For better, for worse: il diritto al matrimonio tra persone delle stesso sesso nel difficile equilibrio tra spinte countermajoritarian e radicamento nella tradizione
Graziella Romeo – Università L. Bocconi, Milano
La pronuncia della Corte Suprema degli Stati Uniti nel caso Obergefell v. Hodges potrebbe rientrare a pieno titolo tra quei precedenti giurisprudenziali il cui il dispositivo risulta assai più rilevante, nel senso di significativo per l’evoluzione del diritto costituzionale americano, del reasoning. Se sul piano del diritto internazionale, la decisione dei Justices costituisce una prassi statale significativa (v. sul punto Chiara Vitucci) in sé e, al contempo, in quanto espressiva di una più generalizzata tendenza verso l’affermazione del matrimonio egualitario – almeno nei paesi della cosiddetta Western Legal Tradition (basti pensare alle recenti vicende irlandesi) –, sul piano del diritto costituzionale, la decisione descrive chiaramente la difficoltà di argomentare un hard case senza provocare effetti a cascata sulla coerenza complessiva dell’interpretazione costituzionale.
Dopo le due pronunce dello scorso term, Windsor v. United States e Hollingsworth v. Perry, il marriage federalism era stato conservato con una soluzione pragmaticamente di compromesso. Gli Stati restavano liberi di decidere se riconoscere o meno il right to same-sex marriage, ma il governo federale non poteva più subordinare il riconoscimento dei diritti connessi al rapporto di convivenza o di coniugio all’eterosessualità dei partners. Con Obergefell v. Hodges, invece, la Corte percorre fino in fondo la strada dei diritti civili, al prezzo però di una coerenza argomentativa che in taluni punti è difficile da intravedere.
Infatti, la Corte, chiamata a stabilire se il diritto al matrimonio tra persone dello stesso sesso sia protetto dal XIV Emendamento, consegna un’opinion in cui le argomentazioni centrali finiscono talvolta per “provare troppo”.
Per chiarire questo punto occorre partire dai fatti di causa. Alcune coppie gay ricorrono avverso il provvedimento con cui i pubblici ufficiali di Michigan, Kentucky, Ohio e Tennessee – Stati che definiscono l’istituto matrimoniale come l’unione tra un uomo e una donna – rifiutano di espletare le formalità richieste per la conclusione del matrimonio. Le parti attrici invocano sia la clausola del due process sia quella dell’equal protection of law del XIV Emendamento, sostenendo che il mancato riconoscimento del diritto al matrimonio violi la loro libertà e li ponga in una situazione di discriminazione rispetto alle coppie eterosessuali nel godimento di un diritto fondamentale.
La maggioranza della Corte, guidata da Kennedy, costruisce la motivazione essenzialmente sul primo profilo ovvero sulla riconducibilità del diritto al matrimonio alla giurisprudenza in materia di due process. In altre parole, giustifica il riconoscimento del right to marry alle coppie dello stesso sesso sulla base della sua inerenza al concetto di liberty, tutelato dal XIV Emendamento rispetto alle violazioni poste in essere dagli Stati federati.
Per realizzare questa operazione, il giudice Kennedy richiama quattro principi costituzionali, radicati nella tradizione americana, che giustificano la caratterizzazione come fondamentale del diritto in questione. In primo luogo, il diritto al matrimonio è strettamente connesso alla libertà di assumere scelte nella sfera personale. In secondo luogo, attraverso l’istituto in parola l’ordinamento giuridico protegge un’unione tra due persone caratterizzata dall’assunzione di un impegno reciproco che non ha eguali in istituti affini. In terzo luogo, il matrimonio è funzionale alla crescita dei figli, i quali trovano nella cornice del rapporto di coniugio un ambiente stabile che ne garantisce lo sviluppo sereno. Infine, l’istituto matrimoniale è il “keystone of our legal order”, è in altri termini il nucleo essenziale sul quale è organizzata la comunità politica e sociale.
La lunga disamina dei principles and traditions che giustificano il carattere fondamentale del diritto al matrimonio serve alla maggioranza per ricondurre la portata innovativa della pronuncia nell’alveo della tradizione giuridica americana, in ossequio alla giurisprudenza in materia di fundamental rights, sempre attenta a ricostruire le posizioni giuridiche soggettive di questo tipo a partire dalla constatazione per cui esse esprimano innanzitutto esigenze di tutela che affondano le loro radici nella tradizione giuridica e nella cultura della Nazione.
Anche di fronte all’ipotesi di una nuova situazione giuridica protetta, l’ossessione della giurisprudenza costituzionale americana rimane quella di giustificare i “nuovi” ambiti di tutela dei diritti ovvero le nuove necessità di protezione di diritti storicamente esistenti, sulla base di un mutamento già avvenuto (non in fieri o meramente possibile) nella società americana in un determinato momento storico. Il carattere fondamentale di un diritto riguarda sempre la posizione giuridica così come radicata nella storia e nella cultura della comunità socio-politica statunitense. Tuttavia, l’analisi relativa a tale circostanza non può bastare nel caso di specie almeno per due ragioni. In primo luogo, perché la circostanza per cui il right to marry sia fundamental non giustificherebbe di per sé l’estensione alle coppie dello stesso sesso in assenza di una valutazione sulla ragionevolezza della differenza di trattamento; in secondo luogo perché la il carattere fondamentale di nuovi diritti deve necessariamente essere giustificato sul piano dell’avvenuto radicamento in concreto nella comunità socio-politica.
Alla Corte serve dunque richiamare la sua natura di potere contro-maggioritario proprio nel momento in cui si sforza di motivare la propria scelta sulla base della comune accettazione di principi tradizionali della cultura giuridica americana. L’arma del due process sostanziale – ovvero del sindacato sulla ragionevolezza del contenuto del provvedimento limitativo della libertà – è troppo facilmente accessibile per non essere impiegata. Così, Kennedy ricorre al cosiddetto substantive due process, la tecnica di constitutional adjudication più contestata nella storia della giurisprudenza americana, in ragione sia della sua attitudine ad aprire al riconoscimento di posizioni giuridiche nuove – comunque ricomprese nel concetto di libertà – sia della sua capacità di ampliare o restringere i poteri dell’organo legislativo secondo il ragionevole (e mutevole) apprezzamento dei giudici supremi. E di fatti, è su questa scelta che si concentrano le dissenting opinions dei giudici del blocco conservatore, i quali hanno gioco facile a richiamare i precedenti della Lochner era per rammentare gli esiti imprevedibili cui il ricorso al due process in senso sostanziale è in grado di condurre.
Del resto, l’altra strada argomentativa, pure in parte percorsa, ovvero quella dell’analisi modellata sulla equal protection clause avrebbe forse evitato di concentrare il reasoning sul due process conducendo pragmaticamente allo stesso risultato. Eppure la maggioranza vi rinuncia pressoché completamente. Le ben note tecniche di sindacato, fondate sul principio di eguaglianza, non vengono utilizzate dalla Corte. Di più, i giudici si limitano, piuttosto apoditticamente, a dire che «the challenged laws burden the liberty of same-sex couples, and it must be further acknowledged that they abridge central precepts of equality» (Opinion of the Court, p. 22). Su questo profilo, nel ragionamento del Collegio riecheggiano, in qualche misura, le argomentazioni di altre Corti costituzionali (su tutte quella sudafricana nel noto caso Fourie) che hanno spesso collegato il divieto del matrimonio tra persone dello stesso sesso alla violazione della dignità personale, in almeno due diverse e complementari prospettive. Il divieto in questione, infatti, si sostanzia innanzitutto nella negazione della libertà di vivere con dignità una scelta personalissima e, in secondo luogo, nel mancato riconoscimento della natura degna in sé del legame affettivo tra due esseri umani. Da questa particolare prospettiva, poi, la violazione del principio di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge risulta ancora più manifesta.
La minoranza conservatrice (il Chief Justice Roberts e i giudici Scalia, Thomas e Alito) non è persuasa, ma non contesta in alcun punto la posizione giuridica in sé e per sé. Tanto Roberts quanto Scalia, al contrario, riconoscono apertamente di non essere ideologicamente contrari al right to same sex marriage. Entrambi criticano il metodo impiegato dalla maggioranza e soprattutto il disinvolto superamento di un atteggiamento di self-restraint che sarebbe stato giustificato, a opinione del blocco conservatore, in almeno due prospettive. Per un verso, in ragione dell’opportunità di lasciare al legislatore la disciplina di una materia che interroga il processo politico prima ancora delle corti. Per l’altro, a causa della riconducibilità della disciplina dell’istituto matrimoniale alla competenza legislativa statale (rientrando peraltro a pieno titolo nella nozione di police power) e non già federale.
La posizione della maggioranza, sul primo aspetto, è molto chiara: il processo politico è la sede della lotta per i diritti, tuttavia il loro riconoscimento non può sempre attendere che giunga finalmente il consenso della maggioranza. Al contrario, la pretesa di ottenere il riconoscimento di diritti negati deve poter essere soddisfatta attraverso la loro giustiziabilità in concreto. Così, il Collegio rivendica il suo ruolo contro-maggioritario, percorrendo, in qualche misura in senso inverso, la strada intrapresa nella premessa del ragionamento in cui dichiarava di radicare strettamente la posizione soggettiva in contestazione nella tradizione culturale e giuridica americana. Come dire: il matrimonio è l’istituto sul quale questo Stato poggia le proprie radici, tanto sul piano della realizzazione individuale, quanto su quello della costruzione dell’ordine sociale. Di conseguenza, non esistono ragionevoli motivi per negare un diritto così fondamentale alle coppie dello stesso sesso, sebbene la società civile non sia, in via generale, ancora pronta a questo mutamento culturale. È insomma il rilievo fondamentale del diritto in gioco a renderlo universale, a dotarlo di una forza di resistenza alle limitazioni, quand’anche esse siano giustificate perché accettate nella comunità socio-politica (o almeno in alcune comunità socio-politiche statali).
Kennedy insomma chiarisce che la Corte non intende affatto affermare un new right to same-sex marriage. La posizione giuridica soggettiva trova la giustificazione della sua centralità nella tradizione, ma si giova di un’interpretazione sensibile alle nuove esigenze degli esseri umani “situati” nella società contemporanea. Il Collegio non inventa, dunque, un nuovo diritto, non intende leggere nella Costituzione la tutela di una posizione giuridica non immaginata dai Framers. Al contrario, estende la protezione di un diritto profondamente radicato nella cultura, nella storia costituzionale e nell’ordinamento giuridico degli Stati Uniti.
Il giudice Kennedy impiega l’equal protection clause assai rapidamente, quasi a mera copertura di questo ragionamento, saldando le due clausole del XIV Emendamento in un’interpretazione che non indugia troppo in nessuno dei topoi della giurisprudenza costituzionale statunitense, che pure puntualmente cita (la dimensione sostanziale del due process, l’analisi dell’equal protection, la giurisprudenza sulla selezione dei fundamental rights). La debolezza complessiva del reasoning è però forse questa incrollabile volontà di mantenersi fedeli alle formule consuete della constitutional adjudication. Tale risolutezza porta il Collegio a predicarsi counter-majoritarian nello stesso momento in cui giustifica la sua posizione sulla base della generale riconoscibilità dell’importanza dell’istituto che, in fin dei conti, si intende proteggere e preservare, estendendone l’applicazione.
L’holding è una vittoria dei diritti civili; il reasoning è, invece, deludente nel suo essere irrisolto: il costituzionalista vi trova un po’ di tutto, un compendio della giurisprudenza costituzionale americana, in cui troppi elementi sono chiamati a giustificare una conclusione davvero innovatrice per l’ordinamento giuridico. Il risultato è, infatti, una motivazione dai toni fortemente retorici, che indugia molto volentieri nella dimensione morale (sul linguaggio utilizzato da Kennedy v. Dorf) del rapporto di coppia che richiede e giustifica un riconoscimento pubblico. La costruzione geometrica dell’analisi fondata sull’equal protection avrebbe forse evitato questa china scivolosa.
Di certo, la pronuncia conferma la fitta dialettica della Corte presieduta da Roberts e, più in generale, la natura straordinariamente argomentativa del diritto costituzionale americano. Proprio da questa prospettiva, è infatti significativo che la tendenza allo scetticismo nella constitutional adjudication, peraltro richiamato dal Chief Justice in chiusura dell’opinione dissenziente, venga tradita proprio in un caso costruito attorno alla dimensione morale del rapporto di coppia. In altri termini, la propensione a rifuggire dalle ricostruzioni dogmatiche che offrono soluzioni giuridiche sulla base di giudizi assoluti di natura morale lascia il posto alla strenua difesa dei diritti civili delle coppie dello stesso sesso.
La circostanza che ciò avvenga a scapito della coerenza delle “buone argomentazioni” è un prezzo che la Corte Suprema ritiene di poter pagare.
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