La sentenza Celaj della Corte di Lussemburgo e la detenzione degli stranieri irregolari: un passo indietro?
Daniela Vitiello, Università degli Studi Roma Tre
La sentenza della Corte di giustizia UE nel caso Skerdjan Celaj (1° ottobre 2015, in causa C-290/14) completa il quadro delle pronunce rese in via pregiudiziale dai giudici di Lussemburgo in relazione alla questione dei limiti imposti dal diritto dell’Unione al ricorso alla pena detentiva nell’ambito delle procedure nazionali di rimpatrio degli stranieri irregolari.
Nel provvedimento di rinvio del 22 maggio 2014, il Tribunale di Firenze aveva sollevato la questione della compatibilità con la direttiva 2008/115/CE (“direttiva rimpatri”) di una normativa nazionale che preveda la pena della reclusione per un cittadino di un paese terzo che, colpito da una decisione di rimpatrio accompagnata da un divieto di ingresso, rientri nel territorio dello Stato, trasgredendo siffatto divieto. Imputato nel procedimento principale era un cittadino albanese, il sig. Celaj, che, dopo essere entrato clandestinamente in Italia, era stato arrestato e condannato per furto e, quindi, raggiunto da un decreto espulsivo, corredato da un ordine questorile di accompagnamento alla frontiera e da un divieto di reingresso per la durata di tre anni. Nonostante il rischio di fuga, l’accompagnamento coattivo alla frontiera non aveva avuto luogo e l’interessato, cui pure era stato intimato di lasciare tempestivamente il territorio italiano, aveva protratto il suo soggiorno illegale per alcuni mesi, finché aveva spontaneamente lasciato l’Italia. Al suo rientro in Italia, avvenuto circa due anni e mezzo dopo, era stato immediatamente identificato e arrestato per reingresso non autorizzato. Quindi, nell’ambito del procedimento penale dinanzi al giudice fiorentino, il p.m. ne aveva chiesto la condanna alla pena della reclusione per il reato di cui all’art. 13, co. 13, del d.lgs. 286/1998 (“TU immigrazione”), mentre il difensore ne aveva chiesto l’assoluzione perché la direttiva rimpatri avrebbe determinato effetti assimilabili all’abolitio criminis del reato di indebito reingresso, con conseguente necessità di dichiarare che il fatto ascritto al sig. Celaj non fosse più previsto dalla legge come reato.
Il dubbio interpretativo del Tribunale di Firenze era più che legittimo, alla luce del filone giurisprudenziale di Lussemburgo inaugurato nel 2011 con la sentenza El Dridi. A partire da quella decisione, infatti, la Corte di giustizia ha iniziato a “picconare” l’articolato impianto sanzionatorio previsto dalla disciplina italiana in materia di espulsione degli stranieri a mezzo del potente “strumento” dell’effetto utile. Con le successive sentenze Achughbabian, Sagor e Filev e Osmani, la Corte ha precisato i confini ermeneutici della direttiva rimpatri, finendo per ridimensionare ulteriormente la funzione svolta dalle misure coercitive nell’ambito della procedura di rimpatrio. Muovendo da queste premesse, la sentenza Celaj potrebbe apparire come una brusca frenata. Ma è realmente così? Per scoprirlo, ancor prima di procedere alla disamina delle questioni pregiudiziali sollevate dal giudice remittente, delle proposte dell’Avvocato generale e delle argomentazioni della Corte di giustizia nella decisione del caso Celaj, è utile ripercorrere i tratti salienti di tale giurisprudenza e dare conto di come essa abbia condotto a un (parziale) ripensamento dell’impianto penale del TU immigrazione.
La giurisprudenza di Lussemburgo sulla direttiva rimpatri
Nella sentenza El Dridi, la norma chiamata in causa nel procedimento principale era quella di cui all’art. 14, co. 5-ter, del TU immigrazione, che sanzionava con la pena della reclusione l’inottemperanza all’ordine di allontanamento da parte dello straniero irregolare. Come si ricorderà, l’Italia non aveva all’epoca recepito la direttiva rimpatri, pur essendo i termini scaduti. Nondimeno, la Corte dichiarò che i suoi artt. 15 e 16 (sulle condizioni e le modalità del trattenimento) avessero efficacia diretta e ostassero a una normativa nazionale che sanzionava con la reclusione la permanenza ingiustificata di un cittadino di un paese terzo, oggetto di un ordine di allontanamento, nel territorio dello Stato membro. Infatti, l’esercizio statale della potestà sanzionatoria di tipo penale nel contrasto all’immigrazione irregolare poteva dirsi legittimo nella misura in cui non ritardasse o impedisse l’esecuzione del rimpatrio, che, a norma dell’art. 3, punto 5, della direttiva in parola, è definito come «il trasporto fisico [dell’interessato] fuori dallo Stato membro». Quindi, richiamandosi anche alla giurisprudenza della Corte EDU (v. Saadi c. Regno Unito), la Corte di giustizia dichiarò che la fissazione di un termine massimo per il trattenimento avesse lo scopo di limitare la durata della privazione della libertà dei cittadini di paesi terzi, oggetto di una procedura di rimpatrio coatto, al tempo strettamente necessario all’esecuzione materiale dello stesso (sent. El Dridi, punto 43; in argomento, Gallo).
Nella successiva pronuncia Achughbabian, la Grande sezione della Corte di giustizia è ritornata sulla nozione di “misure coercitive” (ex art. 8, par. 4, della direttiva), escludendo che l’irrogazione della pena detentiva, nel corso della procedura di rimpatrio, possa essere ricondotta nell’alveo operativo di siffatta nozione (ivi, punto 37). Ha poi chiarito la portata della norma di cui all’art. 2, par. 2, lett. b), che consente di escludere dall’ambito applicativo della direttiva le fattispecie criminose la cui disciplina nazionale contempli l’allontanamento come sanzione penale, negando la legittimità del ricorso a tale eccezione nei casi in cui l’unica infrazione contestata allo straniero sia quella di ingresso e soggiorno irregolare (ivi, punto 41). Infine, ha precisato quanto affermato nella sentenza El Dridi in relazione alla incompatibilità con il diritto dell’Unione di una normativa nazionale che sanzioni con la reclusione la permanenza ingiustificata dello straniero nel territorio dello Stato. Tale argomento, infatti, era stato richiamato, con finalità evidentemente opposte, tanto dai governi che avevano presentato osservazioni dinanzi alla Corte, quanto dal ricorrente nella causa principale (ivi, punti 47 e 23). Sul punto la Corte ha argomentato che, nonostante la legislazione penale rientri, in linea di principio, nella competenza degli Stati membri, il diritto dell’Unione incide su tale ambito e gli Stati membri sono tenuti a esercitare la loro competenza senza comprometterne gli obiettivi. Di conseguenza, non ha escluso la compatibilità con la direttiva di una normativa nazionale che consenta la reclusione dello straniero che protragga il proprio soggiorno irregolare nello Stato membro senza un giustificato motivo preclusivo del rimpatrio, ma a condizione che gli sia stata correttamente applicata la procedura di rimpatrio prevista dalla direttiva, senza riuscire a realizzare l’obiettivo dell’allontanamento. Nel caso Sagor, le argomentazioni sviluppate nella giurisprudenza El Dridi e Achughbabian sono servite alla Corte per precisare che l’art. 8 della direttiva non osta a una normativa nazionale che sanzioni il soggiorno irregolare degli stranieri con una pena pecuniaria sostituibile con la pena dell’espulsione, mentre sarebbe in contrasto con tale articolo un obbligo di permanenza domiciliare non corredato dalla previsione di cessazione dell’esecuzione della pena allorquando si renda possibile il rimpatrio.
Infine, nella sentenza Filev e Osmani, la Corte ha apportato un primo chiarimento in ordine alla nozione di “divieto di ingresso”, di cui all’art. 3, punto 6, della direttiva. Ai sensi del successivo art. 11, gli unici casi in cui gli Stati membri hanno l’obbligo di porre fine al soggiorno irregolare, disponendo il rimpatrio con divieto di ingresso, sono quelli in cui non sia stato concesso allo straniero un periodo per la partenza volontaria (nelle ipotesi previste dall’art. 7, par. 4, della direttiva) ovvero lo straniero non abbia ottemperato all’obbligo di rimpatrio. Negli altri casi, gli Stati godono della facoltà di accompagnare la decisione di rimpatrio a un divieto di ingresso, la cui durata ordinaria non può comunque superare i cinque anni (art. 11, par. 2). La legge tedesca in materia di soggiorno, lavoro e integrazione degli stranieri nel territorio federale prevedeva, invece, un divieto di ingresso illimitato. Neppure in seguito al recepimento (tardivo) della direttiva rimpatri, peraltro, era stato introdotto un limite temporale per gli effetti del divieto di ingresso; anzi, si era tentato di “aggirare” l’art. 11, par. 2, mediante la previsione della facoltà, per lo straniero di presentare una domanda per ottenere tale limitazione. Investita della questione, la Corte ha avuto gioco facile nell’escludere la compatibilità con l’art. 11, par. 2, della direttiva rimpatri di una normativa nazionale che subordini la limitazione della durata del divieto d’ingresso alla presentazione, da parte dell’interessato, di una domanda volta a beneficiarne. Inoltre, ha ritenuto in contrasto con il diritto UE una normativa nazionale che sanzioni penalmente la violazione del divieto di ingresso emesso oltre cinque anni prima della data del reingresso; ferma restando, naturalmente, l’eccezione dell’ordine pubblico e della sicurezza nazionale (ivi, punto 57).
Gli effetti nell’ordinamento giuridico italiano
Questa giurisprudenza ha prodotto effetti extraprocessuali non trascurabili sulla “fisionomia” del TU immigrazione. A seguito della sentenza El Dridi, il giudice italiano ha proceduto alla disapplicazione della normativa nazionale in contrasto con il diritto dell’Unione nei procedimenti pendenti, in sede di ricorso in ultima istanza avverso la sentenza di condanna ex art. 14, co. 5-ter, del TU immigrazione, nonché all’atto di esecuzione dell’ordine di espulsione emesso sulla base del titolo legittimante di cui al summenzionato articolo (v. inter alia, Consiglio di Stato, sent n. 8/2011; Cass., I sez. pen., sent. n. 22105/2011; Cass., IV sez. civ., ord. n. 18481/2011). Inoltre, ben prima della sentenza Filev e Osmani, la Corte di Cassazione aveva disapplicato l’art. 13, co. 13, del d.lgs. 286/1998 nella parte della disposizione che stabiliva la durata dell’interdizione al reingresso in dieci anni, in contrasto con la previsione della direttiva rimpatri (così, Cass., I sez. pen., sent. n. 8181/2011; Cass., I sez. pen., sent. n. 12220/2012; Cass., I sez. pen., sent. n. 14276/2012; Cass. I sez. pen., sent. n. 94/2012).
Anche il legislatore è intervenuto con il d.l. 89/2011, convertito in l. 129/2011, che ha adeguato la normativa interna alla giurisprudenza El Dridi, ma non ha operato una ristrutturazione sostanziale della previgente disciplina espulsiva. La riforma ha lasciato impregiudicate alcune disposizioni invero criticabili della normativa precedente, a testimonianza della refrattarietà del legislatore ad abbandonare la logica punitiva della condizione personale di irregolarità dello straniero, pur in assenza di fatti materiali lesivi di beni meritevoli di tutela penale. Ne sono esempi la possibilità di prorogare il periodo di trattenimento dello straniero fino a diciotto mesi e la concessione di un termine per la partenza volontaria solo su richiesta dell’interessato. Restano in piedi, inoltre, la previsione dell’espulsione come sanzione penale e il reato di ingresso e soggiorno illegale che, pur depenalizzato con l. 67/2014, continuerà ad avere rilevanza penale fintantoché il governo, in ossequio alla suddetta legge, non avrà adottato il decreto delegato volto a disciplinare in dettaglio la fattispecie (così, Cass., I sez. pen., sent. n. 996/2014).
Quanto al delitto di indebito reingresso, chiarita la disciplina nei casi in cui la condotta sanzionata fosse stata commessa cinque anni dopo l’esecuzione materiale del rimpatrio, rimaneva irrisolta la questione della rilevanza penale della condotta de qua nelle ipotesi di illecito reingresso avvenute entro il termine dei cinque anni dal rimpatrio. Sul punto, l’orientamento prevalente della giurisprudenza di legittimità era quello della persistente rilevanza penale della condotta (così, Cass., I sez. pen., sent. n. 12750/2012; Cass., I sez. pen., sent. n. 17544/2012; Cass., I sez. pen., sent. n. 35871/2012; Cass., I sez. pen., sent. n. 7912/2013), mentre alcune pronunzie di merito avevano dichiarato l’illegittimità della detenzione, per contrasto con la direttiva rimpatri, anche in tali ipotesi (così, Trib. Roma, sent. 9 maggio 2011, Giud. Di Nicola; Trib. Bolzano, sent. n. 829/2011) e non erano mancati approcci “creativi”, non basati sulla disapplicazione della norma incriminatrice, ma della disposizione di cui all’art. 16, co. 3, TU immigrazione, che esclude la sanzione sostitutiva dell’espulsione in relazione al reato de quo (v. Tribunale di Torino, sent. del 7 aprile 2014, Giud. Natale).
La Cassazione e il giudice a quo sul delitto di illecito reingresso
L’argomentazione fatta propria dalla Cassazione si basava sulle differenze logico-concettuali e strutturali tra il delitto di inottemperanza all’ordine di espulsione (oggetto del rinvio nel caso El Dridi) e quello di indebito reingresso (di cui all’art. 13, co. 13, TU immigrazione). Secondo la Suprema Corte, la direttiva rimpatri avrebbe fondato una distinzione tra varie “categorie” di irregolarità, distinzione tale da giustificare un differente trattamento dello straniero in funzione della sua condotta e della sua collaborazione alla finalizzazione del rimpatrio. Di conseguenza, sarebbe stata perfettamente legittima la scelta del legislatore nazionale di configurare il delitto di indebito reingresso dello straniero (già oggetto di una misura di rimpatrio immediato o di un disatteso ordine di allontanamento) come reato punito con la pena della reclusione, in funzione inibitoria della reiterazione della condotta vietata. Inoltre, aveva ritenuto che la giurisprudenza El Dridi non potesse comportare la disapplicazione di una norma incriminatrice diversa da quella oggetto del rinvio pregiudiziale in quel caso di specie.
Tale posizione è stata criticata non solo in punto di diritto, ma anche in ordine alla procedura – non avendo la Suprema Corte, in qualità di giudice di ultima istanza, rimesso la questione di interpretazione alla Corte di giustizia, pur in presenza di una giurisprudenza di merito non univoca e in assenza di un “atto chiaro” (così Favilli e Masera).
Di fronte al contrasto tra l’orientamento della suprema giurisdizione di legittimità e l’indirizzo interpretativo di parte della giurisprudenza di merito, il Tribunale di Firenze aveva rinviato la questione relativa al caso Celaj al “giudice naturale” del diritto dell’Unione. Nel farlo, però, non aveva mancato di prendere posizione, sintetizzando le principali critiche mosse all’orientamento della Cassazione. Esse ruotano attorno alla constatazione che la pena detentiva prevista nell’ordinamento italiano per il reato di illecito reingresso frappone, di fatto, un ostacolo al raggiungimento dell’obiettivo della direttiva rimpatri. Il Tribunale di Firenze aveva sostenuto che, ponendosi in quest’ottica, apparisse «del tutto inconferente il giudizio di valore sulla diversità concettuale e strutturale delle situazioni in cui può venirsi a trovare il cittadino straniero a seconda che la sua presenza sul territorio nazionale derivi da un ingresso irregolare o da un reingresso irregolare a seguito di un precedente provvedimento di rimpatrio». Aveva, altresì, ricordato che le sentenze interpretative rese dalla Corte di giustizia non riguardano il diritto nazionale ma quello europeo. Di conseguenza, l’impatto della giurisprudenza El Dridi nell’ordinamento giuridico interno non poteva essere circoscritto sic et simpliciter alla disapplicazione della norma incriminatrice di cui all’art. 14, co. 5-ter, del TU immigrazione, spettando al giudice nazionale disapplicare qualsiasi disposizione del diritto interno in contrasto con la direttiva rimpatri, così come interpretata dai giudici di Lussemburgo.
E, invero, non può certo negarsi che i principi ermeneutici dettati dalla Corte di giustizia nel caso El Dridi, poi confermati nella giurisprudenza successiva, abbiano inciso complessivamente sull’originaria impostazione punitiva della procedura italiana di espulsione degli stranieri irregolari. Anche perché, l’ampio utilizzo della sanzione penale della carcerazione, che l’ha caratterizzata soprattutto in seguito all’adozione della l. 94/2009 (“pacchetto sicurezza”), strideva fortemente con la ratio sottesa alla disciplina europea del rimpatrio degli stranieri irregolari. A conferma di ciò, l’incongruenza tra l’impianto normativo della direttiva rimpatri e quello del TU immigrazione è stata sollevata, tanto nel caso El Dridi quanto in Celaj, proprio in relazione a fattispecie in cui era in discussione la legittimità del ricorso alla privazione della libertà personale dello straniero, che nella direttiva è relegato a ipotesi di extrema ratio, mentre nel TU immigrazione ha a lungo rappresentato lo strumento ordinario di sanzione dell’indebito ingresso e soggiorno dello straniero nel territorio dello Stato.
Le conclusioni dell’Avvocato generale e la decisione della Corte in Celaj
Le conclusioni dell’Avvocato generale Spuznar, presentate il 28 aprile 2015, avevano fatto presagire che anche l’ultimo vessillo del tradizionale approccio punitivo, adottato dall’Italia in materia di immigrazione irregolare, potesse essere abbattuto. L’incipit delle conclusioni recitava, infatti, la seguente massima, contenuta in un’opinione congiunta parzialmente dissenziente alla sentenza Saadi c. Regno Unito della Corte EDU: «Is it a crime to be a foreigner? We do not think so».
L’argomentazione sviluppata dall’Avvocato generale si snodava attorno alle tesi già formulate dal giudice a quo. In particolare, Spuznar non condivideva l’impostazione della Cassazione italiana, secondo la quale la direttiva rimpatri avrebbe fondato una distinzione tra varie “categorie” di irregolarità, sostenendo al contrario che il diritto dell’Unione si limitasse a riavvicinare le discipline nazionali in materia di rimpatrio dei cittadini di paesi terzi il cui soggiorno fosse irregolare a norma dell’art. 3, punto 2, della direttiva rimpatri, senza velleità di istituire regole comuni in materia d’interdizione dell’ingresso irregolare degli stranieri (ivi, punti 50-57). Peraltro, aveva ritenuto che l’effetto deterrente, che molte legislazioni nazionali imprimono alla disciplina dell’immigrazione clandestina, non risultasse pregiudicato da siffatta interpretazione della direttiva rimpatri, essendo «la direttiva stessa a fornire agli Stati membri gli strumenti per dissuadere i cittadini di paesi terzi dal fare nuovamente ingresso nel loro territorio irregolarmente» (ivi, punto 58). Muovendo da queste premesse, aveva concluso che «[d]a qualunque prospettiva la si esamini, la reclusione di una persona ne ritarda […] il futuro rimpatrio» e dovrebbe pertanto essere prevista soltanto per i reati non connessi all’irregolarità del soggiorno ovvero nei casi espressamente disciplinati dalla direttiva (ivi, punto 60).
Le conclusioni dell’Avvocato generale, tuttavia, non sono riuscite a quadrare il cerchio, in quanto non hanno saputo offrire un’interpretazione coerente della giurisprudenza di Lussemburgo secondo cui la direttiva rimpatri non osta alla reclusione dello straniero irregolare che, al termine della procedura di rimpatrio, continui a soggiornare illegalmente nel territorio dello Stato senza giustificato motivo (v. sent. Achughbabian).
Non deve, quindi, troppo stupire che, contrariamente agli auspici dell’Avvocato generale Spuznar, la Corte di giustizia, con la sentenza Celaj, si sia ben guardata dallo sferrare l’ultima “picconata” alla disciplina dettata dal TU immigrazione. Argomentando in maniera coerente con quest’ultimo principio ed estendendone la portata all’ipotesi di reingresso, la Corte ha dichiarato che «la direttiva 2008/115 non preclude la facoltà per gli Stati membri di prevedere sanzioni penali a carico dei cittadini di paesi terzi, il cui soggiorno sia irregolare, per i quali l’applicazione della procedura istituita da tale direttiva ha condotto al rimpatrio e che entrano nuovamente nel territorio di uno Stato membro trasgredendo un divieto di ingresso» (ivi, punto 30). Ha aggiunto, però, che, nei casi in cui la fattispecie ricada nell’ambito di applicazione della direttiva, tale facoltà debba essere esercitata in conformità all’art. 11 della stessa, nonché nel rispetto dei vincoli che discendono dalla tutela dei diritti fondamentali (in particolare di quelli garantiti nella CEDU e nella Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato, di cui la Corte si è occupata anche nel caso Mehmet Arslan), dai principi di proporzionalità, di leale cooperazione e dell’effetto utile, e, in ultima analisi, dalla necessità di costruire una politica realmente europea dell’immigrazione.
L’enfasi posta su quest’ultimo aspetto è interessante, proprio perché la direttiva rimpatri è stata correttamente etichettata come un tentativo fallito di armonizzare l’espulsione degli stranieri; e ciò soprattutto (ma non solo) in ragione della lacuna relativa alla disciplina della fase per così dire “patologica” del rapporto tra lo Stato e lo straniero irregolare, quella che si apre allorquando lo Stato membro abbia già adottato, senza successo, tutte le misure previste dalla direttiva per conseguire il rimpatrio (v. Favilli). In particolare, l’argomentazione della Corte è interessante nella misura in cui valorizza la differenza – contestata dal giudice a quo – tra le circostanze di cui al procedimento principale nel caso Celaj e quelle oggetto delle cause conclusesi con le sentenze El Dridi e Achughbabian («nelle quali i detti cittadini di paesi terzi, il cui soggiorno era irregolare, erano oggetto di un primo procedimento di rimpatrio nello Stato», ivi, punto 28), ma chiarisce che tale distinguo non può essere operato nell’ottica del diritto nazionale. Esso va, bensì, ricondotto alla funzione deterrente che l’art. 11 della direttiva rimpatri svolge all’interno del diritto dell’Unione, che emerge chiaramente da una lettura sistematica delle disposizioni della direttiva stessa.
In primo luogo, la decisione di rimpatrio è informata al favor per la partenza volontaria e circondata da alcune garanzie che ne rendono l’esecuzione un’operazione complessa (v. inter alia, il considerando n. 8 del preambolo e gli artt. 5, 9 e 13 della direttiva rimpatri). Quindi, in caso di mancata collaborazione dello straniero, il ricorso agli strumenti coercitivi è ispirato al criterio della gradualità delle forme di coercizione, che devono risultare proporzionali e strettamente finalizzate all’obiettivo del rimpatrio. Infine, il divieto di reingresso di cui all’art. 11 funge da strumento di sanzione della violazione di un ordine dell’autorità amministrativa, con effetto deterrente rispetto a un nuovo tentativo di ingresso irregolare e incentivante rispetto alla partenza volontaria. Tale lettura è corroborata dal considerando n. 14 del preambolo, in base al quale il divieto di ingresso dovrebbe esplicare i propri effetti su tutto il territorio dell’Unione e la pregressa condotta dello straniero irregolare dovrebbe rilevare nel determinarne la durata.
Questa impostazione trova conferma nelle conclusioni della sentenza Celaj, cui la Corte perviene attraverso un iter argomentativo in cui trovano spazio tutti gli assunti fondamentali della sua precedente giurisprudenza in materia.
La Corte muove dalla consueta premessa in base alla quale la direttiva non persegue l’integrale armonizzazione delle norme nazionali sul soggiorno degli stranieri, né delegittima «in linea di principio» l’esercizio della potestà sanzionatoria di tipo penale da parte degli Stati membri, con finalità di contenimento e deterrenza dell’immigrazione irregolare (ivi, punto 20). Aggiunge che siffatto esercizio non può intralciare il perseguimento del fine della direttiva, la cui attuazione, ai sensi dei considerando n. 1 e n. 4, letti alla luce dell’art. 79 TFUE, è parte integrante dello sviluppo «di una politica comune [europea] dell’immigrazione intesa ad assicurare, in particolare, la prevenzione e il contrasto rafforzato dell’immigrazione illegale» (ivi, punto 23). Ne deduce che la previsione della possibilità (o talvolta dell’obbligo) di corredare le decisioni di rimpatrio di un divieto di ingresso – a norma dell’art. 11, par. 1, della direttiva – non sia un blank check alla discrezionalità statale, ma uno strumento diretto «a conferire una dimensione europea agli effetti delle misure nazionali di rimpatrio» (ivi, punto 24). Per questa ragione, la diversità concettuale e strutturale delle fattispecie di inottemperanza all’ordine di rimpatrio e di indebito reingresso non può essere apprezzata nell’ottica del diritto interno, come proposto dalla Cassazione, ma deve essere valutata in base al diritto dell’Unione, nel cui ambito tale diversità incide meramente sulle modalità del rimpatrio, ma non ne preclude, in alcun caso, la finalizzazione. Peraltro, essa non può neppure essere liquidata come “inconferente” – richiamando la tesi del giudice remittente – senza una previa ricognizione della funzione svolta dal divieto di ingresso nell’articolato della direttiva rimpatri.
In ultima analisi, il margine di discrezionalità che la direttiva riserva agli Stati membri risulta limitato in maniera duplice: in primo luogo, dall’obbligo di risultato di portare a compimento il rimpatrio dello straniero irregolare (obiettivo la cui realizzazione costituisce la cartina di tornasole dell’appropriatezza del ricorso alla sanzione penale della reclusione negli ordinamenti interni); in secondo luogo, dall’obbligo di garantire a qualsiasi straniero irregolare, perfino allorquando legittimamente escluso dall’ambito di applicazione della direttiva (ai sensi del suo art. 2, par. 2, lett. a)), un trattamento minimo non meno garantista di quello previsto dalla direttiva stessa in relazione al ricorso a misure coercitive, al rinvio dell’allontanamento, alle condizioni di trattenimento, all’accesso all’assistenza sanitaria d’urgenza, alla tutela rafforzata dei soggetti vulnerabili e, soprattutto, alla protezione contro il refoulement (art. 4, par. 4, lett. a), e b)). Tale dato mostra, se ancora ve ne fosse bisogno, che il diritto dell’Unione non condivide la logica punitiva della condizione di irregolarità del migrante che sottende alla disciplina nazionale di contrasto dell’immigrazione clandestina di numerosi Stati membri, tra cui l’Italia; constatazione che trova conferma anche nella circostanza che l’unica eccezione incondizionata all’applicazione delle garanzie previste dalla direttiva rimpatri riguardi l’ipotesi in cui l’espulsione sia stata disposta a titolo di sanzione penale o come conseguenza della stessa (art. 2, par. 2, lett. b)).
Alla luce delle considerazioni che precedono, la sentenza Celaj non può essere semplicisticamente archiviata come “un passo indietro” da parte della Corte di giustizia o una graziosa concessione all’autonomia degli Stati membri nella disciplina del contrasto all’immigrazione irregolare (in tal senso v. Majcher). Essa va piuttosto letta come il tentativo di trovare un punto di bilanciamento realmente europeo tra le esigenze di contrasto all’immigrazione illegale e quelle di tutela dei diritti fondamentali, esigenze attorno alle quali si articola l’intera struttura normativa dello Spazio di libertà, sicurezza e giustizia.
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