Oltre l’esegesi della risoluzione 2249
Enrico Milano, Università di Verona
L’efferatezza degli attacchi terroristici di Parigi, lo sdegno provocato nell’opinione pubblica, l’immediata e ferma reazione da parte dello Stato colpito e l’unanime solidarietà espressa dalla comunità internazionale hanno riportato alla mente di tutti, perlomeno nel mondo occidentale, gli eventi del 11 settembre 2001 (si vedano i commenti già apparsi su questo blog di Alì e Sommario). Come allora, anche oggi, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha presto veicolato la forte riprovazione della comunità internazionale, adottando all’unanimità la risoluzione 2249, in cui ha condannato gli attacchi terroristici compiuti dall’ISIS e ha invitato gli Stati ad adottare tutte le misure necessarie per coordinarsi, contrastare e sradicare il Califfato islamico. Nel giro di poche settimane, la risoluzione è stata diffusamente commentata nella blogosfera specialistica (si vedano in particolare Akande e Milanović, e Weller) e in riviste in formato elettronico (Hilpold e Martin), lasciando ben pochi spazi per ulteriori sforzi esegetici del testo. Pertanto il presente contributo non va letto come ulteriore (tardivo) commento alla risoluzione in esame, ma solamente da quest’ultima prende spunto, per interrogarsi brevemente su alcune questioni giuridiche che emergono dalla risoluzione stessa e dalle prassi precedenti e successive alla sua adozione e che investono in particolare l’evoluzione della nozione di legittima difesa nel diritto internazionale, in particolare il suo incardinamento nel sistema di sicurezza collettiva delle Nazioni Unite.
Partiamo dunque dalla risoluzione 2249. Due paiono essere i punti fermi cui è giunto il dibattito tra i commentatori. Il primo è che la risoluzione, ancorché caratterizzata da notevole “ambiguità costruttiva”, non autorizza il ricorso all’uso della forza armata ai sensi del Cap. VII della Carta, fornendo una base giuridica per l’intervento militare contro l’ISIS. Ciò nonostante l’“esortazione” rivolta agli Stati ad adottare tutte le misure necessarie per “sradicare” il porto franco stabilito dall’ISIS sui territori di Iraq e Siria e nonostante la determinazione ex art. 39 della Carta dell’esistenza di una «global and unprecedented threat to international peace and security» rappresentata dallo Stato dell’Iraq e del Levante. L’“autorizzazione” ai sensi dell’art. 42 è semplicemente assente e, sotto questo profilo, il dato testuale è incontrovertibile, nonostante il chiaro e convinto appoggio politico che il Consiglio esprime nei confronti di tutte le azioni, militari e non militari, intraprese nei confronti del Califfato. Il secondo punto è che la risoluzione non pregiudica le diverse posizioni giuridiche assunte dagli Stati intervenuti militarmente in Siria e in Iraq, semplicemente richiedendo che tali azioni avvengano «in compliance with international law, in particular the United Nations Charter» (in questo senso si veda anche Picone, “L’insostenibile leggerezza dell’art. 51 della Carta ONU”, in Rivista di diritto internazionale, 2016, p. 1 ss., a pp. 27-28, in corso di pubblicazione). Ricordiamo che gli interventi militari di contrasto all’ISIS sui territori iracheno e siriano si sono fino ad oggi asseritamente fondati sull’invito del Governo iracheno (intervento in Iraq di una Coalizione multinazionale coordinata dagli Stati Uniti), sull’esercizio della legittima difesa collettiva ex art. 51 (intervento in Siria da parte della medesima Coalizione su richiesta del Governo iracheno, a fronte dell’incapacità del governo siriano di neutralizzare gli attacchi originanti dal suo territorio), sull’invito da parte del Governo siriano (intervento russo in Siria) e sulla legittima difesa individuale (azioni aeree intraprese dalla Francia successivamente agli attacchi di Parigi). Con la risoluzione adottata, il Consiglio di sicurezza non muta il quadro giuridico di riferimento in cui operano le diverse operazioni militari appena menzionate, né, tanto meno, le limita o condiziona; anzi, “esorta” gli Stati a raddoppiare i propri sforzi per contrastare l’ISIS.
A modo di vedere di chi scrive, la prassi legata all’intervento anti-ISIS e la risoluzione 2249 si inseriscono in un solco già ben delineatosi negli ultimi dieci anni, in particolare nel contesto dell’azione internazionale di contrasto al fenomeno terroristico di matrice fondamentalista islamica. Da una parte, pur mancando un espresso riferimento all’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite (riferimento invece presente nel preambolo della risoluzione 1368 adottata il giorno dopo gli attacchi del 11 settembre 2001), la risoluzione consolida la tendenza in atto dal 2001 a riconoscere l’estensione del diritto di legittima difesa, previsto all’art. 51 della Carta, agli attacchi armati portati dai c.d. attori non-statali (tendenza che chi scrive ha avuto modo di ricostruire in altra sede). L’art. 51 è stato espressamente richiamato dalla Francia, dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti durante la riunione del Consiglio di sicurezza del 20 novembre 2015 e nei giorni immediatamente successivi agli attacchi di Parigi; ed era stato invocato dallo stesso Governo iracheno nel suo invito rivolto alla Coalizione per fermare l’avanzata dell’ISIS sul suo territorio e per colpire le basi situate in territorio siriano, ben prima degli attacchi di Parigi. Rimangono sullo sfondo alcuni elementi contrastanti: in particolare, il parere della Corte internazionale di giustizia sulla Liceità del muro in Palestina in cui la Corte ha limitato l’applicabilità del diritto di legittima difesa ai rapporti interstatali (si vedano sul punto Alì e Gradoni, questo blog) – interpretazione invero contestata da autorevoli giudici e comunque resa in un momento in cui la prassi era ancora ad uno stadio embrionale –; e la tendenza di alcuni Stati a non qualificare chiaramente le proprie azioni di risposta militare come azioni in legittima difesa, in particolare quando tali risposte paiono assumere i connotati di vere e proprie rappresaglie armate (si veda, per ultima, l’azione militare turca contro il Califfato in risposta agli attacchi terroristici di Istanbul del 12 gennaio 2016). Tuttavia, la prassi interpretativa dell’art. 51, come noto agevolata dal dato testuale, ma anche dalla collocazione dell’articolo all’interno del Cap. VII, è oggi ormai consolidata, diffusa a vari settori della comunità internazionale e, soprattutto, non osteggiata. E la dottrina maggioritaria, perlomeno fuori dall’Italia, pur correttamente individuando diversi aspetti critici legati all’esercizio della legittima difesa sul territorio di Stati sovrani e al rischio di abusi insito in una war on terror giustificata sulla base della legittima difesa, sembra anch’essa oggi orientata in questo senso (sulla ricostruzione della dottrina in materia si rinvia a Milano e Hilpold).La stessa dottrina italiana, con poche eccezioniancora piuttosto “prudente” sull’estensione della legittima difesa agli attacchi armati portati da attori non statali, pare accettare che questa possa trovare applicazione quando l’attacco sia portato da un’organizzazione territoriale organizzata (Cannizzaro, in particolare pp. 345-348) ovvero quando provenga da un territorio su cui il governo dello Stato non è in grado di esercitare la propria autorità di governo (Tanzi, pp. 441-442), circostanze entrambe realizzate nel caso dell’ISIS.Anchechi avversa il ricorso alla legittima difesa come modello ricostruttivo dell’azione militare internazionale contro l’ISIS, ritenendo che questa debba essere inquadrata piuttosto nelle reazioni collettive alle violazioni gravi di obblighi erga omnes, conferma l’evoluzione dell’istituto della legittima difesa nel senso sopra delineato (Picone, cit., p. 18).
Un aspetto meno dibattuto nei commenti apparsi fino ad oggi è quello della condizione sospensiva all’esercizio del diritto alla legittima difesa prevista dall’art. 51 della Carta, che riconosce il diritto degli Stati a difendersi fintantoché il Consiglio di sicurezza non abbia adottato le misure necessarie al fine di mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. Diventa logico chiedersi se, con l’approvazione della risoluzione 2249, il Consiglio non abbia effettivamente adottato tutte le misure necessarie per ristabilire la pace e la sicurezza internazionale e se, pertanto, gli Stati non siano tenuti a sospendere le proprie azioni armate contro l’ISIS. La risposta è senz’altro negativa. Di fatto, con la risoluzione 2249 il Consiglio non ha adottato alcuna misura ai sensi del Cap. VII, se non un mero invito rivolto agli Stati che non pare rientrare né nelle raccomandazioni previste dall’art. 39 (sulla cui natura si rimanda a Conforti, Focarelli, p. 255), né in generale nelle misure ex Cap. VII a cui fa riferimento l’art. 51. La risposta è confortata dal dato sostanziale: come abbiamo già avuto modo di osservare, il Consiglio non interviene per stabilire e definire strumenti di contrasto all’ISIS, ma implicitamente riconosce la diversità di interventi militari e di posizioni giuridiche assunte e concede un avallo politico. Analogamente a quanto avvenuto con la reazione agli attacchi del 11 settembre 2001 e con le sanzioni nei confronti di Al-Qaeda, il Consiglio di sicurezza ha invece adottato, sia prima, sia dopo gli attacchi di Parigi, delle misure restrittive e sanzionatorie nei confronti dei leader e degli afferenti al Califfato, chiaramente riconducili ai poteri previsti dall’art. 41 della Carta (si veda per esempio la ris. 2253 del 17 dicembre 2015). Sul piano teorico, dunque, si porrebbe il problema di capire se la legittima difesa debba essere terminata in conseguenza di tali misure. Se ci si limitasse a una lettura formalistica e testuale della Carta, la risposta dovrebbe essere positiva. In realtà, lo si vuole ripetere, l’art. 51 si colloca all’interno del Cap. VII e il suo concreto operare normativo va valutato all’interno delle dinamiche di funzionamento del sistema di sicurezza collettiva incardinato sulla competenza e sui poteri del Consiglio di sicurezza. Maggiore sarà l’assunzione della “responsabilità principale” in materia di mantenimento della pace e della sicurezza internazionale da parte del Consiglio, ivi inclusa la direzione e il coordinamento da parte del Consiglio delle misure implicanti l’uso della forza armata, minore lo spazio per interventi unilaterali o collettivi in legittima difesa. Nessuno Stato, durante i tanti dibattiti tenutisi in seno al Consiglio sulla risposta all’ISIS, ha invocato la condizione prevista all’art. 51 per chiedere l’interruzione delle operazioni militari contro l’ISIS. Più in generale, in tutta la vicenda relativa alla gestione della crisi siriana, è noto come gli interessi geopolitici individuali, in particolare dei membri permanenti, abbiano ancora una volta prevalso sull’esigenza di adottare delle misure efficaci di mantenimento della pace e come il Consiglio di sicurezza si sia ridotto a mero foro multilaterale in cui sono state concordate misure, peraltro minimali rispetto alla tragedia in corso, di assistenza umanitaria alla popolazione e di contrasto al Califfato. Con la risoluzione 2249, non solo il Consiglio di sicurezza non ha limitato l’esercizio alla legittima difesa, addirittura ha invitato tutti gli Stati a continuare e raddoppiare i propri sforzi, anche ai fini di un coordinamento collettivo (ad essi “delegato”). Parrà una tautologia, ma il sistema normativo della sicurezza collettiva prevista dalla Carta opera…quando funziona! Non può darsi illiceità di un intervento in legittima difesa condizionato dalla competenza e dai poteri in capo al Consiglio di sicurezza, quando questi poteri non vengano esercitati; in altre parole, una limitazione in capo agli Stati alla possibilità di esercitare la legittima difesa, ulteriore rispetto a quella prevista dal diritto internazionale generale, non può essere presunta, ma deve essere resa operativa in maniera esplicita dal Consiglio di sicurezza stesso.
Come il Consiglio di sicurezza non è intervenuto per limitare gli interventi militari esterni giustificati sulla base della legittima difesa, così non è intervenuto per condannare o limitare gli interventi su invito del governo legittimo. Non sfuggirà al lettore che sia l’intervento russo in Siria, sia l’intervento della Coalizione in Iraq, sono diretti e coordinati da due membri permanenti del Consiglio di sicurezza e che, quindi, sarebbe utopistico attendersi una condanna da parte dello stesso organo in cui questi due Stati, come noto, detengono un potere di veto. Ma non si vuole in questa sede ribadire l’ovvietà della Realpolitik; piuttosto si vuole far notare come, ancora una volta, l’intervento su invito del governo legittimo di uno Stato non abbia trovato opposizione di carattere giuridico, nemmeno quando il governo non era in grado di controllare importanti fette di territorio e aveva perso legittimità agli occhi di ampi settori della comunità internazionale. Viene dunque confermata la tendenza, emersa anch’essa negli ultimi quindici anni (si veda, con specifico riferimento al conflitto in Mali, Tancredi) a non considerare illecito l’intervento esterno su invito a sostegno del governo dello Stato che si trovi coinvolto in un conflitto civile con forze ribelli organizzate. Ciò nonostante il divieto di assistenza militare contenuto nella nota risoluzione di Wiesbaden, adottata dall’Institut de droit international nel 1975, sul principio di non-intervento nei conflitti civili, che non pare più corrispondere alla realtà del diritto internazionale odierno.
In conclusione, ci pare di poter affermare che la risoluzione 2249, così come la prassi di intervento in Siria e in Iraq dell’ultimo anno e mezzo, rafforza la tendenza ad ampliare i margini interpretativi delle giustificazioni giuridiche a sostegno di interventi militari unilaterali, o multilateralmente coordinati, al di fuori del sistema di sicurezza collettivo delle Nazioni Unite; per contro il sistema designato dalla Carta delle Nazioni Unite diventa sempre meno efficace per quanto concerne l’impiego della forza armata, con un Consiglio di sicurezza spettatore non disinteressato delle politiche di potenza dei propri membri permanenti. Al fine di comprendere le ragioni e le dinamiche profonde dell’operare del diritto internazionale in una crisi complessa come quella siriana, diventa quindi utile richiamare il contributo di Picone (in particolare gli scritti dedicati al contrasto all’ISIS, tra i quali quello apparso sul presente blog e quelli pubblicati, o in corso di pubblicazione, nella Rivista di diritto internazionale). L’autore, come noto agli addetti ai lavori, ha da tempo individuato e articolato un doppio circuito di funzionamento delle dinamiche normative internazionali sull’uso della forza, uno “onusiano” e uno, sostitutivo e sussidiario, fondato sul diritto internazionale generale, in particolare sulle reazioni alle violazioni di obblighi erga omnes. Basti notare in questa sede che la dimensione militare del conflitto siriano e del contrasto a Daesh è oggi totalmente assorbita dal diritto internazionale generale e che la ricostruzione fondata sulle reazioni collettive alla violazione di obblighi erga omnes trova significativi riscontri, anche e precipuamente nella risoluzione 2249 che, come già menzionato, parla nel preambolo di «global and unprecedented threat» e richiede un “raddoppio” degli sforzi degli Stati a coordinarsi nelle politiche di reazione. A modo di vedere di chi scrive, soprattutto se si qualificano l’esercizio del diritto alla legittima difesa individuale (Francia) e il diritto a richiedere l’assistenza militare esterna (Iraq e Siria) come le prerogative specifiche degli Stati “individualmente lesi” e «specially affected» dalle condotte in grave violazione di valori indivisibili della comunità internazionale; qualifica che non pare invisa allo stesso Picone (“L’insostenibile leggerezza dell’art. 51 della Carta ONU”, cit., spec. p. 30 e nota 64), nonostante la netta critica che l’autore avanza nei confronti del ricorso alle categorie della legittima difesa e dell’intervento su richiesta come fondamenti autonomi e “parcellizzati” agli interventi anti-ISIS.
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