L’Italia, l’Egitto, e il “diritto alla verità”: alcune considerazioni sul caso Regeni
Luca Pasquet, Graduate Institute of International and Development Studies
Sappiamo poco delle circostanze che hanno portato alla morte di Giulio Regeni. Ma gli elementi resi noti dalla stampa – la sua sparizione, ed il ritrovamento del corpo che riporta tracce evidenti di tortura – fanno sorgere alcuni sospetti rispetto alle responsabilità delle autorità egiziane. Come osservato da diversi commentatori, il caso del ricercatore italiano ricorda molto da vicino quelli di centinaia di egiziani rapiti, torturati ed assassinati negli ultimi due anni per essersi opposti in vario modo al regime del generale Al-Sisi (si vedano a tal proposito, il commento di Ursula Linsey sul SIDIBlog e l’articolo di Fahim, Youssef e Walsh sul New York Times). Circostanza che fa sorgere dubbi legittimi sulla natura del brutale assassinio in questione: si tratta davvero di un crimine isolato, o è piuttosto un atto che s’inserisce in un preciso disegno di intimidazione e sistematica eliminazione del dissenso?
A tal riguardo va detto che, per quanto riguarda l’Egitto, il ricorso generalizzato al rapimento e alla tortura come strumenti di repressione politica è confermato da numerosi documenti di istituzioni internazionali ed ONG. Solo per citarne alcuni, nel 2014 e nel 2015, con due risoluzioni, la Commissione africana dei diritti umani condannava gli arresti arbitrari, gli atti di tortura, gli stupri, e le esecuzioni arbitrarie subite da giornalisti, difensori dei diritti umani ed oppositori politici nel Paese. Nei rapporti relativi allo stesso periodo, il Gruppo di lavoro dell’ONU sulle sparizioni forzate esprimeva preoccupazione per il deterioramento della situazione dei diritti umani e l’alto numero di sparizioni denunciate (Rapporto 2014, UN Doc. A/HRC/27/49, par. 74) che venivano analizzate come “a recent pattern of short-term disappearances” (Rapporto 2015, UN Doc. A/HRC/30/38, par 67; si veda anche il riepilogo delle comunicazioni prese in considerazione nel settembre 2015, UN Doc. A/HRC/WGEID/107/1, par. 36-47). La maggior parte dei casi analizzati riguarda persone prelevate da agenti delle forze di sicurezza egiziane di cui non si è più avuta notizia (ibid.). Tutte queste circostanze vengono confermate a livello generale da Amnesty International, Human Rights Watch e la Fédération Internationale des Ligues des Droits de l’Homme.
È appena il caso di ricordare che la tortura e la privazione arbitraria della libertà e della vita di una persona sono pratiche inescusabili proibite da norme internazionali inderogabili che potrebbero aver acquisito lo status di jus cogens (con particolare riferimento alla tortura, si vedano le sentenze Furundija, Tribunale penale internazionale per l’Ex Jugoslavia (Trial Chamber), 1998, par. 164 e pp. 58 ss.; Al-Adsani, Corte europea dei diritti umani, 2001, par. 60; Questions Relating to the Obligation to Prosecute or Extradite (Belgium v. Senegal), Corte Internazionale di Giustizia, 2012, par. 99).). Tali atti implicano la responsabilità internazionale dello Stato non solo quando posti in essere da un organo dello Stato, ma anche qualora lo Stato abbia omesso di prendere quelle misure, previste da specifici obblighi positivi, necessarie a prevenirne e reprimerne la commissione, nonché a permettere alle vittime di ottenere il risarcimento per i danni subiti.
Particolarmente rilevante, in questo senso, è l’obbligo procedurale d’attivare tempestivamente un’inchiesta effettiva. A titolo esemplificativo, l’art. 12 della Convenzione contro la tortura (di cui l’Egitto è parte) prevede che “ogni Stato Parte provvede affinché́ le autorità̀ competenti procedano immediatamente ad un’inchiesta imparziale ogniqualvolta vi siano ragionevoli motivi di credere che un atto di tortura sia stato commesso in un territorio sotto la sua giurisdizione”. Peraltro, in una decisione del 2011 riguardante proprio l’Egitto, richiamando la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani e del Comitato per i diritti umani dell’ONU, la Commissione africana per i diritti dell’uomo e dei popoli ha specificato che “an impartial investigation should involve a thorough or scrupulous procedure which leads to results that identify the perpetrators and punishes those responsible for the ill-treatment and other violations alleged” (decisione Egyptian Initiative for Personal Rights, par. 230). Simili obblighi procedurali si applicano in caso di sparizioni forzate e di omicidio (si veda in particolare la decisione Mujkanovic v. Bosnia and Erzegovina, Corte europea dei diritti umani, 2014, par. 37, la quale sottolinea come il ritrovamento del corpo senza vita di una persona scomparsa non ponga fine al suddetto obbligo: “an obligation to account for the disappearance and death, and to identify and prosecute any perpetrator of unlawful acts in that connection, will generally remain”).
Quest’obbligo va inoltre letto alla luce del concetto di ‘diritto alla verità’ (si veda Office of the UN High Commissioner for Human Rights, ‘Study on the Right to the Truth’, UN Doc. E/CN.4/2006/91, 2006), cui viene fatto riferimento in un crescente numero di casi per descrivere una serie di aspettative giuridicamente tutelate in capo alle vittime di gravi violazioni dei diritti umani, ai loro parenti e, in una certa misura, anche al pubblico, o alla società in generale (ibid. par. 35-47). Secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani, per esempio, quest’ultima ha diritto di “sapere cos’è accaduto” per poter confidare nello Stato, ma anche per prevenire “the appearance of collusion in or tolerance of unlawful acts” (Sentenza El-Masri, Corte europea dei diritti umani, 2012, par. 191).
A fronte di tali principi, la formula ‘verità per Giulio Regeni’ appare come qualcosa di più di un semplice slogan. L’Egitto ha infatti l’obbligo giuridico di prendere misure effettive per fare chiarezza sul caso del ricercatore italiano, e per perseguire i responsabili del suo assassinio. Silenzi, opacità, volontà di nascondere eventuali responsabilità individuali sono elementi che hanno un peso nella valutazione della responsabilità internazionale dello Stato.
A tal riguardo, se è forse troppo presto per valutare l’effettività dell’inchiesta aperta dalle autorità egiziane, vi sono però alcuni elementi che non permettono di essere ottimisti. Per iniziare, molte fonti mettono in luce la mancanza d’indipendenza del potere giudiziario egiziano e la conseguente impunità accordata ai componenti delle forze di sicurezza che fanno capo al regime militare (si veda la Risoluzione 287/2014 della Commissione africana per i diritti umani e dei popoli, cit., che “calls on the authorities to investigate and prosecute the perpetrators of human rights violations in order to end the culture of impunity in the country”; si veda anche la raccolta di informazioni sull’Egitto preparata dall’Alto Commissario per i diritti umani in vista della Universal Periodic Review del 2014, A/HRC/WG.6/20/EGY/2, par. 32-37). Inoltre il governo egiziano ha fin qui dimostrato scarsa volontà di collaborare con l’ONU e la Commissione africana dei diritti umani e dei popoli nel monitoraggio della situazione dei diritti umani nel Paese (l’ultimo rapporto periodico presentato al Comitato contro la tortura risale al 2001, quello inviato al Comitato sui diritti umani al 2002; sul fronte della Convenzione africana sui diritti umani mancano gli ultimi sei rapporti). Si consideri soprattutto come, in relazione a molti dei casi analizzati dal Gruppo di lavoro dell’ONU sulle sparizioni forzate negli ultimi due anni, l’Egitto abbia omesso di fornire le spiegazioni richieste (si vedano i Rapporti 2014 e 2015, sopra citati). Peraltro, il Gruppo di lavoro reitera dal 2011 la richiesta di visitare l’Egitto; richiesta che, puntualmente, rimane senza risposta (si veda il rapporto del 2015, cit., par. 68). Perché nel caso Regeni l’atteggiamento dovrebbe essere differente?
L’Egitto non è però l’unico Paese a doversi attivare. L’Italia non può limitarsi a guardare, sperando che il pubblico perda interesse rispetto al caso Regeni. Il ricercatore assassinato era un cittadino italiano, e i suoi genitori, che hanno diritto – in senso giuridico – di conoscere la verità sulla scomparsa del figlio, rientrano nella giurisdizione dello Stato italiano. Inoltre, la richiesta di una parte della società italiana di far luce sulla vicenda va esattamente nella direzione indicata dalla Corte europea dei diritti umani (El-Masri, cit.) di sapere cos’è accaduto per potersi ancora fidare dello Stato – quello italiano prima ancora di quello egiziano. Il principio della verità come antidoto contro la collusione e la tolleranza di atti contrari ai diritti fondamentali (ibid.) può e dev’essere applicato alle relazioni internazionali. In fondo, collusione ed omertà non restano confinati entro le frontiere nazionali. Peraltro, uno strumento come la Convenzione contro la tortura, che dà ampio spazio alla collaborazione giudiziaria tra Stati, e prevede un ruolo attivo tanto per lo Stato sul cui territorio l’atto di tortura è stato commesso quanto per lo Stato di cittadinanza della vittima e per quello sul cui territorio si trovi la persona sospettata di aver commesso l’atto in questione, sembrano indicare una strategia corale, una collaborazione internazionale per la repressione della tortura.
Certo, com’è doveroso, la Procura di Roma ha aperto un’indagine. Tuttavia, il Governo italiano non può ignorare il particolare contesto egiziano – il ricorso massiccio alla tortura da parte delle forze di sicurezza (e quindi dello stesso Stato con cui si collabora) e la mancanza d’indipendenza della magistratura egiziana – agendo come se si trattasse di un caso suscettibile d’essere chiarito per mezzo della sola collaborazione giudiziaria tra i due paesi. Se l’Italia non ha accesso diretto alle informazioni e alle prove necessarie a chiarire la vicenda, ci si aspetta che essa pretenda – e non si limiti ad auspicare – che luce sia fatta sui crimini in questione, e che eserciti ogni mezzo legittimo per fare pressione sul governo egiziano in questo senso. Inoltre, vista l’eccezionalità della situazione e la gravità dei crimini, è auspicabile che si ricorra a mezzi straordinari, pur nel rispetto del diritto internazionale.
In questo senso, su Affari Internazionali, Natalino Ronzitti sottolinea la possibilità di far approvare dal Consiglio dei diritti umani dell’ONU una risoluzione che preveda la costituzione di una commissione d’inchiesta sulla tortura in Egitto. Lo stesso Ronzitti evidenzia tuttavia i due maggiori limiti di una tale soluzione. In primo luogo, queste commissioni non si occupano di solito di un unico caso, ma di situazioni di gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani su un determinato territorio (quelle in corso riguardano la situazione generale dei diritti umani in Siria, Libia ed Eritrea). Inoltre, l’istituzione di una commissione d’inchiesta dipenderebbe dal voto favorevole della maggioranza dei membri del Consiglio.
Come suggerito da Pasquale De Sena nello spazio virtuale del suo profilo pubblico di Facebook il 18 febbraio 2016, uno strumento da prendere in considerazione potrebbe essere l’arbitrato previsto dall’art. 30 della Convenzione contro la tortura. Quest’ultimo prevede che “qualsiasi controversia tra due o più Stati Parte inerente all’interpretazione o all’applicazione della presente Convenzione, non risolvibile tramite negoziato, è sottoposta ad arbitrato a richiesta di uno di questi Stati. Qualora, nei sei mesi seguenti alla data della richiesta di arbitrato, le parti non siano giunte ad un accordo sull’organizzazione dell’arbitrato, ciascuna di esse può sottoporre la controversia alla Corte internazionale di giustizia tramite deposito di una domanda conforme allo Statuto della Corte.” L’Egitto non ha apposto alcuna riserva concernente l’articolo in questione. L’Italia potrebbe quindi ricorrere a tale strumento per chiedere ad un giudice terzo ed imparziale di accertare la responsabilità dell’Egitto per la violazione della Convenzione contro la tortura, e far dichiarare l’obbligo dello Stato egiziano a risarcire i familiari di Giulio Regeni. Il testo dell’articolo 30 sembra tuttavia suggerire che un negoziato debba essere instaurato prima di poter richiedere l’arbitrato, o, in alternativa, che si provi in modo convincente che la controversia non può essere risolta tramite negoziato. Comunque si voglia interpretare la clausola in questione, a monte è necessario che l’Italia ammetta l’esistenza di una controversia con l’Egitto ove quest’ultimo non adempia all’obbligo sancito dall’articolo 12 della Convenzione sulla tortura.
La condizione fondamentale per un’azione efficace da parte dell’Italia è infatti la volontà politica di sollevare la questione della responsabilità internazionale dell’Egitto per la morte di Giulio Regeni. Una volontà che ancora non è stata manifestata. A voler esser cinici, si potrebbe pensare che la ragione della timidezza italiana vada individuata negli ingenti scambi commerciali con l’Egitto (si vedano a questo proposito il commento di Ursula Lindsey su SIDIBlog e quello di Giovanni De Mauro su Internazionale). Certo, a ben vedere tali relazioni economiche potrebbero anche costituire uno strumento per far pressione sull’Egitto, ma solo a patto di avere la lungimiranza ed il coraggio di rischiare i proventi di alcuni investimenti per un obiettivo che non sia di ordine economico. Per ora, invece, l’attitudine italiana verso il regime egiziano sembra riflettere l’atteggiamento incongruente delle élites occidentali verso il Medio Oriente: da una parte tolleranti verso le peggiori violazioni dei diritti umani in nome di una visione cinica del concetto di ‘stabilità’ e per tutelare gli investimenti nazionali nella regione (interessante, a tal proposito, la parte finale del rapporto di HRW sull’Egitto, cit.), oppure, all’estremo opposto, difensori della ‘democrazia’ a suon di bombe. Due soluzioni che, senza dubbio, hanno fatto crescere l’instabilità nella regione. L’alternativa sarebbe quella di porsi come interlocutori forti e coerenti, capaci di difendere anche principi ed interessi diversi da quelli economici, nel rispetto del diritto internazionale. Se teniamo presente che molte delle rivolte scoppiate nel contesto delle cosiddette primavere arabe (e la rivoluzione egiziana tra queste, come ricorda Lindsey sul SIDIBlog) sono state almeno in parte una reazione alla brutalità dei regimi della regione, allora una politica coerente di rafforzamento dei diritti umani potrebbe aumentare il livello di stabilità politica dell’area, con chiari vantaggi per tutti, a cominciare dall’Italia.
Per finire, riguardo ai rimedi disponibili per i famigliari di Regeni, mi sembra vada ricordato quanto notato da Ronzitti su Affari Internazionali (cit.) a proposito della possibilità di adire le corti italiane per chiedere la condanna dell’Egitto al risarcimento dei danni causati. Ricorda giustamente Ronzitti che in seguito alla giurisprudenza Ferrini della Corte di Cassazione, ma soprattutto dopo la sentenza 238/2014 della Consulta, l’immunità dello Stato straniero non sembra più poter essere invocata con successo in casi riguardanti crimini internazionali o gravi violazioni dei diritti umani. Se ciò è condivisibile in termini generali, è tuttavia lecito porsi alcune domande sui problemi che il ricorso ad un’azione di risarcimento porrebbe nel caso Regeni. Prima di tutto, la giurisprudenza citata sembra ammettere un’eccezione rispetto alla regola dell’immunità dello Stato unicamente in quei casi in cui le vittime di gravi violazioni dei diritti umani non abbiano accesso ad un ricorso alternativo. Questo implica che ogni pronunciamento sulla giurisdizione del giudice italiano richiederà una valutazione degli eventuali ricorsi disponibili in Egitto (sono concretamente accessibili? Sono effettivi?). Inoltre, sarà probabilmente molto difficile raccogliere gli elementi probatori necessari a sostenere la richiesta risarcitoria, se è vero che, ad oggi, il maggior problema è proprio quello di stabilire cosa sia avvenuto nelle ore precedenti al ritrovamento del corpo senza vita di Giulio Regeni. Questi sono naturalmente solo alcuni dei nodi da sciogliere prima di stabilire se la soluzione in questione sia effettivamente praticabile. Tra le altre cose, bisognerà per esempio valutare attentamente la questione del titolo fondante la giurisdizione del giudice italiano, così come quella del diritto applicabile. Tali complesse questioni meritano tuttavia di essere più ampiamente elaborate e discusse, anche in un futuro commento, da un autore più competente del sottoscritto.
Va comunque detto che non sembrano esistere molte altre strade aperte ai parenti della vittima. L’Egitto non accetta la competenza del Comitato sui diritti umani e del Comitato contro la Tortura dell’ONU a ricevere comunicazioni individuali, né la giurisdizione della Corte africana dei diritti umani e dei popoli. La carta africana prevede, all’art. 55(2) che la Commissione possa ricevere comunicazioni provenienti da individui e organizzazioni non governative che denuncino la violazione della Carta. Tuttavia, stando alla giurisprudenza della Commissione, tale procedura avrebbe il mero fine di instaurare “a positive dialogue, resulting in amicable resolution between the complainant and the State concerned, which remedies the prejudice complained of” (decisione Free Legal Assistance Group and Others, 1995, par. 39). Anche il Consiglio per i diritti umani dell’ONU riceve comunicazioni individuali “with a view to enhance cooperation with the State concerned”. Tali procedure potrebbero forse aumentare la pressione internazionale sull’Egitto, ma va detto che, come notato in precedenza, quest’ultimo ha fin qui dimostrato di non essere particolarmente interessato a collaborare con le istituzioni internazionali per la protezione dei diritti umani.
Anche a fronte di queste difficoltà, è quantomai opportuno che il governo italiano si attivi nei confronti dell’Egitto, pretendendo che questo faccia piena luce sulla vicenda, persegua i responsabili dell’omicidio di Giulio Regeni e provveda al risarcimento dei familiari della vittima.
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