La ‘Dichiarazione dei diritti in Internet’ italiana: una prospettiva internazionalista
Tommaso Natoli, Università degli studi Roma Tre
Il 28 luglio scorso la Commissione per i diritti e i doveri relativi ad Internet ha approvato e pubblicato on-line il testo della Dichiarazione dei diritti in Internet, la cui bozza circolava in Rete già da alcuni mesi. L’inedita Commissione, composta da “deputati attivi sui temi dell’innovazione tecnologica e dei diritti fondamentali, studiosi ed esperti, operatori del settore e rappresentanti di associazioni”, si era infatti formata appena un anno prima su iniziativa della Presidenza della Camera dei Deputati, con l’obiettivo di pervenire all’individuazione di una serie di princìpi da affermare e promuovere all’interno del cyberspazio, con particolare riferimento alla condizione e alla tutela dell’individuo-utente.
I membri della Commissione, il cui lavoro ha beneficiato sia di quanto emerso in una serie di incontri dedicati al tema organizzati nei mesi precedenti, sia di un lungo periodo di consultazione pubblica on-line (27 ottobre 2014 – 31 marzo 2015), hanno da subito accantonato ogni velleità normativa volendosi piuttosto inserire nel dibattito teorico-giuridico nato attorno ad alcune recenti pronunce di importanti istituzioni sovranazionali, come le sentenze della Corte di giustizia dell’Unione europea Google-Spain del 13 maggio 2014 sul diritto all’oblio e Digital Rights Ireland dell’8 aprile 2014 in materia di conservazione dei dati generati (per un approfondimento in merito si veda rispettivamente qui e qui), nonché la Raccomandazione del Consiglio d’Europa del 16 aprile 2014 sulla protezione dei diritti umani su Internet.
Di fatto, nel quadro della società civile e tra gli esperti del settore, il confronto sulle possibili forme di regolamentazione di Internet ferve già da alcuni anni, e in materia di diritti individuali molti sono stati i tentativi di elaborare e proporre una Internet Bill of Rights (87 secondo il Berkman Center di Harvard), tra cui spicca il recente appello di Tim Berners-Lee, l’inventore del World Wide Web, per una “Magna Carta” di Internet. A partire dal World Summit on Information Society organizzato nel 2005 a Tunisi dalle Nazioni Unite – dove per la prima volta è stata riconosciuta la necessità di pervenire ad una convenzione internazionale sui diritti individuali in Internet – molti sono i fora all’interno dei quali si è discusso delle modalità di gestione della Rete, e quindi della possibilità di affermare e garantire la tutela di una serie di diritti individuali (tra tutti vedi l’Internet Governance Forum e in particolare la Internet Rights and Principles Dynamic Coalition).
Tali aspetti si inseriscono quindi all’interno di un quadro più generale, ovvero quello della così detta Internet governance, che proprio in questi mesi avrebbe dovuto assumere un assetto meno unilaterale, ovvero meno USA-centrico, tramite una serie di riforme finalizzate ad indebolire il rapporto che subordina la Internet Corporation for Assigned Names and Numbers (ICANN), l’ente che gestisce il funzionamento tecnico di Internet, al Dipartimento del Commercio statunitense. Negli ultimi 10 anni la questione ha acquisito una notevole rilevanza sul piano internazionale, e un passaggio fondamentale si è avuto a Dubai nel 2012 con la World Conference on International Telecommunications (WCIT-12), nel corso della quale i temi legati alla tutela dei diritti individuali hanno costituito, tra gli altri, oggetto di un confronto/scontro culminato in una profonda spaccatura della comunità internazionale da alcuni definita come l’inizio di una Digital Cold War (per un approfondimento in merito v. qui).
In tale contesto, il processo che ha portato all’elaborazione della “Carta dei diritti” italiana si è contraddistinto pertanto per la sua natura istituzionale e per un certo dinamismo, frutto dell’intraprendenza e della volontà di agire come precursori da parte di alcuni esponenti politici, ma soprattutto di autorevoli esperti del settore tra cui Stefano Trumpy, tra i primi tecnici a gestire l’arrivo in Italia di Internet, e Stefano Rodotà, pater scientifico del documento, da anni impegnato sul fronte dei temi emergenti (bioetica, privacy, dati personali, tutela dei diritti umani nella dimensione digitale). Il “primato” italiano spicca ulteriormente se si considera che gli unici processi analoghi – che hanno poi assunto natura legislativa – sono stati l’adozione della Magna Carta for Philippine Internet Freedom (luglio 2013) e del Brazilian Civil Rights Framework for the Internet (aprile 2014), anche conosciuto come Marco Civil. Quest’ultimo in particolare è nato come reazione politica allo scandalo Snowden-NSA da parte del Brasile (la cui priorità era stata ribadita dalla stessa Presidentessa Dilma Rousseff in sede di Assemblea Generale ONU il 24 settembre 2013).
Sul piano europeo, l’unica iniziativa di rilievo è stata invece l’adozione di un rapporto pubblico da parte del Conseil d’État francese dal titolo Le numérique et les droits fondamentaux (settembre 2014) il quale, con le sue 446 pagine, si presenta come uno studio teorico vasto e approfondito ma che poco si presta ad un’individuazione efficace e puntuale dei “nuovi” diritti di cui i cittadini del web (o netizens secondo la più recente dicitura anglofona) sarebbero titolari.
La “Dichiarazione” italiana è al contrario un testo conciso ed essenziale, composto da un preambolo e da 14 articoli. Il primo di questi (Riconoscimento e garanzia dei diritti) rappresenta l’architrave (meta)giuridico del documento, da cui emerge chiara la volontà di incardinarsi nel quadro del diritto internazionale dei diritti umani, in una logica “universale” di continuità e di reciproca integrazione (“1. Sono garantiti in Internet i diritti fondamentali di ogni persona riconosciuti dalla Dichiarazione universale dei diritti umani delle Nazioni Unite, dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, dalle costituzioni nazionali e dalle dichiarazioni internazionali in materia”). In tale prospettiva, l’articolo stabilisce che i diritti dell’individuo così come concepiti e sanciti nel mondo “reale”, debbano essere interpretati in maniera funzionale alla loro applicazione anche nel cyberspazio.
I seguenti 13 articoli sono quindi dedicati ai così detti “nuovi” diritti, ovvero quelli volti a rispondere ad una serie di esigenze peculiari generate dal progredire delle tecnologie di comunicazione. In realtà – con alcune eccezioni di cui si parlerà a breve – si può notare come il documento non preveda “nuove” categorie di tutela in senso stretto, quanto piuttosto affronta il delicato compito di ridefinire una serie di logiche giuridiche sottese alla difesa dei diritti dell’individuo, tracciando i lineamenti di una loro possibile tendenza evolutiva.
Così facendo la “Carta” riprende in maniera puntuale i principali temi che sono ad oggi al centro del dibattito internazionale: il diritto di accesso ad Internet come risorsa fondamentale di conoscenza, informazione ed educazione, da garantire tramite l’abbattimento del così detto “divario digitale” (artt. 2 e 3); il diritto di agire on-line senza subire restrizioni o discriminazioni, assicurando la “neutralità della Rete” (art. 4); la tutela dell’individualità della persona in Rete, ovvero della sua volontà e dignità, grazie all’affermazione di princìpi inerenti alla gestione dei dati personali, l’inviolabilità delle comunicazioni, l’identità digitale e l’anonimato (artt. 5-10).
L’art. 11 è invece dedicato al tema emergente del diritto all’oblio, già oggetto di interessanti approfondimenti scientifici seguiti alla citata sentenza Google-Spain, riguardanti in particolare la possibilità di una sua applicazione extra-europea (tra i tanti, vedi qui). In questo caso rileva la volontà di bilanciare tale diritto con le esigenze derivanti dalla libertà di informazione e di ricerca, nonché l’interessante specifica riguardante le persone “note” (?) o che ricoprono cariche pubbliche, le quali possono richiedere la cancellazione dei dati loro riguardanti solo nei limiti in cui questi non abbiano alcun rilievo in relazione alle funzioni esercitate.
Gli ultimi tre articoli affrontano poi temi più tecnici, e si indirizzano direttamente ai “responsabili delle piattaforme digitali” i quali sono chiamati, in maniera forse illusoria in un contesto ancora troppo deregolamentato, a “comportarsi con lealtà e correttezza nei confronti di utenti, fornitori e concorrenti” e ad informare gli utenti di ogni eventuale mutamento delle condizioni contrattuali (art. 12). Viene quindi affrontato il tema della sicurezza in Rete, nella sua doppia veste di difesa delle infrastrutture da eventuali – non meglio definiti – “attacchi”, e di tutela della dignità personale da comportamenti offensivi, violenti o discriminanti (art. 13). Quest’ultima disposizione, così come strutturata, appare la più discutibile, in quanto affronta in poche righe temi complessi e tra loro distinti, che avrebbero forse meritato un’elaborazione separata.
La “Carta” si chiude infine con l’articolo dedicato alla governance, tema che, come detto, è ormai apertamente al centro di una vera e propria disputa internazionale. Questo riassume la sostanza delle disposizioni precedenti, stabilendo la necessità di elaborare regole “conformi alla dimensione universale e sovranazionale” di Internet al fine di garantirne il carattere aperto e democratico (art. 14). In questo senso, la Commissione ha manifestato la volontà di “connettersi” (appunto) al resto del mondo, quasi a voler lanciare un appello per un processo di regolamentazione partecipato, condiviso e trasparente, in grado di salvaguardare da un lato le capacità di innovazione del mezzo, e gli interessi economici che inevitabilmente ruotano attorno ad esso, e dall’altro di garantire con efficacia il rispetto dei princìpi enunciati, anche tramite la creazione di autorità (nazionali e sovranazionali) in grado di valutarne il rispetto.
Dal contenuto della “Carta” emerge quindi chiara la volontà di contrastare le tendenze attuali che vedono i maggiori fornitori di servizi on-line (e in alcuni casi le agenzie governative) agire in una posizione di relativa autarchia, resa possibile da un contesto “sociale” in cui la gestione decentralizzata di una tecnologia in continua e inarrestabile evoluzione ha portato al prevalere delle logiche di interesse economico e di sicurezza, vincolando l’identità individuale in Rete alla volontà di poteri “esterni”. Ciò rischia di soppiantare taluni presupposti classici del diritto, con particolare riferimento al principio di effettività, sovranità ed esercizio dei poteri pubblici, trascinando via con sé la possibilità di appellarsi ad essi a difesa della sfera privata e delle libertà individuali.
In tale direzione, il documento contiene anche qualche sogno ad occhi aperti, come nei casi del diritto alla “autodeterminazione informativa” (art. 6) e del divieto di trattamenti automatizzati (art. 8), di difficile attuazione in una fase ancora dominata da logiche di profiling degli utenti. Ugualmente idealista appare la disposizione secondo la quale le istituzioni pubbliche dovrebbero garantire “il superamento di ogni forma di divario digitale” (art. 2.5) in un Paese ancora arretrato come il nostro rispetto alla media europea di connessioni a banda larga e in cui il divario infrastrutturale tra nord e sud è ancora consistente. Spicca inoltre l’assenza di un qualche riferimento ai diritti di proprietà intellettuale, declinati in funzione della libertà d’espressione, i quali però stanno già vivendo una fase di rielaborazione “endogena”, come dimostrato dal successo del progetto Creative Commons.
Sebbene la Dichiarazione sia al momento incapace di sortire alcun effetto concreto, l’esperimento italiano si può dire riuscito, alla luce dell’intento – da subito dichiarato – di voler creare un punto di riferimento in grado di “dare fondamento costituzionale a principi e diritti nella dimensione sovranazionale”, nella prospettiva, al momento remota, di pervenire un giorno ad una convenzione internazionale. Del resto la giustapposizione di regolamentazioni nazionali relative a tali aspetti, e quindi una loro frammentazione normativa, è per certi versi incompatibile con la struttura stessa del mezzo. In questo senso la sinergia che si è voluto stabilire con un’analoga Commissione istituita presso l’Assemblea Nazionale francese, nell’ottica di pervenire all’adozione di una Dichiarazione congiunta da presentare sul piano europeo, sembra essere un primo passo verso la giusta direzione.
È infine plausibile ritenere come, nel medio e lungo periodo, le dinamiche fin qui descritte influiranno anche sul piano della produzione normativa, così come dei meccanismi di attuazione e di garanzia. In questo senso i temi legati alla gestione della dimensione digitale, così come alla tutela dell’individuo al suo interno, accresceranno la necessità riconfigurare in essa le principali logiche giuridiche, elaborate per essere applicate ad una realtà esclusivamente “stato-centrica”, e sproneranno la dottrina internazionalista ad abbandonare alcuni dei presupposti di un mondo che fu, per guardare un po’ più dinanzi a sé.
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