Schengen o non Schengen?
Flavia Zorzi Giustiniani, Università Telematica Internazionale Uninettuno
Nei primi commenti a caldo dopo gli attentati terroristici di Bruxelles si è ripresentato, immancabile, lo spettro della fine di Schengen. Tale spettro è stato invocato più volte, nei mesi scorsi, a seguito delle richieste di sospensione temporanea avanzate da vari Paesi membri. La posta in gioco è altissima se soltanto si considerano le conseguenze di un tale scenario. Riattivare il vecchio sistema dei controlli alla frontiera comporterebbe infatti costi ingenti sia per l’Unione che per i suoi membri. Secondo una stima della Commissione, i soli costi diretti immediati si aggirano tra i 5 e i 18 miliardi di euro all’anno, pari allo 0,05%-0,13% del Pil. A ciò dovrebbero poi aggiungersi i costi indiretti di tipo sociale e culturale, nonché l’impatto sulla cooperazione giudiziaria e di polizia e su altre materie di competenza UE. Infine, con Schengen verrebbe meno uno dei simboli più emblematici dell’integrazione europea.
Da un punto di vista giuridico, la soppressione dello spazio Schengen, ovvero la sua sospensione permanente, è un’opzione difficilmente praticabile giacché richiede una revisione dei Trattati, per la quale è necessario il voto all’unanimità in seno al Consiglio dell’Unione. Benché tale scenario sia dunque improbabile, alcuni recenti provvedimenti degli Stati membri, così come le proposte di modifica del sistema, appaiono tuttavia contraddire, almeno in parte, la raison d’être di Schengen: la libera circolazione delle persone (sul punto v. qui).
Le procedure di ripristino dei controlli alla frontiera
Come noto, sin dalla sua creazione il sistema prevedeva la possibilità di un ripristino temporaneo dei controlli alle frontiere «per esigenze di ordine pubblico o di sicurezza nazionale» (art. 2.2, Convenzione di applicazione dell’accordo di Schengen). Le ipotesi in cui tale sospensione di Schengen è ammissibile sono regolate dal Codice Frontiere Schengen (di cui è stata recentemente pubblicata una versione consolidata), che a seguito delle modifiche introdotte nel 2013 (cf. regolamento 1051/2013) contempla al riguardo tre diverse procedure. La prima (artt. 25-27), concernente gli «avvenimenti prevedibili», consente il ripristino dei controlli come extrema ratio in caso di minaccia grave per l’ordine pubblico o la sicurezza interna. La durata di tali controlli può estendersi fino a 30 giorni, ma il termine è prorogabile sino ad un massimo di 6 mesi o, eccezionalmente, di due anni qualora sia in gioco la tenuta dell’intero spazio Schengen (art. 25, par. 4).
Il nuovo art. 26 del Codice Frontiere Schengen (CFS) impone agli Stati membri di valutare l’adeguatezza e la proporzionalità della misura adottata rispetto alla minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza interna, tenendo conto altresì del suo probabile impatto sulla libera circolazione delle persone all’interno dell’area Schengen. Almeno quattro settimane prima della sospensione, lo Stato che vuole ricorrervi deve comunicarlo agli altri Stati e alla Commissione, i quali hanno la facoltà di emettere un parere sulla misura da adottare (art. 27, par. 4).
Una seconda procedura, d’urgenza, è prevista nei casi che richiedono un’azione immediata (art. 28 CFS), e consente agli Stati membri di reintrodurre unilateralmente i controlli alle frontiere interne per un massimo di dieci giorni. Tali controlli sono prorogabili per periodi non superiori a venti giorni e per un massimo di due mesi, ma l’eventuale prolungamento deve essere monitorato a livello UE.
In entrambi i casi le misure devono essere proporzionate alla minaccia grave a cui intendono porre rimedio.
La terza ed ultima procedura è invece utilizzabile in circostanze eccezionali che mettano a rischio il funzionamento globale del sistema a motivo di carenze gravi e persistenti nel controllo alle frontiere esterne (art. 29 CFS). Ad attivare la procedura non sono gli Stati bensì il Consiglio, che può raccomandare a uno o a più Stati membri di ripristinare i controlli alle frontiere interne per un periodo iniziale di 6 mesi. Tale ripristino può essere prolungato fino a due anni.
Schengen e la recente crisi migratoria
Nella prassi, gli Stati membri del sistema Schengen hanno utilizzato le procedure di sospensione con una certa frequenza, solitamente in occasione di eventi sportivi di massa o riunioni internazionali. Il fenomeno ha però assunto dimensioni inedite in conseguenza della crisi migratoria e dei significativi movimenti secondari che hanno investito diversi Paesi dell’Unione nel 2015. A partire dal settembre scorso la Germania, e poi a seguire Ungheria, Slovenia, Austria, Danimarca, Norvegia, Svezia e Belgio hanno infatti ripristinato i controlli alle frontiere interne con uno o più membri (qui un quadro completo delle misure adottate). Egualmente ha fatto la Francia a seguito degli attentati di Parigi del novembre scorso. Se in quest’ultimo caso, tuttavia, la sospensione appare pienamente giustificata (la minaccia terroristica è esplicitamente richiamata all’art. 26(a) CFS), seri dubbi possono sollevarsi circa la legittimità del ricorso alle procedure di sospensione in risposta a flussi di migranti e richiedenti asilo. Difatti, secondo il CFS «(l)a migrazione e l’attraversamento delle frontiere esterne di un gran numero di cittadini di paesi terzi non dovrebbero in sé essere considerate una minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza interna» (26° considerando preambolare, CFS).
Come troppo spesso si ignora, peraltro, né il diritto internazionale né il diritto dell’Unione europea permettono di rifiutare l’accesso al territorio a coloro che chiedono asilo. Al riguardo il CFS, in conformità a quanto previsto dalla Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati (art. 31), esclude espressamente l’applicabilità ai rifugiati delle sue norme in tema di penalizzazione dell’ingresso irregolare. La direttiva 2013/32/UE, dal canto suo, stipula che ai cittadini di Stati terzi che facciano domanda di protezione internazionale in uno Stato membro, anche alla frontiera, deve essere permesso di accedere alla relativa procedura (art. 6). Se dunque, dinanzi ad un afflusso di rifugiati senza precedenti nella storia recente il sistema di accoglienza di alcuni Paesi europei (Grecia in primis) non ha retto, ciò non può addebitarsi a Schengen, né tantomeno ad una violazione delle sue regole, quanto piuttosto alle falle evidenti del sistema Dublino e all’insostenibilità di una sua piena applicazione.
Nondimeno la Commissione europea, posta dinanzi al rischio concreto di una fuga in ordine sparso da Schengen, ha avallato la summenzionata prassi, sostanzialmente accogliendo un’interpretazione estensiva del presupposto legittimante il ripristino dei controlli alle frontiere interne (in particolare, la Commissione ha fatto propria la posizione tedesca circa la sussistenza di un «identified threat to the internal security and public policy consisting of the uncontrolled influx of exceptionally large numbers of undocumented/improperly documented persons and the risk related to organized crime and terrorist threats»). Tale interpretazione è stata poi ribadita dalla Commissione nella sua relazione semestrale sul funzionamento dello Spazio Schengen, laddove si afferma che «l’afflusso incontrollato di un numero elevato di persone prive di documenti o con documenti inadeguati, che non vengono registrate al momento del loro primo ingresso in UE, può costituire una grave minaccia alla sicurezza interna e all’ordine pubblico e può pertanto giustificare l’applicazione delle misure» in discorso.
Parallelamente all’(ab)uso delle procedure di sospensione, la crisi migratoria ha altresì determinato un ricorso ingiustificato alle verifiche di polizia ex art. 23 CFS, in particolare da parte dell’Olanda. Il ricorso a siffatte verifiche, che, contrariamente alla procedura ex art. 25 CFS, non comporta alcun obbligo informativo nei confronti della Commissione, è permesso nella misura in cui il suo effetto non sia «equivalente alle verifiche di frontiera; ciò vale anche nelle zone di frontiera» (art. 23(a) CFS). Chiamata a interpretare la disposizione, la Corte di Giustizia aveva chiarito che questa, congiuntamente all’art. 22 (che sancisce il principio generale dell’assenza di controlli interni), osta «ad una normativa nazionale che conferisce alle autorità di polizia dello Stato membro interessato la competenza a controllare, esclusivamente in una zona di 20 chilometri a partire dalla frontiera terrestre di tale Stato con gli Stati parti della convenzione di Schengen, l’identità di qualsiasi persona, – indipendentemente dal comportamento di quest’ultima e da circostanze particolari che dimostrino una minaccia per l’ordine pubblico – al fine di verificare il rispetto degli obblighi di legge riguardo al possesso, al porto e all’esibizione di titoli e documenti, senza prevedere la necessaria delimitazione di tale competenza, atta a garantire che l’esercizio pratico di quest’ultima non possa avere un effetto equivalente a quello delle verifiche di frontiera» (sentenza Melki e Abdeli, cause riunite C-188/10 e C-189/10, par. 75). Nel successivo caso Adil (causa C-278/12 PPU), esprimendosi in merito alla normativa olandese sui controlli mobili in materia di sicurezza, la Corte aggiungeva che gli artt. 22-23 CFS consentono verifiche dirette a verificare se le persone fermate per identificazione soddisfino i requisiti di soggiorno regolare applicabili nello Stato interessato, «qualora tali controlli si basino su informazioni generali e dati dell’esperienza in materia di soggiorno irregolare di persone nei luoghi dei controlli, qualora essi possano essere parimenti effettuati in misura limitata per ottenere informazioni generali siffatte e dati dell’esperienza in tale materia e qualora il loro esercizio sia sottoposto a talune limitazioni relative, segnatamente, alla loro intensità ed alla loro frequenza» (par. 88). A seguito di tale giurisprudenza, l’Olanda ha emendato la normativa interna, prevedendo la possibilità di una intensificazione temporanea delle verifiche in discorso nel caso di «a sudden or expected increase of irregular migrants crossing at the borders». Misura che è stata poi applicata dal governo olandese nel settembre 2015, al fine tra l’altro, di «preventing human smugglers from abusing the vulnerable position of asylum seekers» (sic!). Indipendentemente dalla legalità di tale misura e della sua base giuridica, la vicenda ben evidenzia come l’ambiguità definitoria che caratterizza la nozione di verifiche di polizia renda di fatto più agevole l’aggiramento del divieto di controlli interni.
Le proposte di modifica del Codice Frontiere Schengen
Nel tentativo di favorire una gestione efficace delle frontiere europee, la Commissione, il 15 dicembre 2015, aveva presentato il c.d. Pacchetto frontiere. Nella proposta la Commissione evidenzia come il controllo alle frontiere esterne costituisca una delle principali garanzie dello spazio Schengen. Tra le varie misure ivi proposte, quella che ha attratto più attenzione concerne l’istituzione di una guardia costiera e di frontiera europea. Altre innovazioni di non poco rilievo riguardano tuttavia il Codice Frontiere Schengen. La Commissione infatti, al fine di combattere il fenomeno dei foreign terrorist fighters, molti dei quali sono cittadini dell’Unione (v. qui), ha proposto di introdurre dei controlli sistematici obbligatori dei cittadini europei alle frontiere esterne e di aumentare i controlli già esistenti per i cittadini extracomunitari a fini di sicurezza.
La proposta, che modifica l’art. 8 CFS, introduce l’obbligo di effettuare, a tutte le frontiere esterne, in ingresso e in uscita, verifiche sistematiche sui beneficiari del diritto alla libera circolazione ai sensi del diritto UE (ovvero i cittadini dell’Unione e i loro familiari che non sono cittadini UE), consultando le pertinenti banche dati al fine di accertarsi che tali persone non rappresentino una minaccia per la sicurezza interna, l’ordine pubblico, le relazioni internazionali o la salute pubblica. La proposta rafforza poi la necessità di verificare gli identificatori biometrici nei passaporti dei cittadini dell’UE in caso di dubbi sull’autenticità del passaporto o sulla legittimità del titolare. L’obbligo di controlli sistematici potrà essere derogato dagli Stati membri soltanto allorché vi sia il rischio di un impatto sproporzionato sul flusso di traffico. In tal caso, alle verifiche sistematiche potranno sostituirsi controlli mirati nelle banche dati. Tale possibilità, tuttavia, riguarda soltanto le frontiere esterne terrestri e marittime, non invece quelle aeree. Vi è dunque il rischio concreto che con le nuove procedure di controllo negli aeroporti si verifichino lungaggini e ritardi, con un conseguente effetto sulla libera circolazione. La questione non pare aver sollevato particolare interesse nell’ambito del Consiglio GAI che ha adottato un orientamento generale in materia (l’unico punto controverso della proposta ha infatti riguardato la durata della deroga transitoria concessa agli Stati per adeguarsi al nuovo sistema di verifiche sistematiche alle frontiere aeree), ma auspicabilmente verrà ridiscussa in sede parlamentare. Eppure, se il fine è quello di rilevare i movimenti dei terrorist fighters, una soluzione meno invasiva per la libera circolazione potrebbe essere quella, proposta da Steve Peers, di limitare i controlli sistematici a certi voli o a certe frontiere aeree, determinati a seguito di una precisa analisi dei rischi.
Verso un ripristino dello spazio Schengen?
Benché l’esigenza di ritornare ad un normale funzionamento di Schengen sia stata riconosciuta sia dal Consiglio europeo che dalla Commissione, non è ancora chiaro se e quando ciò potrà avvenire. Tale ripristino è infatti strettamente condizionato all’attenuarsi delle pressioni migratorie e delle attuali carenze strutturali nel controllo delle frontiere esterne. Presupposti la cui realizzazione è tuttora incerta. Il recente accordo di cooperazione con la Turchia, già di per sé censurabile sul piano del rispetto dei diritti umani e del diritto europeo dei rifugiati (v. Roman, Peers, Labayle/De Bruycker), non appare idoneo a ridurre il flusso di immigrazione irregolare, che pure sarebbe il suo principale obiettivo. E ciò non solo per le contraddizioni su cui riposa (v. Roman). Il tentativo di chiudere la via balcanica sta infatti determinando, anche con la complicità della primavera, un inevitabile riorientamento dei flussi verso altre rotte di fuga, in particolare quella che dalla Libia arriva in Italia (come ammesso dallo stesso presidente del Consiglio europeo Tusk). Si fa dunque sempre più concreta la prospettiva che la strada per il ripristino di Schengen passi per una sua ulteriore sospensione, questa volta però coordinata dall’Unione ex art. 29 CFS.
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Nella sincera speranza di “incrementare” il dibattito in corso, mi permetto di far presente il mio (piccolo) contributo che figura nel
“Blog CROIE Cronache dal diritto internazionale” in http://croie.luiss.it/archives/662