Da una impunità di fatto a una imprescrittibilità di fatto della frode in materia di imposta sul valore aggiunto?
Chiara Amalfitano, Università degli Studi di Milano
1. Qualche riflessione a caldo sulla sentenza Taricco e a. della Corte di giustizia (Grande Sezione), dello scorso 8 settembre 2015 (causa C-105/14), pare opportuna, nel tentativo di evidenziare i limiti della sua portata applicativa e di analizzare il suo possibile impatto sul regime della prescrizione vigente nel nostro ordinamento (per un primo commento v. anche Viganò 2015).
Modificato dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251 (nota come ex Cirielli), l’istituto è stato oggetto di ripetuti tentativi di riforma, tra cui si ricorda lo studio presentato nell’aprile 2013 dalla Commissione Fiorella, finalizzato a proporre soluzioni idonee a più correttamente bilanciare le due esigenze, contrapposte, sottese al regime della prescrizione. Come ben evidenziato in tale studio, da un lato, occorre che i tempi del processo siano adeguati per consentire un’indagine completa e un accertamento giudiziale pienamente rispettoso delle garanzie processuali: soltanto trascorso un certo lasso temporale si può infatti ritenere che sia ragionevolmente venuto meno l’interesse dello Stato all’esercizio dell’azione punitiva, anche a fronte della crescente difficoltà di ricostruzione probatoria dei reati e, quindi, di accertamento dell’eventuale responsabilità dell’imputato. Dall’altro lato, occorre assicurare anche la “ragionevole durata del processo” nel rispetto dell’art. 111 Cost. (nonché dell’art. 6 CEDU e, quando rileva il diritto dell’Unione europea, dell’art. 47 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione), contenendolo entro tempi non eccessivamente dilatati: sotto questo profilo la prescrizione svolge “una funzione acceleratoria” dei procedimenti, sollecitando l’amministrazione giudiziaria ad una rapida definizione del processo ed evitando cha la sua durata (insieme con le inefficienze della giustizia) gravi indebitamente sull’imputato.
Previsione tra le più criticate e problematiche – che rileva anche nella fattispecie al vaglio della Corte di giustizia – è quella di cui all’art. 161, 2° c., c.p. Essa – per la pluralità delle fattispecie criminose, tra cui rientrano anche quelle contestate agli imputati nel giudizio a quo da cui scaturisce il rinvio pregiudiziale – vieta, anche in presenza di eventi interruttivi della prescrizione ex art. 160 c.p., un aumento di più di un quarto del c.d. “termine prescrizionale base” definito dall’art. 157 c.p., secondo cui «[l]a prescrizione estingue il reato decorso il tempo corrispondente al massimo della pena edittale stabilita dalla legge e comunque un tempo non inferiore a sei anni se si tratta di delitto e a quattro anni se si tratta di contravvenzione, ancorché puniti con la sola pena pecuniaria».
Così, in ragione del combinato disposto delle due disposizioni, per reati puniti con pena detentiva non superiore nel massimo a 7 anni e 6 anni – come quelli rilevanti nel caso esaminato dal giudice di Lussemburgo (ovvero promozione di e partecipazione ad un’associazione per delinquere finalizzata all’emissione di fatture per operazioni inesistenti e di dichiarazioni IVA fraudolente) – il termine massimo della prescrizione (anche in presenza di eventi interruttivi) è, rispettivamente, di 8 anni e 9 mesi e di 7 anni e 6 mesi. E si tratta di termini che, specie rispetto a fattispecie che richiedono indagini particolarmente complesse (come i reati associativi finalizzati a conseguire indebiti vantaggi fiscali, contestati agli imputati nel procedimento a quo), rischiano di essere troppo limitati e, pertanto, di «vanificare l’efficacia generalpreventiva delle norme penali» (così Viganò 2013, p. 19), non assicurando un tempo sufficiente per giungere ad una sentenza definitiva, anche qualora sia stato possibile pronunciare una sentenza di condanna in primo grado.
Anche il testo della proposta di legge modificativa della disciplina della prescrizione, approvato alla Camera lo scorso 24 marzo 2015, è stato definito da autorevole dottrina «un sistema ibrido, che allunga [sì] i tempi di prescrizione, senza [però] porre rimedio alle attuali disfunzioni di sistema» (Pulitanò, p. 20). Un intervento davvero risolutivo del legislatore pare oggi più che mai opportuno e necessario ormai in tempi rapidi: ciò anche per “rispondere” adeguatamente alla pronuncia in esame, evitando che il giudice – chiamato ad assicurare conseguenza pratica ai dicta della Corte di giustizia – si trovi ad affrontare dubbi e problemi concreti di incerta soluzione.
2. A dire il vero, qualche perplessità la pone già la scelta “preliminare” operata dal giudice del Kirchberg di dichiarare ricevibili i quesiti pregiudiziali sollevati dal Tribunale di Cuneo (v. già Rossi Dal Pozzo nel commento all’ordinanza di rinvio; e Capotorti nel commento alle conclusioni dell’avvocato generale Kokott del 30 aprile 2015).
Può anche, infatti, condividersi la conclusione cui la Corte di giustizia giunge là dove afferma che è (tutto sommato) chiara l’intenzione del giudice del rinvio di verificare la sostanziale compatibilità della normativa nazionale in tema di prolungamento massimo dei termini prescrizionali con il diritto dell’Unione europea (punto 32). Tale normativa rischia, infatti, di assicurare nella pluralità di fattispecie come quelle contestate agli imputati nel giudizio a quo un’impunità di fatto (quella che Pulitanò, cit., p. 22, definisce «immeritatamente guadagnata (o astutamente conquistata) per obiettivo decorso del tempo»), imponendo la chiusura del procedimento penale prima di giungere a sentenza definitiva, appunto per intervenuta prescrizione dei reati; la sua applicazione sistematica frustrerebbe, dunque, l’efficace lotta contro la frode in materia di IVA (che è risorsa dell’Unione), impedendo l’irrogazione di sanzioni effettive e dissuasive ex art. 325 TFUE, che obbliga gli Stati membri a perseguire con misure siffatte le attività illecite lesive degli interessi finanziari dell’Unione. Dalla risposta della Corte alle questioni pregiudiziali dipende, pertanto, la futura decisione che il giudice a quo è chiamato ad adottare nel procedimento principale: quella di rinviare o meno a giudizio gli imputati, con la consapevolezza che un rinvio non consentirebbe comunque di giungere all’adozione di una sentenza definitiva, poiché tutti i reati contestati si prescriveranno, al più tardi, nel febbraio 2018; qualora, invece, fosse possibile disapplicare il regime nazionale controverso sull’allungamento dei termini prescrizionali perché ritenuto sostanzialmente contrario al diritto dell’Unione, sarebbe possibile, con il rinvio a giudizio, proseguire il processo e, in caso di responsabilità degli imputati, assicurare l’effettività della disciplina sovranazionale.
Non è, invece, pienamente condivisibile il ragionamento che la Corte segue per giungere a tale conclusione, che sembra peccare di eccessivo sostanzialismo e di un vizio di contraddizione, almeno rispetto a 3 dei 4 quesiti pregiudiziali sollevati. Non è certo una novità che la Corte, nell’ampia discrezionalità di cui gode, segua un approccio sostanzialistico nella valutazione della ricevibilità dei quesiti e che le questioni inerenti all’interpretazione del diritto dell’Unione beneficino di una «presunzione di rilevanza» (punti 29-30) e richiedano, quindi, di regola una pronuncia della Corte. Ciò che stupisce, tuttavia, è che le norme di diritto dell’Unione di cui il giudice a quo chiede l’interpretazione (almeno 3 su 4, come detto: gli art. 101, 107, 119 TFUE) non sono davvero “determinanti” per la decisione che questi deve assumere nel giudizio principale, come invece la Corte afferma (punto 32). E tale irrilevanza è di fatto confermata dalla stessa Corte che – dopo aver risolto il dubbio sostanziale del giudice a quo, rispondendo al terzo quesito pregiudiziale – dichiara che il regime di prescrizione oggetto di esame «non può essere valutato alla luce» delle tre disposizioni menzionate (punto 65 e punto 2 dispositivo): se anche nei fatti poco o nulla cambia, più lineare, rigorosa e corretta sarebbe stata una soluzione che dichiarasse irricevibili 3 questioni, risolvendone nel merito solo una.
Ad ogni modo, anche con riguardo alla sola questione pregiudiziale che si ritiene valutabile, non può non notarsi come essa sia completamente riformulata (rectius, integrata) dalla Corte di giustizia; e solo in quanto e nei termini in cui viene “rimodulata” la sua soluzione diventi davvero determinante per il giudice a quo: ciò in linea con quanto suggerito dall’avvocato generale che, dopo aver riscontrato come, in realtà, nessuna delle disposizioni richiamate dal giudice del rinvio «osta ad una disciplina della prescrizione dei reati come quella introdotta nel diritto penale italiano» (punto 72 conclusioni), rileva che la «domanda di pronuncia pregiudiziale solleva – perlomeno implicitamente – la questione supplementare se una normativa sulla prescrizione come quella italiana sia compatibile con l’obbligo di diritto dell’Unione che incombe agli Stati membri di applicare sanzioni [effettive e dissuasive] per irregolarità nel settore dell’IVA», la risposta alla quale è indispensabile per consentire al giudice a quo di prendere la decisione sul rinvio a giudizio (punto 78 conclusioni). E, ancora, si deve evidenziare come la normativa di cui il giudice nazionale chiede l’interpretazione – la direttiva 2006/112/CE relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto – sia sì richiamata dalla Corte (diversamente, come detto, dall’avvocato generale, che ritiene invece irrilevante anche tale atto) nei primi passaggi del suo ragionamento, ma poi progressivamente “abbandonata”, “a vantaggio” di una valutazione della sostanziale compatibilità delle regole nazionali controverse con l’art. 325, par. 1 e 2, TFUE (e con il principio di leale cooperazione, di cui all’art. 4, par. 3, TUE), che diventa l’unico parametro interpretativo di riferimento (v. punto 58 e punto 1 dispositivo) per la soluzione del quesito pregiudiziale: ciò, nonostante il giudice nazionale – in ben 29 pagine di ordinanza di rinvio – mai menzioni la norma del trattato, la cui interpretazione è senza dubbio più rilevante per fornire una risposta utile al suo dubbio ermeneutico. Benché la riformulazione della questione pregiudiziale, anche con riguardo al parametro di diritto dell’Unione di riferimento, risponda ad una pratica invalsa nell’applicazione dell’art. 267 TFUE, non si può non constatare come, in questo caso, la Corte vi abbia fatto ricorso in maniera particolarmente ampia.
3. Così come integrato, il (terzo) quesito su cui la Corte di giustizia concentra la propria attenzione concerne, come anticipato, la verifica della sostanziale inidoneità della controversa normativa nazionale ad assicurare una lotta efficace contro le frodi in materia di IVA (punto 35): se l’istituto della prescrizione, rectius il regime dei termini prescrizionali massimi, implica in un numero considerevole di casi l’impunità di fatto per i reati in esame, viene pregiudicato l’effetto utile del diritto dell’Unione nella misura in cui impone di combattere efficacemente la frode lesiva dei suoi interessi finanziari ed occorre, pertanto, disapplicare la normativa controversa per garantire una repressione effettiva di tali reati.
La menzionata direttiva del 2006, in combinato disposto con il principio di leale cooperazione, obbliga gli Stati membri a riscuotere l’IVA, ma anche a lottare contro le frodi (già Corte giust., sentenza 26 febbraio 2013, causa C-617/10, Åkerberg Fransson, punto 25); essi sono altresì obbligati, ex art. 325 TFUE, ad adottare misure dissuasive ed effettive per combattere le attività illecite che ledono gli interessi finanziari dell’Unione (par. 1) e, a tal fine, a disporre le «stesse misure» che adottano per lottare contro la frode che lede gli interessi finanziari nazionali (par. 2; che, di fatto, codifica il principio della “assimilazione”, di cui al noto caso del mais greco). Pur ricordando – come già rilevato nella sentenza da ultimo citata – la discrezionalità di cui gli Stati godono nella scelta del tipo (amministrativa o penale) e del quantum di sanzione (fatte salve le indicazioni più stringenti di cui alla Convenzione sulla protezione degli interessi finanziari del 1995), la Corte di giustizia rileva come, trattandosi nel caso di specie di reati che costituiscono casi di “frode grave” lesivi degli interessi finanziari dell’Unione (la frode contestata è di vari milioni di euro), siano necessarie sanzioni di tipo penale, che soddisfino le due prescrizioni di cui ai menzionati par. 1 e 2 dell’art. 325 TFUE (punti 42-43).
La verifica del rispetto dei due requisiti in parola relativamente alle sanzioni previste dalla legislazione italiana è rimessa al giudice a quo (punto 44). Con la conseguenza – se non fossero rispettati – della disapplicazione della normativa nazionale contrastante (punti 49 e 58); e con la precisazione che la valutazione del carattere dissuasivo ed effettivo delle sanzioni non deve riguardare le sanzioni in sé (astrattamente considerate), né il conseguente regime prescrizionale di base (sulla cui conformità al diritto dell’Unione né il giudice del rinvio, né gli interessati ex art. 23 Statuto della Corte, che hanno presentato osservazioni nel giudizio dinanzi alla Corte, hanno sollevato dubbi: punto 45), quanto piuttosto il regime inerente al prolungamento massimo dei termini di prescrizione.
Le sanzioni non potranno, perciò, considerarsi dissuasive ed effettive ai sensi dell’art. 325, par. 1, TFUE se il giudice a quo riscontrasse che dall’applicazione in concreto delle disposizioni nazionali controverse «consegue, in un numero considerevole di casi, l’impunità penale a fronte di fatti costitutivi di una frode grave, perché tali fatti risulteranno generalmente prescritti prima che la sanzione penale prevista dalla legge possa essere inflitta con decisione giudiziaria definitiva»(punto 47). Ancora, si avrebbe una violazione dell’art. 325, par. 2, TFUE se, per reati di natura e gravità comparabili a quelli rilevanti nel caso di specie, che ledano gli interessi finanziari della Repubblica italiana, si applicassero termini di prescrizione più lunghi (punto 48). E siffatto diverso regime pare riscontrabile – secondo quanto evidenziato in giudizio dalla Commissione e circostanza che spetta al giudice nazionale verificare – rispetto al reato di associazione allo scopo di commettere delitti in materia di accise sui prodotti del tabacco. In relazione ad esso non pare infatti sussistere, di fatto, alcun termine assoluto di prescrizione (il raddoppio del termine prescrizionale base ex art. 157 c.p. non è assistito dall’allungamento massimo sino ad un quarto in caso di eventi interruttivi), in virtù di quanto disposto dall’art. 161, 2° c., c.p., che fa salvo l’art. 51, c. 3 bis, c.p.p. ,che a sua volta richiama, tra l’altro, all’art. 291 quater del TU doganale (che sanziona, appunto, il reato di associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri); e tale differente regime sarebbe tendenzialmente idoneo ad escludere l’impunità de facto e, pertanto, capace di soddisfare l’obbligo di assicurare una repressione dissuasiva ed effettiva delle frodi agli interessi finanziari dell’Unione ex art. 325, par. 1, TFUE.
Nel corso del suo ragionamento, la Corte di giustizia parrebbe far discendere l’obbligo di disapplicazione della normativa nazionale che il giudice a quo ritenesse contraria alle prescrizioni del diritto dell’Unione dalla presenza contestuale, cumulativa, delle violazioni degli obblighi di cui al par. 1 e al par. 2 dell’art. 325 TFUE (in questo senso v. l’avverbio «inoltre» come incipit del punto 48 sentenza). In realtà, in base a quanto sancito a chiusura del ragionamento (v. punto 58 e punto 1 dispositivo, dove si impiega la disgiunzione «o»), anche la violazione di una sola delle due prescrizioni – e quindi tanto il fatto che le sanzioni non possano considerarsi in concreto dissuasive ed effettive, quanto il fatto che per reati “corrispondenti” lesivi di interessi finanziari nazionali sia previsto un termine prescrizionale più lungo (che consenta di giungere a sentenza definitiva, evitando l’impunità dei colpevoli e, dunque, assicurando una repressione efficace dei reati in parola) – è idonea a determinare l’incompatibilità (e quindi la disapplicazione) della normativa nazionale che abbia per effetto di impedire allo Stato membro il rispetto, appunto, degli obblighi di cui all’art. 325, par. 1 e 2, TFUE.
Si tratta, del resto, di due obblighi distinti, la cui violazione anche separata conduce, quindi, correttamente alla “sanzione” della disapplicazione. Anche se non può non riscontrarsi come essi possano anche essere, in un certo qual modo, sovrapponibili: sarebbe interessante verificare se sanzioni per reati corrispondenti nazionali corredati da un termine prescrizionale identico a quello previsto per i reati lesivi dell’IVA implicherebbero il venir meno della violazione del par. 2 dell’art. 325 TFUE o se, al contrario, esse potrebbero confermare – laddove anche rispetto ai reati lesivi di interessi finanziari nazionali si verificasse l’impunità di fatto dei colpevoli, di cui si è detto – il carattere non dissuasivo né effettivo delle sanzioni previste per i reati lesivi degli interessi finanziari dell’Unione, ex art. 325, par. 1, TFUE. E, ancora, non può non notarsi come l’impiego della disgiunzione (e, quindi, la configurazione di due distinte violazioni) potrebbe forse dipendere dal fatto che, nella mente del giudice di Lussemburgo, le conseguenze della disapplicazione potrebbero variare a seconda dell’obbligo in sostanza violato, e concretarsi nella imprescrittibilità di fatto in caso di violazione dell’art. 325, par. 1, e nel “prolungamento” del termine di prescrizione, equivalente a quello disposto per reati lesivi di interessi finanziari dello Stato membro, in caso di violazione dell’art. 325, par. 2. Tuttavia, come meglio si dirà infra (§ 6), non paiono riscontrabili effettive differenze quanto al comportamento che il giudice nazionale dovrebbe tenere, una volta che decidesse di disapplicare la normativa controversa, a seconda che l’obbligo violato sia quello disposto dal par. 1 o, invece, dal par. 2 dell’art. 325 TFUE (o anche, cumulativamente, da entrambe le disposizioni).
4. La Corte di giustizia pone, peraltro, al giudice del rinvio un ulteriore caveat, prima di “consentirgli” (rectius, imporgli) la disapplicazione delle misure nazionali di cui abbia riscontrato la concreta inidoneità ad assicurare una repressione efficace delle frodi dell’IVA. Questi, infatti, dovrà assicurarsi che i diritti fondamentali degli imputati siano rispettati, poiché essi «potrebbero vedersi infliggere sanzioni alle quali, con ogni probabilità, sarebbero sfuggiti in caso di applicazione delle suddette disposizioni di diritto nazionale» (punto 53).
A ben vedere, tuttavia, pur formalmente demandata al giudice a quo, la verifica del rispetto di tali diritti è effettuata dalla stessa Corte, che esamina la possibile violazione dell’art. 49 Carta (che sancisce i principi di legalità e di proporzionalità dei reati e delle pene, secondo cui nessuno può essere condannato per un’azione o un’omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o il diritto internazionale; e, parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso) e conclude nel senso che essa non è ravvisabile. Il giudice dell’Unione, infatti, ritiene che la disapplicazione delle disposizioni nazionali controverse non implicherebbe una condanna degli imputati per un’azione o un’omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva un reato punito dal diritto nazionale, né l’applicazione di una sanzione che, allo stesso momento, non era prevista da tale diritto, poiché i fatti contestati agli imputati nel procedimento principale integravano, alla data della loro commissione, gli stessi reati ed erano passibili delle stesse sanzioni penali ancora vigenti oggi nell’ordinamento italiano (punto 56). La menzionata disapplicazione avrebbe per effetto “solo” quello «di non abbreviare il termine di prescrizione generale nell’ambito di un procedimento penale pendente, di consentire un effettivo perseguimento dei fatti incriminati nonché di assicurare, all’occorrenza, la parità di trattamento tra le sanzioni volte a tutelare, rispettivamente, gli interessi finanziari dell’Unione e quelli della Repubblica italiana» (punto 55). E per avvalorare la propria conclusione, la Corte di giustizia richiama anche la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (punto 57), che rileva nell’interpretazione delle previsioni della Carta ai sensi della clausola di omogeneità di cui al suo art. 52, par. 3: già nella sentenza Coëme e. a c. Belgio del 22 giugno 2000, la Corte di Strasburgo ha dichiarato (ai par. 148-149) che – a prescindere dalla natura sostanziale o processuale che la prescrizione riveste nei singoli ordinamenti nazionali – la proroga del termine di prescrizione e la sua immediata applicazione non comportano una lesione dei diritti garantiti dall’art. 7 CEDU, non ostando tale disposizione ad un allungamento dei termini di prescrizione quando i fatti addebitati non si siano ancora prescritti in base al precedente regime.
Non può, però, non notarsi come nel caso di specie non sembra configurabile una “mera” proroga dei termini di prescrizione, quanto piuttosto una imprescrittibilità di fatto, come si vedrà (§ 6), dei reati contestati agli imputati. E se forse l’impostazione della Corte di giustizia potrebbe essere condivisibile – in un’ottica funzionale alla tutela degli interessi finanziari dell’Unione – qualora la prescrizione venisse intesa come garanzia solo “oggettiva”, che attesta il venire meno dell’interesse statale alla repressione di determinate fattispecie criminose, più difficile è da accogliere laddove si rilevi anche il suo côté di garanzia soggettiva, non assumendo alcun rilievo, nel bilanciamento di interessi effettuato dalla Corte di giustizia, l’interesse dell’imputato alla prevedibilità della sua effettiva punizione. Eppure, come ricordato dalla Commissione Fiorella ed evidenziato da autorevole dottrina (Viganò 2013, cit., p. 20) la prescrizione è anche una «forma di tutela dell’imputato contro l’irragionevole durata del processo che lo vede coinvolto», potendo essa ricondursi, ed in un qualche modo considerarsi dunque coperta, dal «principio di libertà e di sicurezza delle scelte di azione […] (voltare pagina significa, anche, impostare le proprie scelte esistenziali e programmare il proprio futuro al riparo dall’incubo di una persecuzione penale tardiva) [nonché d]al diritto individuale alla tranquillità e alla serenità individuale […], sussumibile a sua volta tra i diritti inviolabili della persona umana ex art. 2 Cost.» (sempre Viganò 2013, cit., p. 26 s.). Se non è così scontato che il regime della prescrizione sia invocabile come controlimite, come pure prospettato (v., ad es., Canestrini; Viganò 2015, cit., p. 11), ci si chiede se la Corte di giustizia non avrebbe potuto essere più cauta nella ponderazione di interessi contrapposti, assicurando una tutela più effettiva ai diritti degli imputati che, in caso di disapplicazione della normativa nazionale controversa resteranno privi (almeno pare, ad un primo esame) di protezione contro un’applicazione sostanzialmente retroattiva ed in malam partem del regime di imprescrittibilità dei reati commessi, a fronte di un ben diverso quadro prescrizionale vigente al momento della commissione dell’illecito. Del resto, la stessa clausola di omogeneità sopra richiamata – se impedisce di ridurre la tutela al diritto rilevante (corrispondente) quale offerta in ambito CEDU – legittima un innalzamento del livello di protezione; ed anche in base all’art. 53 Carta, la Corte di giustizia avrebbe forse potuto indirizzare diversamente la propria discrezionalità interpretativa.
5. Evidente è, tuttavia, come anticipato, l’approccio funzionale del giudice di Lussemburgo finalizzato a garantire la repressione efficace dei reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione, con la conseguente compressione – secondo una soluzione peraltro non nuova – dell’autonomia processuale degli Stati membri (v., inter alia, Santex, Elchinov, ma anche, di fatto, El Dridi). Approccio che, a tratti, potrebbe risultare anche un po’ “sbrigativo”, perché non sembra tenere in reale considerazione le fondamenta e le conseguenze effettive della eventuale disapplicazione della normativa controversa rispetto ai procedimenti nazionali pendenti, ivi compreso quello a quo.
La disapplicazione – che (verificata l’incompatibilità delle regole nazionali controverse) dovrebbe essere immediata, senza quindi possibilità alcuna di chiedere o attendere la previa rimozione di dette disposizioni in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale (secondo giurisprudenza consolidata a partire dal noto caso Simmenthal e “recepita” dalla nostra Corte costituzionale con la sentenza Granital) – deriverebbe dalla riscontrata violazione di una norma pattizia – l’art. 325, par. 1 e 2 , TFUE – cui la Corte di giustizia riconosce, in sostanza, effetto diretto (punto 52). E se consolidata può dirsi anche quella giurisprudenza che ammette l’invocabilità dell’effetto diretto di una norma del trattato anche nei confronti di privati (v., per tutte, Defrenne) e non solo dello Stato membro (come accade, invece, rispetto alle previsioni chiare, precise ed incondizionate contenute nelle direttive), non può non rilevarsi come, trattandosi di materia penale, la conseguenza di tale invocabilità nel caso di specie è del tutto peculiare. Gli imputati, infatti, in virtù del siffatto effetto diretto e della conseguente (eventuale) disapplicazione della normativa nazionale contrastante, subirebbero le conseguenze della violazione imputabile allo Stato (cui, solo, del resto, l’art. 325 TFUE pone obblighi specifici), risultando sostanzialmente “aggravata” la loro posizione nel procedimento penale.
Non ci si può allora non chiedere se, proprio per giungere a questa conclusione decisamente coraggiosa, la Corte abbia volontariamente “abbandonato” la menzionata direttiva 2006/112/CE come parametro interpretativo nel proprio ragionamento: la violazione da parte degli Stati membri di obblighi imposti da una direttiva, infatti, come noto, non può ripercuotersi negativamente sui singoli, l’effetto diretto delle direttive essendo solo verticale (v., per tutte, Marshall) e unilaterale (v., per tutte, Ratti e Berlusconi e a.). Vero che l’avvocato generale, per superare siffatta eventuale contestazione, ricorda come il caso di specie differisce dal richiamato caso Berlusconi e a., dove si discuteva della possibile disapplicazione di una norma penale sostanziale: nella vicenda ora sottoposta alla Corte di giustizia, si discute invece della disapplicazione di un istituto che ha natura “processuale” e regola le condizioni per la perseguibilità di reati che erano e restano definiti dalla legge nazionale; infatti, ricorda l’avvocato generale, «i requisiti attinenti alla legalità delle pene sono interamente soddisfatti, dal momento che la punibilità della condotta addebitata agli imputati e la pena massima e minima che la reprimono si evincono in maniera immutata dalla legge penale italiana» già vigente al momento della commissione dei reati (punto 117 conclusioni). Tuttavia, questa differente ricostruzione non è pienamente convincente, specie alla luce della nostra giurisprudenza costituzionale, secondo cui le norme in tema di prescrizione rientrano nel complessivo trattamento sanzionatorio dell’imputato, rivestendo carattere sostanziale (sentenza n. 393/2006; sentenza n. 236/2011) ed essendo pertanto riconducibili nella sfera di operatività del principio di legalità in materia penale sancito dall’art. 25, 2° c., Cost. (sentenza n. 324/2008). E sotto questo profilo si potrebbe forse anche rilevare, a ben vedere, una intrinseca contraddizione nel ragionamento della Corte: essa infatti – pur formalmente considerando la prescrizione come istituto processuale non coperto dall’art. 49 Carta – nella sostanza lo correla funzionalmente al trattamento sanzionatorio, nel senso che solo la disapplicazione del regime prescrizionale controverso potrebbe consentire l’effettiva irrogazione delle sanzioni (di per sé già dissuasive ed effettive) agli imputati di cui si attesti la colpevolezza. In tal modo, come detto, nel complesso e di fatto la posizione penale di tali soggetti sarebbe inevitabilmente aggravata, con effetto diretto dell’art. 325 TFUE invocato sostanzialmente contro il singolo.
6. Eppure, come anticipato, quest’ultima sarebbe la sola possibile conseguenza della disapplicazione, se il giudice a quo riscontrasse che il regime prescrizionale allungato non è idoneo, in un numero considerevole di casi gravi di frode agli interessi finanziari dell’Unione, ad assicurare una repressione dissuasiva ed effettiva di tali reati, eventualmente (anche) in considerazione del fatto che per reprimere reati lesivi degli interessi finanziari del nostro Stato si applicano sanzioni, rectius, regimi prescrizionali (più effettivi e) non equivalenti a quelli previsti per i corrispondenti reati lesivi di interessi finanziari dell’Unione.
Si può porre certo qualche difficoltà per il giudice a quo che deve dimostrare che la neutralizzazione dell’effettività del diritto dell’Unione sussiste non solo nel caso dinanzi ad esso pendente, ma in un numero considerevole di procedimenti. A tal fine potrebbe avvalersi, ad esempio, di ricerche e statistiche dotate di ufficialità e attendibilità, come potrebbero essere quelle ministeriali o di forze di polizia giudiziaria. Tuttavia, una volta fornita la prova richiesta (se non si considerasse già soddisfatta, nel caso di specie, dai dati riprodotti nell’ordinanza di rinvio pregiudiziale), il giudice sarebbe tenuto alla disapplicazione e, disapplicata la normativa controversa, il solo scenario plausibile sembra quello della imprescrittibilità dei reati contestati agli imputati. Se viene meno la normativa rilevante, per contrasto con il diritto dell’Unione, resta una lacuna normativa, che non pare possibile colmare (come suggerito dall’avvocato generale: v. punti 124 ss. conclusioni) per il tramite di un’applicazione analogica della normativa sul diverso regime prescrizionale che si riscontrasse effettivamente operante rispetto a reati lesivi di interessi finanziari dello Stato italiano (ovvero quelli di cui al menzionato art. 291 quater TU doganale): si tratterebbe, infatti, di un’applicazione contra legem e retroattiva in malam partem, vietata al giudice nazionale. Anche se certo, come visto, ad un aggravamento retroattivo della posizione degli imputati si giunge comunque se viene caducata la normativa relativa ai termini di prescrizione allungati per i reati rilevanti nella specie, che restano non più assistiti da alcun regime prescrizionale e diventano, di fatto, appunto, imprescrittibili.
Indubbiamente, l’interesse che la Corte di giustizia vuole tutelare nel caso in esame è del tutto peculiare e diverse sono le circostanze che devono sussistere (e la cui verifica è rimessa al giudice a quo) perché si possa effettivamente giungere alla disapplicazione della normativa nazionale controversa. Altrettanto indiscutibilmente, però, la conseguenza ultima cui può condurre la pronuncia è pregiudizievole per gli imputati, data l’applicazione retroattiva ed in malam partem del “nuovo” regime prescrizionale; imputati che sarebbero anche privi di qualsiasi mezzo di tutela giurisdizionale rispetto all’aggravamento “indebito” della loro posizione processuale. Non pare, infatti, ammissibile un’azione di responsabilità contro lo Stato per violazione del diritto dell’Unione, dal momento che, come visto, la disapplicazione di fatto ripristina la liceità del comportamento statale, illegittimo laddove invece si mantenesse il regime della prescrizione contestato; né probabilmente sarebbe fondato un eventuale ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo che, come visto, ritiene legittima la proroga dei termini di prescrizione in pendenza del procedimento, a meno di “giocare”, in questo caso, sul fatto che non siamo di fronte ad un mero allungamento dei termini prescrizionali in corso di causa, bensì ad una sopravvenuta imprescrittibilità dei reati contestati agli imputati. Ed anche un intervento della Corte costituzionale – cui peraltro dovrebbe ricorrere un giudice diverso da quello a quo (che ha le mani legate da quanto disposto, come visto, dalla Corte di giustizia al punto 49 della pronuncia in esame) – non sembra destinato ad innovare significativamente rispetto alle conseguenze che il giudice nazionale è tenuto a trarre dalla sentenza della Corte di Lussemburgo (a meno che non si faccia ricorso alla menzionata teoria dei controlimiti: in tal senso v. Viganò 2015, cit., p. 13 s.).
In attesa di conoscere la decisione che il giudice a quo adotterà sul rinvio a giudizio o meno degli imputati, e quella di altri giudici che si trovino a decidere di situazioni analoghe a quella rilevante nella specie, seguendo anch’essi i dicta della Corte di giustizia, risulta pertanto indispensabile, come anticipato (§ 1), un intervento sollecito del legislatore, a garanzia (in primis) della certezza del diritto. Questi – chiamato a rivedere in modo complessivo il regime della prescrizione e ad affrontare le altre carenze di funzionamento del nostro sistema giudiziario che hanno ripercussioni sull’impunità de facto (nel senso che quest’ultima si verifica anche per carenze strutturali del sistema v. Viganò 2013, cit., p. 19 ed ivi ulteriori riferimenti bibliografici) – dovrà, innanzitutto, colmare la lacuna normativa (pur eventuale) delineata dalla pronuncia del giudice di Lussemburgo: anche disponendo un regime prescrizionale più severo e, dunque, un allungamento dei termini (massimi) di prescrizione per reati gravi lesivi degli interessi finanziari dell’Unione, idonei ad evitare un’impunità di fatto e ad assicurare, quindi, una loro repressione efficace; ma un regime che non potrebbe che operare per il futuro (nel senso che l’irretroattività di regimi prescrizionali, in caso di riforma, discenderebbe pacificamente dai principi generali v., per tutti, Pulitanò, cit., p. 28 s.).
Nell’intervenire nella direzione indicata, l’occasione potrebbe essere propizia, per il nostro legislatore, anche per verificare la congruenza con il diritto dell’Unione del regime prescrizionale rispetto a tutte le altre fattispecie criminose la cui punibilità è imposta da norme di tale ordinamento, per evitare ulteriori “incursioni” del giudice di Lussemburgo nell’autonomia processuale nazionale. Anche se, a dire il vero, il potenziale espansivo della pronuncia in esame pare limitato, sia per le condizioni alla cui sussistenza si subordina la disapplicazione, sia per il fatto che, in ultima analisi, quest’ultima è imposta dalla contrarietà della normativa nazionale con una previsione pattizia, la sola che impone obblighi specifici di repressione direttamente in capo agli Stati membri. Certo, l’art. 83 TFUE (come già l’art. 34, par. 2, lett. b), TUE prima di Lisbona) riconosce al legislatore dell’Unione la competenza ad adottare direttive (decisioni quadro, nel sistema pre-Lisbona) per il ravvicinamento sostanziale delle legislazioni penali nazionali, idonee a definire i reati (transnazionali gravi o lesivi di altre politiche dell’Unione) da perseguire e le sanzioni da applicare (eventualmente anche armonizzando i regimi prescrizionali). Gli obblighi per gli Stati membri discenderebbero, tuttavia, in questi casi, dalle direttive (o dalle decisioni quadro, rispetto a cui opera, per quanto qui rileva, lo stesso regime applicabile alle direttive) e non da una norma primaria; e non è assolutamente scontato (per non dire, che è improbabile) che la Corte di giustizia – venendo in rilievo interessi diversi da quelli finanziari dell’Unione e, soprattutto, non essendo l’obbligo di repressione imposto da una previsione pattizia, bensì da un atto di diritto derivato – giungerebbe ad una soluzione analoga a quella qui esaminata, non fosse altro perché non è ammissibile un effetto diretto “a rovescio”, e dunque in malam partem, delle direttive ed occorrendo, pertanto, costruire in modo più articolato e ragionato (e forse non sostenibile) l’obbligo di disapplicazione.
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