An unlikely duo? Protezione degli investimenti esteri e tutela dell’ambiente negli accordi commerciali dell’UE post-Lisbona
Claudio Dordi, Università Bocconi di Milano; Francesco Montanaro, Università Bocconi di Milano e Université Panthéon-Assas Paris II
Che la salvaguardia dell’ambiente sia legata a doppio filo con il diritto fondamentale degli individui alla salute è un dato incontestabile e ormai penetrato nella giurisprudenza delle Corti internazionali e nella prassi convenzionale (si veda, ad esempio, Parere consultivo sulla minaccia e l’uso delle armi nucleari, par. 29; Dichiarazione di Rio sull’ambiente e lo sviluppo; Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici).
Nonostante ciò, una compiuta introiezione dell’ethos ambientalista rimane un traguardo lontano per un diritto internazionale che assume vieppiù l’aspetto di un arcipelago di sotto-sistemi giuridici tendenzialmente indipendenti e autoreferenziali. Com’è noto, le istanze ambientaliste hanno tradizionalmente stentato a trovare spazio nell’ambito del diritto internazionale dell’economia. In particolare, una tenace diffidenza verso tali questioni ha tradizionalmente pervaso il diritto internazionale degli investimenti fin dai suoi albori. A tal riguardo, un noto accademico e arbitro internazionale qualche tempo fa affermava icasticamente che: «the previously socialist/statist attitude to foreign investment popularly expressed through the New International Economic Order (NIEO)…has been reincarnated in the environmentalist movement» (Wälde e Kolo, “Environmental Regulation, Investment Protection and ‘Regulatory Taking’ in International Law”, in International and Comparative Law Quarterly, 2001, n. 50, p. 811 ss., pp. 811-812). Informato ai canoni del neo-liberalismo economico, il diritto internazionale degli investimenti ha tradizionalmente assunto come unico e totalizzante obiettivo la promozione e la protezione degli investimenti esteri (Spears, “The Quest for Policy Space in a New Generation of International Investment Agreements”, in Journal of International Economic Law, 2010, n. 13, p. 1037 ss., p.1041). Poca o nessuna attenzione, invece, gli accordi in materia di protezione degli investimenti hanno dedicato ad interessi non economici, inevitabilmente legati allo svolgimento di attività di natura economico-imprenditoriale, quali la protezione dell’ambiente e la promozione di una crescita economica sostenibile. L’ampia formulazione degli standard di trattamento dell’investitore e la tendenziale assenza di norme in grado di dirimere i frequenti conflitti fra siffatti interessi sono null’altro che il “precipitato tecnico” di un approccio monodimensionale alla regolamentazione degli investimenti esteri (Roberts, “Clash of Paradigms: Actors and Analogies shaping the Investment Treaty System”, in American Journal of International Law, 2013, n. 107, p. 45 ss., p. 76).
Tuttavia, con il venir meno della granitica unidirezionalità che aveva caratterizzato i flussi di capitale estero sin dalla conclusione del processo di decolonizzazione, anche gli Stati sviluppati, tradizionalmente esportatori di capitali, hanno iniziato a ricevere e a fare affidamento su un ingenti quantità di investimenti esteri (Roberts, Op.cit., p.78). Questo cambiamento, come prevedibile, ha avuto delle ripercussioni sul contenzioso fra investitori e Stati. Sicché, in un numero crescente di casi, gli Stati sviluppati sono stati chiamati a rispondere per violazioni degli accordi volti alla protezione degli investimenti esteri. Parallelamente, si è altresì registrato un incremento degli investment claims aventi ad oggetto misure eminentemente volte al perseguimento del pubblico interesse (Wagner, “Regulatory Space in International Trade Law and International Investment Law”, in University of Pennsylvania Journal of International Law, 2014, n.36, p. 1 ss., p. 14). La combinazione di questi fattori ha impresso un graduale mutamento di rotta alla prassi convenzionale in materia di investimenti. Con l’avvento di trattati “più bilanciati”, ossia contenenti norme che dovrebbero permettere di contemperare la protezione degli investimenti con la salvaguardia di interessi non strettamente economici, il diritto internazionale degli investimenti sembra ormai aver abbandonato i roaring years dell’infanzia ed essere approdato ad una fase di maggiore, ancorché non completa, “maturità” (Roberts, op.cit., p. 78).
In questo contesto si collocano gli Investment Chapters inclusi negli accordi di libero scambio stipulati dall’Unione Europea in seguito all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona. Com’è noto, la nuova formulazione dell’art. 207 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea amplia la competenza dell’Unione in materia di investimenti esteri. Sulla base di tale competenza, l’Unione ha delineato un’ambiziosa politica in materia di investimenti esteri, che tenta di coniugare, almeno in principio, l’interesse degli Stati membri ad attirare investimenti esteri assicurando alti standard di protezione con l’esigenza di preservare il margine di manovra necessario all’attuazione di politiche pubbliche, fra cui spicca senza dubbio la protezione dell’ambiente. Preso atto dei condivisibili intenti enunciati nei documenti della Commissione e delle altre istituzioni europee, resta, tuttavia, da vedere come e in quale misura questi ultimi siano stati trasfusi nei tre accordi fin qui conclusi dall’UE con Paesi terzi, cioè il Comprehensive Trade and Economic Agreement (CETA) con il Canada e gli accordi di libero scambio con Singapore e Vietnam. Inoltre, è opportuno considerare se, come è stato di recente affermato (Titi, “International Investment Law and the European Union: Towards a New Generation of International Investment Agreements”, in European Journal of International Law, 2015, n. 26, p. 639 ss., pp. 654-657), siffatti accordi portino addirittura più in là l’opera di bilanciamento operata nella prassi più recente e, in particolare, negli accordi stipulati da Canada e Stati Uniti a partire dalla metà degli anni duemila.
La dialettica fra protezione degli investimenti esteri e protezione dell’ambiente ruota attorno a due elementi: la formulazione degli standard di trattamento e del divieto di espropriazione illegittima nonché la previsione di meccanismi in grado di riconciliare le predette istanze. Infatti, è dall’interazione fra queste due categorie di norme che è possibile individuare l’ampiezza del margine di manovra di cui dispone lo Stato ospitante nell’adottare misure volte alla tutela dell’ambiente.
Per quanto concerne il primo aspetto, occorre, innanzitutto, rilevare che i trattati di “nuova generazione” cercano di delimitare con maggiore precisione il contenuto degli standard di trattamento e, segnatamente, dello standard del trattamento giusto ed equo riducendo, conseguentemente, la discrezionalità dei tribunali arbitrali chiamati ad applicarlo. In particolare, sebbene con formulazioni parzialmente diverse, essi enucleano una serie di condotte, spesso mutuate dalla giurisprudenza arbitrale, dalle quali scaturisce una violazione dello standard. Si tratta di liste esaustive che possono essere ampliate soltanto per volontà degli Stati contraenti. È altresì opportuno rilevare come siffatti accordi tendano a limitare il campo d’applicazione della tanto discussa legitimate expectations doctrine. Innanzitutto, tutti gli accordi in esame precisano che tali expectations possono sorgere soltanto ove lo Stato ospitante abbia prospettato un fatto specifico all’investitore straniero al fine di spingerlo ad investire nel proprio territorio. Pertanto, una violazione dello standard di trattamento giusto ed equo può ravvisarsi soltanto ove lo Stato ospitante contravvenga alle predette rappresentazioni. Il CETA si spinge persino oltre precisando che i tribunali arbitrali possono tenere in considerazione la violazione delle legitimate expectations dell’investitore ai fini dell’accertamento del rispetto dello standard di trattamento giusto ed equo. In altre parole, contrariamente a quanto previsto dagli altri due accordi e da una giurisprudenza arbitrale pressoché unanime, la protezione delle legitimate expectations dell’investitore non è un elemento essenziale di tale standard. A ciò si aggiunga che l’art. 8.9 del Capo 8 del CETA e l’art. 13-bis del Capo 8 dell’accordo fra UE e Vietnam chiariscono che un mero emendamento della legislazione vigente nel paese ospitante non costituisce una violazione delle norme volte alla protezione dell’investimento anche qualora dovesse porsi in contrasto con le expectations dell’investitore.
Allo stesso modo, gli accordi in esame formulano il divieto di espropriazione illegittima in modo da distinguere misure regolamentari adottate in buona fede dallo Stato ospitante da misure formalmente regolamentari ma da cui discendono di fatto effetti equivalenti ad un’espropriazione dell’investimento. Com’è noto, la giurisprudenza e la dottrina hanno a lungo dibattuto su quali criteri debbano essere adottati per operare questa distinzione (si veda, ex multis, De Luca, “Indirect Expropriation and Regulatory Takings”, in General Interests of the Host States in International Investment Law (a cura di Sacerdoti et al.), Cambridge University Press, Cambridge, 2014). Gli accordi oggetto della presente indagine affrontano questo cruciale nodo interpretativo prevedendo una lista esemplificativa di criteri di natura qualitativa (ad esempio, la finalità della misura adottata) e quantitativa (l’impatto economico sull’investimento, la durata, etc.). Inoltre, e ancor più significativamente, essi precisano, con formulazione molto simile a quella adottata dall’US Model BIT del 2012 e dal Canada Model FIPA del 2004, che misure finalizzate al perseguimento di finalità di interesse pubblico, quali la tutela dell’ambiente, non costituiscono un’espropriazione indiretta purché siano non discriminatorie e non appaiano manifestamente eccessive alla luce dello scopo perseguito.
Occorre poi rilevare che tali norme, e più in generale le norme incluse nel capo dedicato alla protezione degli investimenti, vanno coordinate con la previsione, contenuta peraltro soltanto nel CETA e nell’accordo fra UE e Vietnam, che riafferma il diritto degli Stati contraenti di perseguire obiettivi di pubblico interesse tramite appropriati interventi legislativi. Si tratta di una norma che potrebbe costituire un appiglio normativo per l’inclusione di considerazioni afferenti alla tutela dell’ambiente nell’applicazione delle garanzie sostanziali contenute nel trattato. Un’ultima importante limitazione delle norme concernenti la protezione degli investimenti riguarda i sussidi concessi alle imprese. Nel CETA e nell’accordo con il Vietnam, si precisa che la mera cessazione di un sussidio ovvero la richiesta di rimborso dello stesso, effettuata al fine di adempiere ad obblighi internazionali ovvero alla decisione dell’autorità giudiziaria o amministrativa, non costituisce violazione delle norme di protezione degli investimenti esteri. Si scorge in questa disposizione l’intento di prevenire controversie come quelle nate dalla riduzione degli incentivi alla produzione di energia solare, che coinvolgono ad oggi Spagna, Italia e Repubblica Ceca.
Ciò detto, è opportuno ora volgere il nostro sguardo alle varie norme espressamente finalizzate ad integrare la protezione dell’ambiente fra gli obiettivi degli accordi in materia di protezione degli investimenti. Contrariamente alla quasi totalità dei trattati stipulati dagli Stati membri dell’UE, gli accordi in esame includono delle sezioni interamente dedicate alla protezione dell’ambiente e allo sviluppo sostenibile. Non essendo in questa sede possibile analizzare nel dettaglio tutte le norme in essi contenute, esamineremo sinteticamente quelle aventi più diretta incidenza sulla protezione degli investimenti esteri. Gli accordi in questione, innanzitutto, riaffermano il diritto dello Stato ospitante di adottare misure finalizzate alla protezione ambientale e scoraggiano le politiche di deregolamentazione ambientale finalizzate ad incentivare l’afflusso di investimenti esteri (cd. race to the bottom). In secondo luogo, rinnovano l’impegno delle Parti contraenti a rispettare gli obblighi derivanti da accordi multilaterali in materia ambientale. A tal fine, negli accordi con Singapore e Vietnam si precisa altresì che nessuna disposizione dei suddetti accordi deve essere interpretata in maniera da impedire l’adozione delle misure necessarie a rispettare siffatti obblighi. Infine, tutti gli accordi in esame prevedono delle clausole, modellate sulla cd. general exception clause di cui all’art. XX del GATT, le quali presentano tuttavia portata differente nei vari trattati. Infatti, nell’accordo con Singapore, tale eccezione è applicabile all’obbligo di trattamento nazionale, laddove nel CETA può essere invocata con riferimento alle norme che regolano la fase che precede lo stabilimento dell’investimento nonché rispetto all’obbligo di trattamento nazionale e quello della nazione più favorita. Nell’accordo fra Vietnam e Unione Europea, invece, l’eccezione in parola sembrerebbe applicabile a tutte le norme relative alla protezione degli investimenti, incluso lo standard di trattamento giusto ed equo e il divieto di espropriazione illegittima.
L’analisi che precede evidenzia delle importanti novità negli accordi di “nuova generazione” dell’Unione Europea. La formulazione più stringente della clausola sul trattamento giusto ed equo e di quella concernente il divieto di espropriazione indiretta riducono la probabilità che una misura finalizzata alla protezione ambientale possa essere ritenuta incompatibile con siffatte norme. In particolare, con l’introduzione di sostanziali limiti all’applicazione della controversa legitimate expectations doctrine, i nuovi accordi dell’UE e, in particolare, il CETA e l’accordo con il Vietnam, si distanziano dalla prassi pattizia e arbitrale prevalente.
Restano, tuttavia, alcune questioni aperte. Innanzitutto, gli elementi costitutivi dello standard di trattamento giusto ed equo saranno molto probabilmente interpretati seguendo le indicazioni della giurisprudenza arbitrale precedente (sul ruolo del precedente nell’arbitrato investitore-Stato si veda Sacerdoti, “Precedent in the Settlement of International Economic Disputes: The WTO and Investment Arbitration Models” in Contemporary Issues, International Arbitration and Mediation: The Fordham Papers (a cura di Rovine), Brill-Nijhoff, Boston-Leiden, 2010, pp. 225-246). Così, ad esempio, l’obbligo di trasparenza dello Stato ospitante potrà avere portata più o meno ampia a seconda dei precedenti arbitrali citati nell’iter argomentativo della decisione. In secondo luogo, anche la rinnovata formulazione del divieto di espropriazione indiretta non esclude del tutto la possibilità di investment claims nei confronti di misure finalizzate alla protezione ambientale (Spears, op.cit., p. 1051). Inoltre, resta una potenziale incompatibilità fra le politiche volte alla lotta del cambiamento climatico e il divieto di discriminazione previsto dalla clausola in parola: ciò, in quanto siffatte misure tendono a privilegiare determinate imprese e determinati settori economici (Miles, The Origins of International Investment Law Cambridge University Press, Cambridge, 2013, p.199).
Parimenti, anche le norme che integrano la protezione ambientale fra gli obiettivi del trattato sono state oggetto di obiezioni da parte della dottrina. Da un lato, infatti, è stato rilevato che le norme volte ad a scongiurare una cd. race to the bottom della legislazione ambientale pongono una mera soft obligation sulle Parti contraenti (Asteriti, “Waiting for the Environmentalists : Environmental Language in Investment Treaties”, in International Investment Law and Its others (a cura di Hofmann e Tams), Nomos, Baden-Baden, 2012, p. 139). Dall’altro, si è osservato che la previsione di una cd. general exception clause paradossalmente restringe il margine di manovra dello Stato ospitante, in quanto siffatte clausole sono generalmente interpretate in maniera restrittiva (Newcombe, “General Exceptions in International Investment Agreements” in Sustainable Development in World Investment Law (a cura di Cordonnier Segger et al.), Kluwer Law, Alphen aan den Rijn, 2011, p. 355).
Ciò detto, per quanto fondate possano essere le precedenti obiezioni, non appaiono sufficienti a scalfire un dato di fatto: i nuovi accordi dell’UE abbandonano l’approccio “monodimensionale” largamente dominante negli accordi degli Stati membri e preferiscono un approccio più equilibrato che tiene conto anche di interessi non economici, come appunto la protezione dell’ambiente. Ora, è difficile dire se quest’opera di riequilibrio si sia spinta oltre a quanto già visto nei più recenti Bilateral Investment Treaties americani e canadesi. Certo, vi sono delle sostanziali somiglianze fra questi ultimi e i nuovi accordi UE. Tuttavia, è bene non trarre conclusioni affrettate, in quanto la prassi applicativa, soprattutto in un sistema non più improntato al modello dell’arbitrato commerciale internazionale, ma più simile a quello di una Corte internazionale “pubblica” e stabile, potrebbe dare maggior spazio alle istanze ambientaliste e contribuire a rendere più “verde” il diritto internazionale degli investimenti del XXI secolo.
2 Comments
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I was struck by the hosetny of your posting