. A meno di accorgimenti normativi diversi e più favorevoli, che non è possibile al momento anticipare (e che altererebbero gli equilibri consueti delineati finora in un rapporto associativo instaurato dall’Unione con Stati terzi), il Regno Unito non avrebbe tuttavia il potere di fissare le tariffe doganali, dovendo applicare quelle indicate dall’Unione. Inoltre, sarebbero mantenute delle restrizioni notevoli all’accesso al mercato interno.
Un recesso non accompagnato da alcun tipo di accordo (per cui il Regno Unito si posizionerebbe, rispetto all’Unione europea, quale Stato terzo privo di “coperture” consone) avrebbe degli effetti seri e dirompenti, per adesso prefigurabili soltanto sommariamente (Łazowski, p. 121 ss.; Piris, p. 126 ss.). È evidente, innanzitutto, che dal momento in cui l’uscita venisse a perfezionarsi (alla scadenza del termine dettato dall’art. 50, par. 3, TUE), il Regno Unito sarebbe immediatamente libero da qualsiasi obbligo di applicare il diritto dell’Unione, primario, intermedio e derivato, nei territori e negli spazi (metropolitani e non, europei e ultramarini) sottoposti alla sua sovranità, come definiti nell’art. 52 TUE, nell’art. 355 TFUE, nell’Allegato II al TFUE (per quanto concerne lo speciale regime di associazione disciplinato dalla Parte IV del TFUE medesimo), nel Trattato di Bruxelles del 22 gennaio 1972 (in merito alle isole Normanne e all’isola di Man) e nel Protocollo n. 3 allegato al Trattato di Atene del 16 aprile 2003 (al fine di attuare quanto disposto da detto Protocollo per le zone di Akrotiri e Dhekelia a Cipro). Parallelamente, i restanti Stati membri dell’Unione europea non sarebbero più vincolati al rispetto del diritto dell’Unione nei confronti del Regno Unito, dei suoi cittadini e delle persone giuridiche di diritto britannico. Il legislatore britannico dovrebbe adoperarsi prontamente per colmare il vuoto normativo che si verrebbe a determinare a causa del superamento dell’European Communities Act del 17 ottobre 1972, soprattutto in relazione ai regolamenti comunitari e dell’Unione (i quali andrebbero sostituiti da apposite norme nazionali), mentre per le direttive e le decisioni individuali rivolte allo Stato, comunitarie e dell’Unione, nonché per le decisioni quadro dell’ex Terzo Pilastro si potrebbe scegliere quali disposizioni interne di recepimento mantenere, modificare o abrogare. Gli orientamenti generali e le decisioni PESC decadrebbero ipso iure (Łazowski, p. 121 ss.). I cittadini britannici residenti negli Stati membri dell’Unione e i cittadini degli Stati membri dell’Unione residenti in Gran Bretagna non potrebbero più esercitare i diritti derivanti dalla cittadinanza dell’Unione, della quale non sarebbero più titolari (i primi in assoluto, i secondi in relazione allo Stato di residenza) (Burke, Hannesson, Bangsund, p. 74 s.). In mancanza di un accordo internazionale che il Regno Unito dovrebbe urgentemente concludere a loro tutela (per mezzo del quale si potrebbero anche riconoscere, con garanzia di reciprocità, i diritti acquisiti, altrimenti non invocabili), i cittadini britannici che vivessero nell’Unione manterrebbero solo ed esclusivamente i diritti attribuiti ai cittadini di Stati terzi: tra gli altri, quelli riguardanti il ricongiungimento familiare (direttiva 2003/86/CE); i soggiornanti di lungo periodo (direttiva 2003/109/CE); i familiari di cittadini dell’Unione (direttiva 2004/38/CE); l’ammissione per motivi di studio, scambio di alunni, tirocinio non retribuito o volontariato (direttiva 2004/114/CE); l’ammissione a fini di ricerca scientifica (direttiva 2005/71/CE); e le persone che intendano svolgere lavori altamente qualificati (direttiva 2009/50/CE). I cittadini degli Stati membri dell’Unione residenti in Gran Bretagna sarebbero viceversa pienamente soggetti alla normativa britannica sull’immigrazione; potrebbero reclamare i diritti che gli atti comunitari e dell’Unione conferiscono ai cittadini di Stati terzi solo se, e nella misura in cui, essi fossero confermati nell’ordinamento britannico. Logicamente, entrambe le categorie conserverebbero, nei luoghi e ordinamenti rispettivi, i diritti riconosciuti e protetti in parallelo dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, per come e nel senso in cui la Convenzione e la Corte europea dei diritti dell’uomo li intendono e interpretano; e dalle Carte sociali elaborate dal Consiglio d’Europa nel 1961 e nel 1996, come applicate nei singoli Stati membri dell’Unione e in Gran Bretagna.
D’altro canto, le imprese britanniche e le imprese degli altri Stati membri dell’Unione non godrebbero più, vicendevolmente, del diritto di stabilimento. Dal punto di vista degli scambi commerciali, cesserebbero di avere valore per il Regno Unito tutti gli accordi internazionali conclusi dalla Comunità e dall’Unione europea nell’ambito della politica commerciale comune (art. 207 TFUE). Si tratta di un settore in cui l’Unione ha competenza esclusiva (art. 3, par. 1, TFUE), che il Regno Unito dovrebbe tornare a gestire in prima persona dopo oltre quaranta anni, rinegoziando uti singulus ed ex novo gli accordi suddetti con una forza contrattuale, però, non equiparabile a quella dell’Unione (Łazowski, p. 126 s.). Non appartenendo più il Regno Unito all’unione doganale, si applicherebbero alle merci britanniche i dazi della tariffa doganale comune stabiliti dal Consiglio su proposta della Commissione, trovandosi poi esse in libera pratica negli Stati membri. Non si può neanche escludere che, per continuare a esportare verso l’Unione (si deve supporre, come detto in precedenza, che rimanga questo il mercato di destinazione principale), il Regno Unito verrebbe a trovarsi nella condizione di dover ugualmente rendere i propri prodotti conformi agli standard pretesi dalla normativa dell’Unione (Piris, p. 126).
Gli scenari virtuali, dovesse dal referendum del 23 giugno 2016 scaturire un verdetto pro recesso, sono dunque quanto mai assortiti, con differenti possibilità di compromesso. L’auspicio è sicuramente quello per cui l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea venga guidata e organizzata da ambedue le Parti nel modo migliore in tutti i suoi vari aspetti. L’opzione più soddisfacente sembra essere rappresentata, come dianzi prospettato, da uno o più strumenti internazionali elaborati insieme all’Accordo di recesso, nella cornice negoziale delineata dall’art. 50 TUE in combinato disposto con l’art. 218 TFUE, affinché un Regno Unito non più membro dell’Unione europea ma pur sempre protagonista di spicco del progetto geopolitico occidentale, prosegua nelle proprie (ineliminabili) relazioni con l’Unione, i suoi Stati membri, gli Stati membri dell’EFTA e del SEE e il SEE stesso, instaurando azioni sinergiche tanto sotto il profilo economico (mercato interno rilevante), quanto sotto il profilo politico (PESC e PSDC). In caso contrario, un abbandono disavveduto, non sorretto da accortezza e lungimiranza, avrebbe fortissimi contraccolpi sia in campo politico, economico e finanziario (come sottolineato di recente dai Capi di Stato e di Governo e dai Ministri dell’Economia degli Stati del Gruppo dei Sette, o G7, riunitisi nel Vertice di Shima del 26-27 maggio 2016), sia nei confronti di molti cittadini e imprese.
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