Osservazioni a prima lettura sulla legge sulle unioni civili tra persone dello stesso sesso, nella prospettiva internazionalprivatistica
Livio Scaffidi Runchella, Ricercatore di diritto internazionale, Università degli Studi di Messina
1. La legge recante la regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze, approvata l’11 maggio 2016 (proposta di legge C. 3634), attribuisce alle coppie formate da persone dello stesso sesso i c.d. love rights, vale a dire il diritto al riconoscimento giuridico delle proprie relazioni affettive. Per le coppie omosessuali la possibilità di disporre di uno schema legale rappresenta un fondamentale miglioramento della propria condizione sia sotto il profilo della tutela giuridica, perché si superano tutte le carenze e le difficoltà date dalla mera supplenza giurisprudenziale, sia sotto il profilo dell’accettazione sociale, in ragione del valore anche simbolico che si attribuisce al riconoscimento giuridico.
Come emerge sin dal titolo della legge, lo strumento in commento mira a introdurre all’interno del nostro ordinamento due istituti ben distinti: le unioni civili e le convivenze di fatto. Il primo è destinato alle coppie same-sex, mentre il secondo è aperto sia alle coppie omosessuali sia alle coppie eterosessuali.
L’iter di approvazione della legge è stato lungo e travagliato e si è concluso con il voto di fiducia, prima al Senato della Repubblica poi alla Camera dei Deputati, sull’emendamento proposto dal governo che ha integralmente sostituito la proposta originaria c.d. Cirinnà (ddl S.14, assorbito dal ddl S.2081). A seguito di tale modifica, è peraltro venuta meno la suddivisione in titoli ed articoli, ciascuno con la propria rubrica, presenti nell’iniziale disegno di legge, per cui il testo adottato consiste in un unico articolo, suddiviso in ben 69 commi di difficile lettura, soprattutto per l’incoerente uso della tecnica redazionale del rinvio.
Il presente contributo, dopo alcune considerazioni preliminari, si propone di offrire qualche spunto di riflessione sulle questioni di profili di diritto internazionale privato sollevate dalla legge con riguardo al primo dei due istituti previsti, ovvero le unioni civili, disciplinate nei commi 2°-35°.
Il principale merito della legge è di colmare il vuoto di tutela giuridica oggi esistente, ponendo in tal modo rimedio all’asincronia fra la rilevanza sociale delle unioni omosessuali e la prolungata inerzia del legislatore che ha, sino a oggi, precluso alle coppie gay e lesbiche la possibilità di vivere le loro relazioni affettive senza dover subire ostacoli di sorta.
In proposito, sembra opportuno ricordare che il legislatore italiano è stato in più occasioni sollecitato a introdurre una disciplina giuridica di portata generale per regolare le relazioni fra persone dello stesso sesso.
In particolare, nel 2010, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 138, evidenziava come alle persone di orientamento omosessuale spettasse «il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri».
La Consulta ritornava nuovamente sulla questione nel 2014, con la sentenza n. 170 sul c.d. divorzio imposto in caso di rettificazione legale del sesso di uno dei coniugi. In tale occasione i giudici, ancora più esplicitamente, rilevavano come la condizione di una coppia, non più eterosessuale, fosse meritevole di tutela «in ragione del pregresso vissuto nel contesto di un regolare matrimonio» e come fosse compito del legislatore introdurre «con la massima sollecitudine» una forma giuridica che consentisse «ai due coniugi di evitare il passaggio da uno stato di massima protezione giuridica ad una condizione, su tal piano, di assoluta indeterminatezza».
L’obbligo di introdurre all’interno del nostro ordinamento un istituto generale di regolamentazione delle unioni fra persone dello stesso sesso ha poi assunto anche una valenza internazionale con la sentenza della Corte EDU del 21 luglio 2015 nel caso Oliari e altri c. Italia (ric. nn. 18766/11 e 36030/11). Secondo i giudici di Strasburgo, l’Italia ha violato l’art. 8 della Convenzione EDU e, in particolare, gli “obblighi positivi” che sono desumibili da tale norma, che consistono nella necessità di prevedere almeno una forma di riconoscimento giuridico delle relazioni stabili tra persone dello stesso sesso (in commento si veda il post di Matteo Winkler).
2. La legge – soprattutto in ragione dei cambiamenti apportati alla proposta originaria – muove da due esigenze contrapposte: per un verso, quella di accordare alle coppie omosessuali uno schema giuridico assimilabile al matrimonio; per l’altro, quella di evitare che la nuova regolamentazione giuridica possa far coincidere, sul piano degli effetti giuridici, l’unione civile e il matrimonio tradizionale.
La preoccupazione di differenziare l’istituto dell’unione civile da quello del matrimonio emerge sin dal comma 1° del testo in commento, laddove si afferma che viene istituita l’unione civile tra persone dello stesso sesso «quale specifica formazione sociale ai sensi degli artt. 2 e 3 della Costituzione».
L’individuazione dell’art. 2 Cost. quale fondamento dell’unione civile sembra indicare che il legislatore abbia voluto accodarsi alla tesi per la quale non sarebbe possibile estendere il matrimonio alle coppie dello stesso sesso, senza una modifica dell’art. 29 Cost. Secondo tale impostazione, anche il conferimento del medesimo trattamento giuridico alle coppie same-sex e coniugate, nel quadro di istituti giuridici diversi (matrimonio e unioni civili), sarebbe illegittimo giacché intaccherebbe il favor nei confronti del matrimonio e della famiglia tradizionale, desumibile dall’art. 29 Cost.
Tale tesi si fonda su alcuni argomenti sviluppati dai giudici costituzionali nelle sentenze n. 138 del 2010 e n. 170 del 2014. In particolare, nella seconda delle due decisioni, la Corte, dopo aver sottolineato l’impossibilità di intervenire con una pronuncia manipolativa che sostituisse il divorzio automatico con il divorzio a domanda, in quanto ciò sarebbe equivalso «a rendere possibile il perdurare del vincolo matrimoniale tra soggetti del medesimo sesso, in contrasto con l’art. 29 Cost.», esortava il legislatore a introdurre una “forma alternativa al matrimonio” per le coppie che, a seguito della sentenza di cambiamento del sesso, non possono più dirsi coppie di sesso opposto.
Se la questione della possibilità o meno di superare, tramite legge ordinaria, il “paradigma eterosessuale del matrimonio” rimane tutt’oggi assai controversa, dalla legge risulta invece chiaro come il nostro legislatore intenda optare per un separate but equal regime, ovvero un sistema in cui il riconoscimento dei diritti delle coppie omosessuali viene affidato all’introduzione di una forma giuridica ad hoc, alternativa al matrimonio (A. Koppelmann, Why Discrimination Against Lesbians and Gay Men is Sex Discrimination, in New York University Law Review, 1994, 197 ss.; Y. Merin, Equality for Same-Sex Couples: The Legal Recognition of Gay Partnerships in Europe and the United States, Chicago-London, 2002, p. 278 ss.).
Ciò non implica che il trattamento riservato ai membri dell’unione civile debba essere in tutti i casi disomogeneo rispetto a quello previsto per i coniugi; al contrario, considerato che la ratio del nuovo istituto è di offrire alle coppie same-sex una disciplina giuridica quale rimedio all’impossibilità di sposarsi, emerge l’esigenza di accordare diritti assimilabili a quelli che derivano dal matrimonio, che in questo senso rimane indubbiamente il modello di vita familiare di riferimento.
L’esigenza di equiparazione è esemplificata dalla clausola generale contenuta al comma 20° della legge che introduce una sorta di regime “a doppio binario”: per la disciplina del codice civile vale il principio per cui trovano applicazione soltanto le norme espressamente richiamate; per quanto riguarda le leggi speciali vale il principio opposto, nel senso che le disposizioni che si riferiscono al matrimonio, con l’esclusione della legge sull’adozione, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile.
Sulla base di tale ultima previsione vengono estesi alle parti delle unioni civili diritti e benefici di varia natura attualmente riconosciuti alle coppie coniugate (previdenziali, fiscali, assistenziali, nonché attinenti la materia sanitaria, giuslavoristica e dell’immigrazione). Come è stato osservato dalla dottrina (A. Schillaci, Un buco nel cuore. L’adozione coparentale dopo il voto del Senato, in www.articolo29.it), si tratta di una disposizione che impone ai giudici e alla pubblica amministrazione di interpretare in termini non discriminatori il contenuto delle diverse leggi che possono interessare le coppie same-sex.
Con riguardo all’istituto dell’adozione, l’esclusione sancita dal comma 20° fa salvo «quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti». Tale clausola dovrebbe consentire alle coppie omosessuali di ricorrere all’adozione in casi particolari in favore del partner del genitore biologico, sulla base dell’art. 44, lett. d) della legge n. 184/1983 sulle adozioni, quando questo corrisponda al preminente interesse del bambino. Tale possibilità si fonda sull’orientamento giurisprudenziale che si è affermato negli ultimi due anni, secondo il quale la nozione di “impossibilità di affidamento preadottivo”, condizione per l’adozione prevista nella disposizione menzionata, deve essere intesa non solo nel senso di impossibilità “di fatto”, ma anche come impossibilità “di diritto” (fra le pronunce più recenti si vedano Tribunale dei minori di Roma, sent. 30 dicembre 2015; Corte d’Appello di Roma, sent. 23 dicembre 2015).
Relativamente alle disposizioni codicistiche, le differenze sostanziali rispetto al modello coniugale, fra le quali si annovera l’esclusione dell’obbligo di fedeltà, sembrano essere state dettate dalla volontà di distanziare le unioni civili dal matrimonio e di ridimensionare, sotto il profilo simbolico, il nuovo istituto.
3. Riguardo ai profili di diritto internazionale privato, la legge non introduce delle specifiche disposizioni, ma si limita a delegare il governo affinché provveda, entro il termine di sei mesi e per il tramite di un decreto legislativo, a modificare e riordinare le norme di diritto internazionale privato in materia, in osservanza del principio secondo il quale ai matrimoni, alle unioni civili e alle altre forme analoghe di unione fra persone dello stesso sesso concluse all’estero si applica la disciplina italiana sulle unioni civili (comma 28°, lett. b). Entro due anni dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo, il governo avrà poi la possibilità di adottare disposizioni integrative e correttive, ma pur sempre nel rispetto del principio in precedenza indicato (comma 31°).
Già a una prima lettura, risulta immediatamente evidente che il principio contenuto nella legge prende in considerazione soltanto uno dei profili che rilevano sul piano del diritto internazionale privato, ovvero la questione del “riconoscimento” delle unioni (matrimoni e unioni civili) same-sex concluse all’estero, tralasciando invece sia la questione della “creazione” o, in altri termini, delle condizioni di accesso allo status giuridico, sia la questione dell’individuazione della legge applicabile alle conseguenze giuridiche (diritti e doveri dei membri della coppia) delle unioni formate in Italia che presentino elementi di estraneità (si veda lo studio contenuto in Diritti Umani e Diritto Internazionale, vol. 10, 2016, n. 1, in particolare i contributi di O. Lopes Pegna, Effetti in Italia del matrimonio fra persone dello stesso sesso celebrato all’estero: solo una questione di ri-qualificazione? e M. Perini, Matrimoni omoaffettivi: una chiara politica giudiziaria del Consiglio di Stato di netta chiusura).
La questione dell’accesso allo status può essere esemplificata dai seguenti quesiti: è consentito a una coppia same-sex, formata da un cittadino olandese e uno belga, di contrarre matrimonio nel nostro paese? È permesso a una coppia same-sex, formata da due cittadini rumeni, di concludere in Italia un’unione civile?
La possibilità di celebrare in Italia un matrimonio fra persone dello stesso è legata alla risoluzione del problema della qualificazione della fattispecie. Occorre in sostanza identificare la norma di conflitto appropriata, cioè quella nel cui campo di azione rientra la fattispecie che viene presa in considerazione.
Nel caso in cui il matrimonio same-sex venisse trattato alla stregua del matrimonio tradizionale in ordine all’applicazione delle norme di conflitto, tale qualificazione comporterebbe l’applicazione degli artt. 27 e 28 della legge n. 218/1995 di riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato e processuale che disciplinano rispettivamente le condizioni di validità sostanziali e formali del matrimonio (per una riflessione sul rilievo di tali disposizioni con attenzione al riconoscimento dei matrimoni tra persone dello stesso sesso, si veda il post di G. Biagioni ed E. di Napoli).
L’eventualità che le autorità italiane possano sussumere il matrimonio same-sex (e a fortiori l’unione civile) entro la categoria matrimoniale appare, tuttavia, assai improbabile. In primo luogo, osta a tale qualificazione la citata giurisprudenza della Corte Costituzionale che, seppure non si sia mai occupata di casi che interessavano persone straniere, ha sostenuto come la diversità di sesso fra i nubendi rappresenti ancora, nel quadro del nostro ordinamento, un requisito sostanziale del matrimonio. In secondo luogo, atteso che il comma 28° lett. b) della legge prevede che i matrimoni same-sex conclusi all’estero debbano essere riconosciuti come unioni civili italiane, sembra doversi escludere che, allo stato, venga fatta una diversa valutazione in sede di costituzione dello status giuridico. Di conseguenza non sarà consentito a una coppia same-sex formata da un cittadino olandese e un belga di convolare a nozze in Italia, risultando irrilevante che entrambi gli ordinamenti di origine abbiano aperto il matrimonio alle coppie dello stesso sesso.
A diverse conclusioni occorre giungere con riferimento al diverso istituto delle unioni civili. In mancanza di una norma che delimiti sul piano personale l’ambito di applicazione della legge sulle unioni civili, la possibilità di accedere a tale status pare doversi riconoscere a tutti gli stranieri, a prescindere dalla loro cittadinanza, dalla residenza e dalla regolarità o meno del soggiorno nel nostro paese. Riguardo a tale ultimo aspetto, a parere di chi scrive, dovrebbe, infatti, estendersi l’orientamento della Corte costituzionale (sentenza n. 245/2011), secondo cui è illegittima la disposizione che impone allo straniero che intende contrarre matrimonio nel nostro paese di dimostrare documentalmente la regolarità del proprio soggiorno. Le unioni civili, analogamente al matrimonio, hanno un fondamento costituzionale, pertanto il controllo sulla regolarità del soggiorno costituirebbe una restrizione della libertà individuale dello straniero e del cittadino italiano che intendano concludere un’unione civile.
In base al rinvio operato dal comma 19° della legge, trova applicazione il comma 1° dell’art. 116 c.c. che impone allo straniero che volesse contrarre matrimonio in Italia l’obbligo di produrre il nulla-osta. Tale previsione verosimilmente costituirà un notevole disagio per le coppie same-sex in cui almeno uno dei due membri provenga da un paese le cui autorità rifiutino di rilasciare il nulla osta, sul presupposto che l’ordinamento non riconosce tali relazioni affettive o addirittura persegue le persone di orientamento sessuale omosessuale. In tale ipotesi, infatti, per rimediare alla mancanza del nulla-osta, lo straniero sarà costretto a rivolgersi alle autorità giurisdizionali italiane, con un aggravio di costi e di tempo.
La mancata individuazione di criteri per delimitare l’accesso allo status di “parte dell’unione civile” non trova riscontro nelle legislazioni degli altri Stati che hanno riconosciuto le unioni same-sex.
Generalmente gli Stati che hanno introdotto all’interno del proprio ordinamento l’istituto delle unioni civili (o forme giuridiche equivalenti quali registered/civil/domestic partnership, partenariat enregistré, partnerschaft) hanno imposto l’esistenza di un legame minimo tra i membri della coppia e lo Stato di costituzione dello status.
Questa connessione generalmente è stata ricercata ricorrendo a criteri di collegamento di tipo domiciliare, ovvero la residenza o il domicilio, posti in alternativa alla nazionalità dei membri della coppia. Soltanto un numero molto ridotto di Stati (Slovenia e Repubblica Ceca) ha invece limitato l’accesso alla procedura di registrazione dell’unione attraverso l’utilizzo del solo criterio della nazionalità.
L’esigenza di imporre una connessione significativa fra i membri della coppia same-sex e lo Stato di registrazione è da ricondursi alla preoccupazione dei c.d. “Stati pionieri”, ovvero gli Stati che per primi hanno introdotto le partnership registrate, di dissuadere gli stranieri, provenienti da paesi che non conoscevano l’istituto, a concludere tali unioni entro i propri confini, nell’ottica di prevenire le difficoltà relative al loro riconoscimento internazionale. Per tale motivo, con il diffondersi di tali istituti, molte delle leggi in materia sono state modificate, nella direzione del graduale affievolimento dell’intensità del legame richiesto per poter accedere allo status di partner. Non è stato più richiesto che ciascun membro della coppia presentasse un legame con l’ordinamento valutato come il più stretto, ma, meno rigorosamente, ci si è limitati ad accertare che la coppia nel suo complesso mostrasse un legame sufficientemente significativo con l’ordinamento.
In mancanza di una norma che delimiti sul piano personale l’ambito di applicazione della legge sulle unioni civili, gli stranieri potranno, quindi, accedere allo status di “parte dell’unione civile” molto più agevolmente rispetto a quanto avrebbero potuto in applicazione delle norme di conflitto previste per il matrimonio. L’applicazione della legge nazionale dei membri della coppia – previsto per il matrimonio tradizionale – porterebbe, infatti, a negare l’accesso allo status a un numero considerevole di coppie, determinando una discriminazione all’interno della nostra comunità sociale di portata non trascurabile. Nel caso della coppia rumena, sopra evocato, le autorità italiane dovrebbero negare l’accesso allo status di “parte dell’unione civile”, giacché i membri della coppia sarebbero considerati privi della capacità a concludere l’unione, non disciplinando l’ordinamento richiamato le relazioni fra persone dello stesso. Tale rilievo appare tutt’altro che irrilevante, considerato che, sebbene il numero di ordinamenti che disciplinano le unioni civili sia costantemente cresciuto, esiste ancora un cospicuo numero di Stati che non riconosce tali forme di vita familiare.
Dietro la scelta del nostro legislatore di non specificare criteri per delimitare l’accesso allo status di “parte dell’unione civile” potrebbe quindi leggersi la volontà politica di favorire la diffusione delle unioni same-sex a scapito del rischio di generare relazioni claudicanti, ovvero situazioni giuridiche che producono effetto nell’ordinamento nel quale sono state create, ma non nell’ordinamento (o negli ordinamenti) nel quale detta situazione è destinata a svolgersi.
La mancata introduzione di elementi che consentano di verificare l’esistenza di un legame sufficiente fra la coppia e il nostro ordinamento potrebbe, tuttavia, portare l’Italia a diventare una sorta di “paradiso” per le unioni civili, ovvero renderla la meta di tutte le coppie che, vivendo in paesi privi di una disciplina sulle unioni same-sex, decidano di aggirare il problema spostandosi temporaneamente in un ordinamento che consente loro di acquisire lo status, per poi fare ritorno subito dopo nel paese di origine, confidando di ottenerne il riconoscimento.
Il fatto che la legge non contempli poi alcuna norma di conflitto di tipo bilaterale e non indichi al governo alcun principio e criterio direttivo con riguardo alle conseguenze che derivano dalla conclusione dell’unione porta inoltre a ritenere che non sia ammissibile che una coppia same-sex che risieda nel nostro paese possa concludere un diverso “modello” di unione, in applicazione di una legge straniera, ad esempio, quella di comune cittadinanza o di residenza abituale della coppia.
4. Come evidenziato in precedenza, il solo principio di cui il governo dovrà tenere conto per disciplinare i profili internazionalprivatistici delle unioni civili attiene alla questione del riconoscimento, che consiste nel determinare se, a quali condizioni e in che misura, accordare o rifiutare il riconoscimento alle unioni same-sex costituite all’estero.
Il principio di cui all’art. 28, lett. b) della legge, si limita a stabilire che alle coppie formate da persone dello stesso sesso che abbiano contratto all’estero matrimonio, unione civile o altro istituto analogo verrà applicata la disciplina dell’unione civile italiana. In sostanza il riconoscimento avviene, in una forma del tutto peculiare, attraverso l’adattamento dell’unione straniera nel modello interno (c.d. adapted o downgrade recognition, per cui si veda ancora il post di G. Biagioni e E. di Napoli).
Tale “adattamento” incide tanto sul matrimonio same-sex quanto sulle partnership registrate concluse all’estero. Mentre con riguardo al matrimonio same-sex, in linea di massima, il principio funziona in una sola direzione, cioè nel ridurre la portata degli effetti del modello straniero e mai nell’ampliarli, con riguardo alle partnership registrate la riclassificazione porta a “riscrivere” l’unione che potrà quindi produrre effetti quantitativamente maggiori o minori, rispetto a quelli prodotti nello Stato in cui è sorta. Per esempio, a seguito del processo di “conversione” dell’unione straniera in unione civile italiana, una geregistreerd partnershap di diritto olandese sarà “privata” dell’obbligo di fedeltà fra i membri della coppia, mentre, al contrario, un pacs di diritto francese verrà “dotato” della successione ab intestato a favore del partner superstite. Per descrivere il modo di operare di tale principio la dottrina ha rievocato il mitologico letto di Procuste, brigante greco che, appostato sul monte Coridallo, nell’Attica, aggrediva i viandanti e li straziava battendoli con un martello su di un’incudine a forma di letto scavata nella roccia. I malcapitati venivano stirati a forza se troppo corti, o amputati qualora sporgessero dal letto (D. Martiny, Private International Law Aspects of Same-Sex Couples under German Law in K. Boele-Woelki, A. Fuchs (eds.), Legal Recognition of Same-Sex Relationships in Europe National, crossborder and European perspectives, Cambridge-Antwerpen-Portland, 2012, p. 203).
Il principio introdotto dal comma 28°, lett. b) della legge non indica, peraltro, le condizioni che devono essere soddisfatte affinché tali unioni possano produrre effetti in Italia, non precisando neppure se esse debbano essere considerate valide nell’ordinamento di origine o meno.
La soluzione prevista dal legislatore italiano solleva quindi una serie di obiezioni, sia quando la questione del riconoscimento della validità dell’unione sorta all’estero si pone a titolo principale sia quando il riconoscimento riguarda i diritti derivanti dallo status acquisito all’estero e la questione della validità emerge come questione preliminare, cioè come passaggio obbligato nell’iter logico che il giudice deve seguire per decidere sulla domanda principale.
La questione del riconoscimento delle unioni same-sex può porsi a titolo principale in un giudizio vertente sulla sua validità o, più frequentemente, in relazione ad un’istanza, presentata agli ufficiali dello stato civile, volta ad ottenere la trascrizione dell’atto nel quale è stata formalizzata l’unione.
Riguardo a tale profilo, con l’adozione della legge in commento, si supera l’attuale orientamento giurisprudenziale che nega la possibilità di trascrivere un matrimonio tra persone dello stesso sesso celebrato all’estero, almeno quando si tratti di una coppia formata da cittadini italiani. Sulla questione si è espressa la Corte di cassazione che, con la nota sentenza n. 4184/2012, ha negato la trascrivibilità non a causa dell’inesistenza o dell’invalidità di tale tipo di matrimonio, bensì in ragione della sua “inidoneità” a produrre effetti nel nostro ordinamento.
Con la nuova legge sulle unioni civili, il matrimonio omosessuale straniero potrà essere evidentemente trascritto come unione civile nell’archivio dello stato civile, la cui disciplina verrà modificata con un apposito decreto legislativo per adeguarla alla presenza del nuovo istituto giuridico (commi 3 e 28 lett. a).
Il problema della trascrizione, tuttavia, non sarà del tutto accantonato, dal momento che la “conversione” del matrimonio same-sex in unione civile potrà essere reputata discriminatoria dalla coppia interessata, sulla base dell’assunto secondo il quale quest’ultimo istituto rappresenta un surrogato del matrimonio tradizionale. La discriminazione potrà quindi essere invocata sia in ragione del diverso nomen iuris impiegato sia, più frequentemente, in ragione della riduzione degli effetti che i membri della coppia subiscono a seguito di detta “conversione”.
La questione non è del tutto nuova. Il “downgrade” del matrimonio same-sex in unione civile è già contemplato in altri ordinamenti come Svizzera (art. 45, par. 3° della legge federale sul diritto internazionale privato) e la Germania (art. 17b della legge introduttiva al codice civile EGBGB). In quest’ultimo paese la soluzione adottata è più articolata, nel senso che si prevede che gli effetti delle unioni costituite all’estero non possano essere più estesi di quelli previsti nel codice civile e nella legge sulle partnership registrate (Lebenspartnerschaft). Il modello di unione same-sex di diritto tedesco rappresenta pertanto il “tetto massimo” ammissibile.
La questione del “declassamento” del matrimonio same-sex può essere esaminata nel quadro della problematica di ordine più generale che attiene alla necessità, per le norme di diritto internazionale privato in materia di riconoscimento di status personali, di confrontarsi, per un verso, con i principi fondamentali contenuti nella Convenzione EDU e, per altro verso, con le libertà collegate alla cittadinanza dell’Unione europea.
Con riguardo al primo sistema, ci si può chiedere se il “declassamento” del matrimonio omosessuale celebrato all’estero costituisca una violazione dell’art. 8 della Convenzione EDU sul rispetto alla vita familiare.
Nella sentenza Hämäläinen v. Finlandia, del 16 luglio 2014 (ricorso n. 37359/09) la Grande Camera della Corte EDU ha negato che la conversione forzata del matrimonio in una partnership registrata, a seguito del mutamento di identità di genere di uno dei due coniugi, determini una violazione della Convenzione, nel caso in cui i due regimi giuridici risultano sostanzialmente comparabili. Per giungere a tale decisione, i giudici di Strasburgo hanno, tuttavia, confrontato il contenuto delle discipline finlandesi sul matrimonio e sulla partnership registrata e valutato se il passaggio dal primo al secondo istituto avrebbe influito negativamente sui diritti dei membri la coppia, con particolare riguardo ai diritti di natura familiare e ai diritti di natura economica. Tale decisione evidenzia come nella giurisprudenza della Corte EDU la perdita del nomen iuris “matrimonio” non determina di per sé un’illegittima interferenza con il diritto alla vita familiare.
Con riguardo all’ordinamento dell’Unione europea, il “declassamento” del matrimonio same-sex potrebbe essere valutato in violazione del principio del mutuo riconoscimento degli status personali e familiari. Tale principio è stato ricostruito dalla dottrina a partire dalla giurisprudenza della Corte di Lussemburgo in materia di diritto al nome (in particolare, Corte Giust., sent. 2 ottobre 2003, causa C-148/02, Carlos García Avello v. Belgio e Corte Giust., sent. 27 aprile 2006, causa C-96/04, Grunkin and Dorothee Regina Paul v. Germania). Il principio della continuità degli status personali e familiari, che si fonda sul diritto dei cittadini dell’Unione europea di non subire discriminazioni in ragione della propria nazionalità e sul diritto di circolare e soggiornare liberamente nel territorio dell’Unione (rispettivamente artt. 18 e 32 del TFUE), consentirebbe alle persone di oltrepassare le frontiere statali portando con sé lo status personale e familiare validamente acquisito nello “Stato di origine”. In sostanza, nell’ipotesi in cui uno status venga consacrato in una sentenza o in un atto pubblico, gli interessati potrebbero avvalersi di tale titolo, non solo per provare il proprio status personale, ma anche per evitare che le autorità dello Stato di destinazione possano rimettere in discussione l’esistenza di tale posizione e negare il riconoscimento dei diritti collegati con lo status acquisito nello Stato di origine.
Guardando al diritto interno, è possibile riscontrare orientamenti distinti sulla questione.
Secondo la giurisprudenza inglese, per esempio, il rifiuto del riconoscimento del matrimonio contratto da due docenti universitari inglesi di sesso femminile durante il loro periodo di soggiorno in Canada come visiting professors e l’automatica conversione del matrimonio same-sex in civil partnership, era valutato legittimo – prima dell’approvazione del Marriage (Same Sex Couples) Act, avvenuta nel 2013 –perché l’opzione legislativa di un regime separato, in cui accanto al matrimonio tradizionale coesisteva un istituto appositamente delineato per le coppie dello stesso sesso, non determinava una discriminazione irragionevole e sproporzionata a danno di queste ultime (High Court of Justice Family Division, Susan Wilkinson v. Celia Kitzinger, 31 luglio 2006, EWHC 2022 Fam).
Diversamente, negli Stati Uniti, la giurisprudenza nazionale e federale ha mostrato maggiore sensibilità sul tema, valutando illegittime, in ragione della contrarietà alla equal protection clause, le leggi statali che riconoscevano il diritto a formare partnership registrate, equiparate al matrimonio sul piano degli effetti giuridici, ma che precludevano alle coppie omosessuali di accedere al matrimonio. Si è affermato, infatti, che è il nome stesso “matrimonio” a costituire elemento essenziale del diritto fondamentale delle coppie same-sex al riconoscimento di pari dignità sociale (Corte Suprema della California, Re Marriage Cases, 15 maggio 2008, 43, Cal. 4th 757, 2008; Corte Suprema Federale, United States v. Windsor, 26 giugno 2013, 507 U.S. 2013). Tale orientamento è stato ulteriormente avallato dalla Suprema Corte Federale che, nella più recente sentenza del 26 giugno 2015 (Obergefell v. Hodges, 26 giugno 2015, 576 US, sui cui si veda il post di C. Vitucci), ha sostenuto che il diniego del diritto di sposarsi configura una violazione delle clausole del giusto processo e dell’eguale protezione giacché l’accesso allo status coniugale costituisce un diritto fondamentale insito nella libertà della persona.
La questione del riconoscimento delle unioni same-sex nel nostro ordinamento si porrà più frequentemente in relazione ai diritti e obblighi che conseguono alla loro costituzione.
Il principio di cui al comma 28°, lett. a) segue lo schema della “assimilazione degli effetti” che si basa sull’assunto secondo il quale l’unione same-sex conclusa all’estero debba produrre gli stessi effetti che si sarebbero spiegati se fosse stata conclusa nello Stato del riconoscimento. Tale impostazione si contrappone a quello della “estensione degli effetti” che affida invece alla lex auctoris una posizione essenziale per determinare gli effetti della situazione giuridica da riconoscere. L’unione same-sex conclusa all’estero produrrà nell’ordinamento del foro gli stessi effetti previsti nello Stato di origine.
Con riguardo al riconoscimento delle partnership registrate all’estero, l’approccio seguito dal legislatore italiano trova riscontro nel solo Civil Partnership Act inglese e gallese che prevede alla Section 215 che «two people are to be treated as having formed a civil partnership as a result of having registered an overseas relationship (…)». Negli altri ordinamenti gli Stati hanno, invece, impiegato il criterio di collegamento della lex loci registrationis per il riconoscimento delle unioni registrate all’estero. Tale criterio di collegamento, in alcuni casi, è stato introdotto per il tramite di una specifica norma di conflitto, in altri casi tramite l’estensione delle norme previste sul matrimonio. Il criterio della lex loci registrationis è stato adoperato sia come condizione per il riconoscimento a titolo principale sia per individuare la legge applicabile ai “principali” effetti delle partnership registrate straniere. Con l’impiego del criterio della lex loci registrationis il foro si pone nelle condizioni di accogliere le partnership registrate validamente costituite nello Stato di registrazione, determinando in tal modo una sorta di “estensione dell’efficacia” dell’unione straniera nello Stato del riconoscimento.
La soluzione adottata nella legge, comportando la revisione del modello di unione same-sex, rischia di pregiudicare le aspettative delle parti, nella misura in cui rende applicabile la legge materiale italiana sulle unioni civili che potrebbe essere distante, in ordine agli effetti previsti, dalla legge applicata in sede di costituzione dell’unione. L’impiego dello schema della “assimilazione degli effetti” per il riconoscimento di situazioni giuridiche straniere, come evidenziato nella risoluzione dell’Institut de droit international, La substitution et le principe d’équivalence en droit international privé – Substitution and principle of equivalence in Private International Law (in Ann. inst. droit Int., vol. 72 (2007), p. 1 ss.), presuppone che vi sia equivalenza fra la situazione giuridica da riconoscere e la situazione giuridica disciplinata nell’ordinamento del riconoscimento. Tale condizione di equivalenza non sempre si riscontra in materia, atteso che sotto il nomen iuris “unione civile” o “partnership registrata” possono ricondursi diversi modelli di convivenza familiare che, soprattutto in relazione al quadro di diritti riconosciuti e agli obblighi imposti ai partner, appaiono molto diversi fra loro. Invero alcuni modelli rispondono a una logica antidiscriminatoria, altri invece rispondono principalmente a una logica di diversificazione delle forme di vita familiare. L’eterogeneità dei modelli di unione same-sex avrebbe quindi dovuto indurre il nostro legislatore a evitare di rescindere il “cordone ombelicale” fra l’unione e lo Stato di origine e propendere per l’impiego della soluzione dell’estensione degli effetti.
Un ulteriore limite riscontrabile nella soluzione del legislatore italiano deriva dalla mancata distinzione fra i diversi effetti che scaturiscono dalla conclusione di un’unione same-sex. Riguardo al matrimonio, ad esempio, il diritto internazionale privato ha, ormai da qualche tempo, abbandonato l’idea secondo la quale gli effetti derivanti dalla conclusione del vincolo debbano essere governati da una singola norma. Invero sono adottate norme differenti che prevedono soluzioni specifiche per le diverse conseguenze che possono scaturire dal matrimonio: rapporti personali, rapporti patrimoniali, alimenti, separazione etc. Anche con riguardo alle unioni civili un sistema che associ una regola di portata generale con regole specifiche per questioni particolari, come divorzio e alimenti, sarebbe stato da preferire.
5. Si è detto come la legge sulle unioni civili rappresenti una disciplina imposta dall’Europa o meglio una presa di coscienza dell’impossibilità per il nostro ordinamento di rimanere “permeabile” rispetto alle vicende esterne e transfrontaliere (M. Gattuso, Le Unioni civili in mare aperto: ecco il progetto di legge che andrà in Aula in Senato, G. Casaburi, Il Sillabo delle Unioni Civili: giudici, etica di stato, obblighi internazionali dell’Italia). Si è detto pure che l’obiettivo della disciplina sulle unioni civili è di permettere all’Italia di allinearsi agli altri paesi che, oramai numerosi in Europa, Americhe e Oceania, prevedono forme di tutela e riconoscimento giuridico alle coppie omossessuali (G. Casaburi, Il nome della rosa (la disciplina italiana delle unioni civili)).
Il testo della legge sulle unioni civili, osservato dalla prospettiva internazionalprivatistica, non riesce, a parere di chi scrive, a realizzare tali propositi di apertura ai valori giuridici stranieri e sovranazionali che hanno portato il nostro legislatore a intervenire in materia.
A ben vedere, le regole di diritto internazionale privato che potranno essere introdotte, in osservanza del principio di cui al comma 28° lett. b), non consentiranno al nostro sistema giuridico di risolvere i problemi di coordinamento con gli ordinamenti stranieri. Il principio, prescrivendo l’applicazione della disciplina materiale italiana a fattispecie connotate di elementi di estraneità, nella sostanza funziona come una serie di norme di applicazione necessaria che nel loro insieme diventeranno il baluardo del matrimonio tradizionale e del modello interno di unione civile.
Com’è noto, la finalità delle norme di applicazione necessaria consiste nel preservare l’applicazione della lex fori, in quanto il diritto interno viene ritenuto cruciale per motivi di carattere politico, sociale, economico ed etico. Le norme di applicazione necessaria, inoltre, solitamente si limitano a regolare soltanto aspetti particolari o, in qualche caso, marginali della fattispecie. Nel caso della disciplina delle unioni civili, con riguardo alla quasi totalità delle norme contenute nella legge, non pare potersi riscontrare la necessità di difendere i valori giuridici interni né risulta comprensibile il motivo per il quale l’applicazione della lex fori venga estesa all’intera regolamentazione del nuovo istituto.
A parere di chi scrive, il principio che la legge intende introdurre segna un passo indietro rispetto alle soluzioni internazionalprivatistiche già esistenti nell’attuale legge n. 218/1995 di diritto internazionale privato e processuale. Essa invero, in materia in materia di riconoscimento di status familiari, contempla già l’art. 65 che – se interpretato in modo estensivo, ovvero in modo da ricomprendere anche atti provenienti da un’autorità non giurisdizionale – potrebbe rappresentare una valida soluzione per regolare il riconoscimento delle unioni same-sex. La disposizione è inquadrabile nell’ambito della seconda variante del metodo del riferimento all’ordinamento competente (P. Picone, Ordinamento competente e diritto internazionale privato, Padova, 1986, Id., La méthode de la référence à l’ordre juridique compétent en droit international privé, in Recueil des cours de l’Académie de droit International de La Haye, vol. 197 (1986), 229-419). L’impiego di tale metodo – che persegue il fine di evitare il sorgere e il permanere di situazioni giuridiche c.d. claudicanti – può rivelarsi funzionale al processo di integrazione europea, nel senso che è in grado di realizzare il principio di continuità degli status familiari che sembra affermarsi nel nostro continente. Allo stesso tempo, il metodo in parola realizza una forma di coordinamento “selettivo”, nel senso che la sua operatività non si sostanzia nel riconoscimento sistematico di ogni situazione giuridica esistente all’estero, garantendo in tal modo “unità nella diversità”, il motto che meglio sintetizza il lungo e faticoso processo di costruzione dell’Unione europea.
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