diritto internazionale pubblico

Emergenze sanitarie globali e diritto internazionale: l’accesso agli agenti patogeni e alle relative sequenze genetiche

Simone Vezzani, Università di Perugia

La diffusione di epidemie costituisce, da sempre, uno dei flagelli che segnano la storia dell’umanità. Come mostra, da ultimo, il caso del virus ebola, il progresso delle scienze mediche ha consentito di produrre vaccini capaci di immunizzare contro agenti patogeni particolarmente virulenti, così come medicinali che riducono significativamente il tasso di mortalità. In ogni caso, per contrastare efficacemente la diffusione di malattie infettive a potenziale pandemico, è necessario che i virus, o gli altri microorganismi patogeni, siano messi a disposizione in maniera tempestiva di laboratori adeguatamente attrezzati, dotati dei mezzi tecnici per isolarli e intraprendere le attività di ricerca e sviluppo preliminari alla produzione su vasta scala di vaccini e farmaci (si veda l’Editoriale del numero della rivista Nature dell’11 febbraio 2016, p. 129).

Nel 2007, mentre la comunità internazionale temeva una diffusione a livello planetario dell’influenza H5N1 (c.d. «influenza aviaria»), fece molto discutere la decisione dell’Indonesia, luogo di origine dell’epidemia, di non condividere i campioni biologici prelevati dai pazienti attraverso la rete di laboratori coordinati dall’OMS per il monitoraggio dei virus influenzali (network GISN, dal 2011 ridenominato GISRS). Il Governo indonesiano intendeva così denunciare l’iniquità del sistema internazionale di contrasto alle pandemie. Sottolineava in particolare come, a fronte del regime di libero accesso ai virus, le imprese farmaceutiche potessero ottenere brevetti sulle invenzioni realizzate a partire dai campioni biologici condivisi, conseguendo ingenti profitti grazie alla produzione di vaccini, kit diagnostici e farmaci antivirali, venduti a prezzi inaccessibili a gran parte della popolazione nei Paesi in via di sviluppo, ivi compresi quelli fornitori dei virus (sulla brevettabilità dei virus e dei vaccini influenzali v. WIPO, Patent Issues Related to Influenza Viruses and their Genes, expert report (2007)). Nella c.d. «Dichiarazione di Jakarta», il Ministro indonesiano della Salute giustificò il diniego di accesso ai virus influenzali facendo riferimento al principio di sovranità dello Stato sulle risorse genetiche del proprio territorio, quale sancito dall’art. 15 della Convenzione di Rio sulla diversità biologica (su questa rivendicazione di «viral sovereignty» v. Lawson, Hocking, “Accessing and Benefit Sharing Avian Influenza Viruses Through the World Health Organization. A CBC and TRIPS Compromise Thanks to Indonesia’s Sovereignty Claim?”, in Pogge et. al., p. 284 ss.; Smallman, p. 20 ss.).

La crisi diplomatica aperta dalla Dichiarazione di Jakarta venne risolta, nel 2011, con l’approvazione da parte dell’OMS del Pandemic Influenza Preparedness Framework for the Sharing of Viruses and Access to Vaccines and Other Benefits (da qui innanzi: Framework), avvenuta attraverso una risoluzione non vincolante dell’Assemblea mondiale della sanità, ex art. 23 della Costituzione OMS (ris. 24 maggio 2011, WHA64.5, sulla quale v. Gostin e Fidler, p. 200 ss.; Castro Bernieri). Il Framework assicura che i virus influenzali a potenziale pandemico siano condivisi attraverso i laboratori GISRS, in modo da risultare accessibili tempestivamente alla comunità scientifica, prevedendo al contempo un meccanismo teso ad assicurare un più equo accesso a vaccini e antivirali a favore dei Paesi in via di sviluppo (Marceau, p. 4 s.). L’intervento dell’OMS può essere utilmente confrontato con quello realizzato dalla FAO con l’adozione del Trattato FAO sulle risorse fitogenetiche per l’alimentazione e l’agricoltura. In entrambi i casi, l’istituto specializzato delle Nazioni Unite competente ratione materiae è dovuto intervenire per scongiurare una possibile «tragedia degli anticommons» – in conseguenza, da un lato, delle rivendicazioni sovrane sulle risorse genetiche e, dall’altro, dell’attribuzione a privati di diritti di esclusiva – che avrebbe potuto restringere drammaticamente l’accesso a risorse indispensabili per il godimento di diritti fondamentali come il diritto al cibo e il diritto alla salute.

Il Framework prevede che lo scambio fra i laboratori aderenti al GISRS avvenga attraverso un contratto che incorpora alcune clausole standardizzate contenute in uno Standard Material Transfer Agreement (SMTA1); a loro volta, per poter usufruire dei campioni, le imprese e i centri di ricerca devono concludere, con detti laboratori, un contratto redatto sulla base di un secondo modello contrattuale (SMTA2. I contratti conclusi sino ad oggi sono consultabili qui). Se dunque la risoluzione che ha adottato il Framework non produce obblighi in capo agli Stati membri dell’OMS, le imprese e i centri di ricerca, beneficiari dei campioni biologici contenenti i virus, sono vincolati contrattualmente a trasferire all’OMS parte dei benefici della ricerca, derivanti dall’utilizzo delle risorse genetiche incluse nel Framework. In un’ottica redistributiva, gli enti beneficiari devono pagare un contributo annuale al funzionamento del sistema e assumersi almeno due impegni contrattuali nell’ambito di una lista di 6 possibili opzioni, che comprendono: l’obbligo di donare all’OMS il 10% dei vaccini/antivirali prodotti; l’obbligo di vendere il 10% degli stessi ad un prezzo agevolato; la concessione, alle imprese nei Paesi in via di sviluppo oppure all’OMS, di licenze a titolo gratuito o comunque che prevedono il pagamento di royalties accessibili.

Rispetto ad alcune soluzioni emerse nel corso del negoziato, che chi scrive aveva avuto modo di commentare alcuni mesi prima dell’approvazione della risoluzione WHA64.5 (Vezzani, p. 675 ss.), il Framework ha attenuato significativamente la portata degli obblighi a carico delle imprese e dei centri di ricerca beneficiari del sistema multilaterale. Nessuna limitazione è stata prevista alla possibilità per questi ultimi di conseguire diritti di proprietà intellettuale sui prodotti e i procedimenti realizzati grazie all’accesso ai materiali condivisi. Inoltre il Framework lascia al negoziato fra le parti contraenti dei singoli contratti la definizione di aspetti determinanti, quali la legge applicabile o le norme regolatrici degli eventuali procedimenti arbitrali. Non stupisce che, proprio in ragione di questa “flessibilità”, il Framework sia stato oggetto di numerose critiche da parte degli studiosi maggiormente sensibili alle istanze del Paesi poveri e alle esigenze di giustizia sanitaria globale (v. per tutti Krishnamurthy). Inoltre, problemi di funzionamento, connessi tanto al numero ridotto di contratti conclusi per il trasferimento dei materiali, quanto ai contributi effettivamente versati da imprese e centri di ricerca, sono stati messi in evidenza dallo stesso Segretariato del Framework (Doc. EB138/21, 8 gennaio 2016). È auspicabile che tutti i correttivi necessari siano individuati nel corso del negoziato attualmente in corso, che dovrebbe portare alla revisione del Framework fra 2016 e 2017.

Due sono le questioni principali sui quali si stanno concentrando i lavori dell’OMS e il negoziato intergovernativo (v. sul punto Saez 2016a). Il primo profilo riguarda l’accesso alle informazioni genetiche, nonché il coordinamento del Framework col regime di protezione della proprietà intellettuale sulla banche dati informatiche. La seconda questione verte sulla possibile estensione dell’ambito di applicazione ratione materiae del Framework, in modo da ricomprendere la condivisione di altri microrganismi patogeni.

Per quanto riguarda il primo profilo, occorre sottolineare che, grazie agli sviluppi delle scienze mediche, è divenuto possibile produrre vaccini anche senza bisogno di entrare fisicamente in possesso dei campioni biologici, utilizzando cioè le informazioni ricavabili dai database contenenti le sequenze genetiche degli agenti patogeni. Invero, già durante la diffusione della SARS (2003), dell’H1N1 (2009) e del virus ebola in Guinea e Sierra Leone (2014), la divulgazione delle sequenze genetiche, attraverso database o forum liberamente accessibili online, come GenBank o virological.org, ha avuto un ruolo fondamentale per l’identificazione dei virus e la comprensione delle loro caratteristiche (Yozwiak et al., p. 477 ss.). I progressi della c.d. «biologia sintetica» (che nel 2016 hanno reso possibile la realizzazione in laboratorio del primo batterio sintetico) dovrebbero invero suscitare una riflessione di più ampia portata, con riferimento all’applicazione della stessa Convenzione di Rio sulla biodiversità e al suo Protocollo di Nagoya, nonché del già ricordato Trattato FAO (cfr. Warthmann e Chiarolla). Già nel 2013 un gruppo di lavoro di esperti era stato incaricato nell’ambito del Framework di fornire informazioni tecniche circa il trasferimento dei dati genetici relativi ai virus influenzali pandemici (il rapporto finale del gruppo di lavoro, del 10 ottobre 2014, è consultabile qui). La questione – assai complessa e che non può essere approfondita oltre in questa sede – è attualmente all’esame di un Technical Working Group, creato nell’aprile 2015, col compito di predisporre un documento sulla condivisione delle informazioni genetiche, in vista di una sua integrazione nel Framework (i documenti elaborati fino ad oggi sono reperibili qui).

Venendo al secondo profilo, come si è detto, l’ambito di applicazione del Framework è limitato ai virus influenzali pandemici (restando esclusi gli stessi virus influenzali stagionali), per ragioni contingenti legate alle circostanze che hanno portato alla sua adozione. Tuttavia, le problematiche connesse alla condivisione dei campioni biologici e alla ripartizione dei benefici si pongono con drammatica urgenza in relazione a tutti i virus e altri microrganismi pandemici. Basti pensare che, fra 2012 e 2013, una controversia analoga a quella aperta dalla Dichiarazione di Jakarta è insorta in merito alla mancata condivisione, da parte dell’Arabia Saudita, di alcuni campioni di coronavirus MERS (Gostin, p. 100 ss.). Più recentemente, il problema di un contemperamento fra le esigenze della sicurezza sanitaria globale e le rivendicazioni degli Stati di origine delle risorse genetiche si è posto con riferimento all’epidemia di zika che ha colpito l’America Latina (Saez 2016b). In assenza di una specifica normativa internazionale in materia, è incerto se i microrganismi dannosi per l’uomo rientrino nel campo di applicazione di un trattato che, come la Convenzione di Rio, ha come oggetto e scopo la conservazione e l’uso sostenibile della biodiversità (cfr. Vezzani, op. cit., p. 678 s.; Abbott, p. 11; al contrario, è pacifico che la Convenzione disciplini l’accesso ai microrganismi che presentano un’utilità ai fini dell’alimentazione o dell’agricoltura: Halewood, p. 404 ss.). Gli Stati contraenti non hanno preso sul punto una posizione chiara nell’ambito delle COP, le cui decisioni sarebbero certamente idonee ad integrare un «subsequent agreement» o una «subsequent practice» ai sensi dell’art. 31, par. 3, lett. a) e b), della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati (si confrontino i primi due rapporti presentati alla Commissione del diritto internazionale dal Relatore Speciale Nolte, Doc. A/CN.4/660 e Doc. A/CN.4/671). Nel corso del negoziato del Protocollo di Nagoya erano state invero avanzate alcune proposte, volte ad includere espressamente gli agenti patogeni umani nell’ambito di applicazione del Protocollo (Abbott, op. cit., p. 14 ss.). Alla fine, tuttavia, è stata adottata una soluzione di compromesso che lascia sostanzialmente irrisolta la questione, rinviando, all’art. 3, alla nozione di «risorse genetiche» accolta dalla Convenzione di Rio. Non pare decisivo il fatto che il Preambolo del Protocollo (punto 17) menzioni la necessità di assicurare l’accesso ai patogeni umani, né che l’art. 8, lett. b), enunci in termini vaghi l’obbligo per gli Stati di prendere in considerazione l’esigenza di un rapido accesso alle (non meglio specificate) risorse genetiche, in caso di minacce urgenti alla salute umana, congiuntamente all’esigenza di garantire un’equa ripartizione dei benefici e un adeguato accesso ai farmaci (su queste disposizioni del Protocollo v. Wilke, “A Healthy Look at the Nagoya Protocol – Implications for Global Health Governance”, in Morgera et al. 2012, p. 123 ss.; Morgera et al. 2014, p. 102 s. e p. 185 ss.). Indicazioni discordanti provengono anche dalle legislazioni adottate dagli Stati contraenti e dall’UE per attuare la Convenzione di Rio e il suo Protocollo, nonché dalle dichiarazioni di alcuni Stati ed alti funzionari dell’OMS. Non sorprende quindi come, in una dichiarazione congiunta, i ministri della salute degli Stati industrializzati aderenti alla Global Health Security Initiative abbiano recentemente auspicato un chiarimento a livello internazionale del rapporto intercorrente fra Protocollo di Nagoya e accesso ai virus patogeni umani (dichiarazione congiunta 26 febbraio 2016, punto 11).

Anche ammettendo che la prassi degli Stati si stia orientando nel senso del riconoscimento della sovranità sui patogeni umani (ivi compresi i virus), resta evidente l’urgenza di porre in essere un regime più specifico rispetto a quello applicabile alla generalità delle risorse genetiche, preferibilmente gestito dall’OMS. Vero è che il «regime di Rio» prende in considerazione esigenze connesse alla ripartizione equa dei benefici; ugualmente la tutela della sicurezza sanitaria globale potrebbe trovare una tutela attraverso l’art. 15, par. 2, della Convenzione, il quale pone un divieto di abuso di diritto, vietando agli Stati di restringere in maniera irragionevole l’accesso alle risorse genetiche. Tuttavia, soltanto un regime multilaterale ad hoc è idoneo ad assicurare la tempestività della condivisione dei campioni biologici e una ripartizione dei benefici che superi una logica meramente bilateralistica, per perseguire una solidarietà a livello globale, anche a vantaggio di Paesi diversi da quelli di origine dei campioni utilizzati per produrre i vaccini.

In attesa dell’adozione di un regime internazionale sull’accesso ai microrganismi pandemici, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite potrebbe avere un ruolo importante nel raggiungimento degli obiettivi di cui sopra (v. anche Moon et al., dove si auspica la creazione, nell’ambito del Consiglio di Sicurezza, di un «Global Health Committee»). Come è noto, negli anni 2000 l’organo delle Nazioni Unite ha rivolto a più riprese la propria attenzione alla diffusione di pandemie capaci di mettere in ginocchio l’economia di interi Paesi e di provocare gravi tensioni sociali e politiche. In particolare, dopo aver dedicato nel 2000 una sessione speciale all’HIV, ha adottato due risoluzioni in merito a questa temibile malattia infettiva (risoluzioni n. 1308 (2000) e 1983 (2011); su tale prassi v. Poli (L.)). Ma soprattutto, con la risoluzione n. 2177 (2014), ha definito la diffusione di una pandemia, l’ebola, come una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale ex art. 39 della Carta di San Francisco (ivi). Questa «“securization” of public health» (Burci e Quirin) si pone in continuità con la tendenza, inaugurata all’inizio degli anni ’90, a interpretare in maniera sempre più estensiva la nozione di minaccia alla pace. Tuttavia, ad oggi, non sono state utilizzate le potenzialità che, ai fini del contrasto alle pandemie, possono essere dispiegate dal Capitolo VII della Carta. Nel caso della risoluzione n. 2177, è incerto se alcune delle raccomandazioni rivolte agli Stati potessero essere qualificate come misure provvisorie alla stregua dell’art. 40 (sul punto v. Poli, op. cit.). Certo è che il Consiglio di sicurezza non adottò nessuna misura coercitiva ai sensi degli art. 41 o 42 della Carta. A questo proposito è stato anzi osservato che «enforcement action in this case cannot be directed against particular “targets”, and the practical value of enforcement actions squarely placed under Chapter VII seems questionable». In effetti, il Consiglio di sicurezza si limitò a incoraggiare l’intensificazione degli sforzi della comunità internazionale e del settore privato, compresi quelli tesi allo sviluppo di vaccini e farmaci, nonché allo «sharing of data in accordante with applicable law» (ris. N. 2177 (2014), punto 12).

L’adozione di misure sanzionatorie ai sensi dell’art. 41 della Carta sarebbe viceversa prospettabile qualora uno Stato contribuisse al diffondersi di una pandemia, negando l’accesso ai microorganismi patogeni e alle relative informazioni genetiche. Si tratta – come mostra il caso indonesiano – di uno scenario che non è possibile escludere a priori.

Per altro verso, il Consiglio di sicurezza potrebbe avere un ruolo incisivo anche nei casi cui l’aggravarsi di una pandemia fosse dovuto all’inerzia degli Stati industrializzati, dotati dei mezzi necessari per la produzione di vaccini e farmaci e per la loro distribuzione alle popolazioni colpite. Evidenti ragioni di ordine politico rendono a dir poco improbabile l’adozione di sanzioni a carico degli Stati in siffatte circostanze. È possibile peraltro immaginare una soluzione alternativa. In linea con la prassi delle c.d. «smart sanctions», il Consiglio di sicurezza ben potrebbe sanzionare ex art. 41 della Carta le singole imprese farmaceutiche, titolari di brevetti, che non assecondino gli sforzi della comunità internazionale e si avvalgano abusivamente dei propri diritti di esclusiva, in modo da impedire la produzione, su scala sufficiente e a prezzi ragionevoli, dei vaccini e dei farmaci necessari per contrastare efficacemente una pandemia che minacci la sicurezza internazionale. La prassi del Consiglio di sicurezza non è certo nuova all’adozione di misure restrittive del diritto di proprietà di persone fisiche e giuridiche. In un’ottica analoga a quella che ha ispirato il Framework dell’OMS, e in assenza di un sistema multilaterale idoneo a contemperare in maniera accettabile tutti gli interessi e i valori in gioco, un intervento caso per caso del Consiglio di sicurezza – che vincoli gli Stati a limitare i diritti di proprietà intellettuale, onde assicurarne la funzione sociale – sarebbe certamente giustificato ed auspicabile.

 

 

 

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