Le dichiarazioni (ritrattate) del governo ungherese sulla sospensione unilaterale dell’applicazione del regolamento Dublino III e la nuova querelle franco-italiana: il problema delle frontiere europee
Stefano Montaldo, Università degli Studi di Torino
Dalle trincee ai comunicati stampa il passo, attraverso le vicissitudini del Novecento, non è stato certo breve. Eppure, a cent’anni dallo scoppio della prima guerra mondiale, le frontiere europee continuano ad attrarre controversie, per fortuna oggi confinate al circo delle sortite politiche, delle sintesi brucianti dei comunicati stampa e delle dichiarazioni lapidarie da intervista-lampo. Il 17 giugno scorso, il governo ungherese ha prospettato la costruzione di un’imponente recinzione lungo i 175 chilometri del confine con la Serbia, motivando l’iniziativa con l’esigenza di fronteggiare il crescente flusso di migranti irregolari provenienti dai Balcani e dall’area del Medio Oriente. A pochi giorni di distanza, il 23 giugno, un portavoce del medesimo esecutivo ha annunciato la decisione dell’Ungheria di sospendere unilateralmente l’applicazione delle norme del regolamento Dublino III, fulcro del sistema di gestione delle domande di protezione internazionale nell’UE. Richiesto dalla Commissione europea di giustificare tale sortita e di circostanziare le «ragioni tecniche» genericamente poste a fondamento di essa, il governo ungherese ha laconicamente “precisato” che «la zattera è piena» e che dunque l’amministrazione nazionale non è in grado di fronteggiare il crescente novero di richieste di protezione. Sebbene queste esternazioni siano state formalmente smentite l’indomani dal Ministro degli esteri Péter Szijjarto, l’eco che hanno generato ancora risuona nei corridoi della Commissione e dei palazzi governativi di alcuni Stati limitrofi. L’Austria, in particolare, si era affrettata a minacciare a sua volta l’adozione di drastiche contromisure, a cominciare dall’emulazione delle velleità ungheresi.
Ad ulteriore complicazione di una trama piuttosto avvincente, questa fulminea crisi – l’ennesima originata dall’Ungheria, già “osservata speciale” per discusse iniziative politiche considerate restrittive della libertà di stampa e del principio di uguaglianza – si è consumata in contemporanea ad un nuovo capitolo della querelle franco-italiana sul passaggio dei migranti alla frontiera di Ventimiglia/Menton. In estrema sintesi, alcuni cittadini di Stati terzi irregolarmente presenti sul territorio europeo sono stati intercettati dalla gendarmerie francese al varco di frontiera e sono stati respinti e successivamente «riammessi» in Italia. Anche questa circostanza – che solo in parte ha oscurato una vicenda simile occorsa negli stessi giorni alla frontiera di Calais tra Francia e Regno Unito – ha destato scalpore e ha sollecitato reazioni politiche e mediatiche particolarmente allarmate sulla tenuta del sistema Schengen, nonché sul ruolo che ciascuno Stato è chiamato a giocare in tale contesto nell’attuale contingenza storica.
Le vicende prese in considerazione sono accomunate da un dato di fondo, ossia la complessità della gestione delle frontiere europee, genericamente intese. In questa prospettiva, il caso ungherese e le tensioni tra Francia e Italia appaiono complementari. Esse infatti traggono origine, rispettivamente, dalle problematiche connesse alla gestione dei flussi migratori alle frontiere esterne e dal talora incerto equilibrio fra libertà di circolazione nell’UE e prerogative statali circa il controllo del proprio territorio.
Da questo punto di vista, l’attualità costituisce una nuova e forse attesa espressione di criticità mai risolte, rese ancor più evidenti dal tragico carico di morti che grava sulla frontiera esterna mediterranea e da periodiche controversie fra Stati membri circa la reintroduzione di forme di controllo sulle persone che attraversano le frontiere interne (sono emblematici, a tale proposito, la controversia sorta fra Italia e Francia nel 2011, in occasione degli eccezionali flussi migratori generati dalla primavera araba, nonché un progetto danese ed uno olandese di rafforzamento della videosorveglianza in corrispondenza dei principali accessi autostradali al territorio nazionale, v. ad es. Jorgensen e Engsig Sorensen).
Se dunque è naturale che situazioni di crisi possano rendere evidenti le fragilità di un sistema o, viceversa, sollecitare il suo miglioramento, il loro reiterarsi appare una fotografia sempre più nitida della difficoltà dell’Unione europea e dei suoi Stati membri di elaborare una risposta corale e ponderata al problema (v. in questo senso i molti ed interessanti rilievi già espressi su questo blog da Favilli, Morgese e Cherubini). Il riferimento agli Stati membri non è casuale ed è anzi il nodo più stretto e articolato della questione: il tema dell’immigrazione – sotto questo profilo oggi più che mai affiancato dalla politica monetaria (Hinarejos) – è attraversato con forza dal costante dilemma tra maggiore integrazione e rifugio nella sovranità statale; tra concertazione delle politiche migratorie e valorizzazione di istanze particolari e centrifughe.
Queste opposte forze sono ben rappresentate nelle vicende prese in considerazione, che sono state puntualmente accompagnate da un disordinato carosello di polemiche, animato da risoluti proclami politici e toni di sfida particolarmente efficaci nel distogliere l’attenzione dal dato tecnico e da una visione di lungo periodo dei temi in esame. Si propone dunque in primo luogo una lettura dell’iniziativa ungherese e della controversia franco-italiana alla luce delle norme vigenti e della giurisprudenza di Lussemburgo. In secondo luogo, si intendono presentare alcune riflessioni di sintesi sul magmatico equilibrio fra integrazione europea e interessi degli Stati membri nel contesto della gestione delle frontiere e della politica migratoria nel suo complesso, anche alla luce degli obiettivi che tali ambiti di intervento dell’Unione perseguono.
Le vicende che hanno interessato Francia ed Italia sono state oggetto di letture diametralmente opposte dalle autorità dei due Stati, per non tacere delle multiformi teorie suggerite a livello mediatico. Esponenti del governo italiano hanno lamentato l’indebita chiusura della frontiera, nonché la mancanza di solidarietà da parte francese; il ministro degli esteri d’oltralpe ha invece recisamente smentito il ripristino di sistematici controlli di confine, precisando che il diniego di accesso al territorio nazionale dovesse essere qualificato come un’ipotesi di riammissione del migrante sans papier nello Stato membro da cui era giunto. In effetti, l’Italia e la Francia hanno concluso, nel 1997, un trattato bilaterale che prevede la riammissione nello Stato di provenienza del migrante irregolare intercettato sul territorio nazionale. Questo accordo, redatto sul modello di molti altri trattati bilaterali fra Stati dello spazio Schengen, è tutt’oggi in vigore (cfr. ad esempio l’art. 3, comma 3, della direttiva 2001/40/CE) e la sua applicazione non è mai stata oggetto di critiche particolari. Da questo punto di vista, dunque, la condotta delle autorità transalpine – al di là di valutazioni di merito e di opportunità, agevolmente reperibili sui principali mezzi di informazione – appare fondata sull’accordo bilaterale in esame. Essa peraltro, ad una più attenta analisi delle vicende occorse, purtroppo assai difficili da ricostruire con chiarezza ed in dettaglio, potrebbe costituire un’indebita elusione dell’abolizione dei controlli alle frontiere interne. Merita pertanto considerare brevemente questo profilo, per completare il più ampio quadro normativo e giurisprudenziale nel quale le vicende in esame si inseriscono.
In linea di principio, uno dei cardini sui quali poggia lo spazio Schengen è l’assenza di controlli sulle persone all’attraversamento delle frontiere interne, indipendentemente dalla nazionalità dei soggetti coinvolti (art. 20 del regolamento CE 562/2006, cd. codice frontiere Schengen). Anche alla luce dell’art. 67 TFUE, l’abolizione di tali verifiche ha il suo naturale completamento nello sviluppo di una politica comune in materia di asilo, immigrazione e controllo delle frontiere esterne, politica che il Trattato impronta ai principi di solidarietà fra gli Stati membri e di equità nei confronti dei cittadini di Stati terzi. Questo regime presuppone dunque che i valichi di frontiera esterni siano debitamente presidiati e che coloro che li attraversano vengano sottoposti ad un controllo ad opera delle guardie di frontiera, diversamente modulato a seconda che si tratti di cittadini europei o di cittadini di Stati terzi. L’ingresso irregolare nel territorio dell’Unione europea può dunque costituire un elemento di criticità a livello sistematico, poiché la neutralizzazione delle verifiche alle frontiere interne consente di transitare da uno Stato membro all’altro.
Per fare fronte a questa situazione e cogliere nel segno delle esigenze di controllo del territorio manifestate dagli Stati membri, il codice frontiere Schengen contiene alcuni correttivi, che ben esemplificano la duplice tensione tra maggiore integrazione ed istanze nazionali. In primo luogo, l’art. 21 prevede alcune eccezioni alla regola generale, fra le quali lo svolgimento di controlli di sicurezza nelle aree portuali ed aeroportuali, l’obbligo di rispettare le norme nazionali che impongano di portare con sé un documento di identità valido, l’esercizio delle competenze di polizia sul territorio di ciascuno Stato membro. In quest’ultimo caso, in particolare, l’art. 21 puntualizza che tali attività non possono valere ad eludere il divieto di controlli di frontiera, né tradursi in operazioni aventi effetto equivalente alle verifiche di frontiera stesse. Sul punto, la Corte di giustizia – ad esempio nei casi Melki e Abdeli e Adil – ha avuto modo di chiarire che il pattugliamento del territorio deve rispondere ad alcune caratteristiche, peraltro non necessariamente cumulative: non deve essere realizzato alla frontiera o in un’area che, sebbene distante dal confine, si caratterizzi per una sola ed obbligata via di transito verso un altro Stato membro; deve essere ideato ed attuato in maniera diversa da un controllo di frontiera, ad esempio per la sua diffusione su un’ampia porzione di territorio statale e per il suo carattere non continuativo; deve avere natura selettiva, così da tradursi in verifiche “a campione” condotte in ragione di fondati motivi di sospetto di irregolarità; deve rispondere ad una general police practice, ossia basarsi sulle informazioni e sull’esperienza circa la sussistenza di possibili minacce per l’ordine pubblico e la pubblica sicurezza.
In secondo luogo, il regolamento in esame prevede la possibilità che uno o più Stati, in presenza di rigorosi requisiti, ripristinino in via temporanea i controlli alle proprie frontiere, nel pieno rispetto dei principi di proporzionalità e necessità: il ripristino è infatti considerato l’extrema ratio e deve in ogni caso essere circoscritto alla sola area geografica realmente interessata. Ciò è reso evidente dal disposto degli artt. 23 e seguenti, che limitano tale facoltà ai casi di minaccia grave all’ordine pubblico o alla sicurezza nazionale, siano essi prevedibili – come nel caso, non raro nella prassi, di eventi sportivi o politici di particolare importanza – o imprevisti ed urgenti. Merita puntualizzare che, in entrambe le ipotesi, la scelta circa la riattivazione dei controlli spetta in concreto al solo Stato coinvolto, che deve però informare la Commissione e gli altri Stati membri. Questi ultimi, d’altra parte, possono esclusivamente formulare pareri ed avviare consultazioni, allo scopo di sollecitare una soluzione condivisa e di minor impatto sistematico. La centralità del ruolo dello Stato è stata solo parzialmente mitigata dalla riforma introdotta dal regolamento UE 1051/2013, la cui adozione è stata diffusamente sollecitata dopo le criticità sperimentate dagli Stati in occasione dei flussi migratori conseguenti alle primavere arabe. Il punto qualificante della riforma è l’introduzione di una nuova causa di ripristino, prevista all’art. 26 e connessa a «circostanze eccezionali che mettono a rischio il funzionamento globale dello spazio senza controllo delle frontiere interne». A fronte dell’aspirazione della Commissione europea ad esercitare un maggiore controllo accentrato su tali ipotesi di ripristino, si è pervenuti ad una soluzione intermedia. L’art. 26 dispone infatti che il ripristino dei controlli di frontiera avvenga su raccomandazione del Consiglio, il quale valuta la disponibilità di misure tecniche e finanziarie di sostegno, l’impatto della misura e le potenziali conseguenze della minaccia grave allo spazio Schengen. La Commissione interviene invece su un piano secondario, poiché è solo destinataria di un avviso e può chiedere informazioni ed effettuare visite in loco.
Questo breve excursus, oltre a preparare il terreno per alcune delle riflessioni contenute del paragrafo conclusivo, consente di osservare anche da questa angolatura la condotta delle autorità francesi. Sebbene infatti la riammissione di migranti irregolari sia consentita dalle norme pattizie richiamate, è pur vero che tale attività non può essere compiuta con modalità che integrino una violazione dei principi fondamentali dello spazio Schengen. Le vicende in esame non rappresentano infatti una formale riattivazione dei controlli di frontiera ex artt. 23 e seguenti del codice frontiere Schengen, ma il dispiegamento di ingenti forze di polizia presso il confine potrebbe aver trasceso i limiti del legittimo esercizio delle prerogative legate al controllo del territorio nazionale ed alla tutela dell’ordine pubblico. Alla luce della giurisprudenza di Lussemburgo, deporrebbero a sostegno di questa tesi il luogo, la modalità e la finalità dell’operato delle autorità francesi, che pur la Commissione europea non ha ad oggi ritenuto meritevole di più approfondita ricostruzione.
Anche le vicende che hanno vista protagonista l’Ungheria sono meritevoli di alcune notazioni, in questo caso ulteriormente sintetiche, poiché molti dei profili di interesse sono stati oggetto di attenta analisi in altri recenti contributi pubblicati su questo blog (Favilli, Morgese). Essenzialmente, il caso ungherese prende le mosse delle ricadute dell’attuale regime sul radicamento della competenza a trattare le richieste di protezione internazionale. Il regolamento Dublino III, infatti, come noto, prevede in via ordinaria la responsabilità dello Stato di primo ingresso o approdo, ovverosia dello Stato membro in cui per la prima volta il migrante entra nel territorio dell’Unione europea. Questo approccio amplifica le ineguaglianze strutturali che inevitabilmente caratterizzano il continente europeo, in ragione della differente posizione geografica degli Stati membri. La prossimità di alcuni di essi ad aree di frontiera particolarmente battute dai migranti determina la maggiore esposizione ad «asymmetric shocks» (McDonough e Tsourdi), ossia a situazioni di crisi che solo indirettamente interessano altri Stati membri. In assenza di efficaci correttivi a livello europeo, gli Stati che si affacciano sulle aree di maggior afflusso hanno talora scientemente infranto gli obblighi ad essi imposti, come nel caso dell’omessa rilevazione delle impronte digitali dei migranti irregolari da parte dell’Italia e della Grecia o dei mancati interventi di ricerca e salvataggio in mare ad opera delle autorità maltesi.
In questo contesto, il numero di cittadini di Stati terzi che entrano irregolarmente nell’Unione valicando il confine fra Serbia e Ungheria è particolarmente significativo, soprattutto se rapportato alla limitata capacità di gestione ed accoglienza dello Stato in esame. Al contempo, per la maggioranza dei migranti l’Ungheria è solo un’occasione, un luogo di transito verso una differente meta finale, circostanza che, nella prospettiva ungherese, assume una valenza ulteriormente indicativa dell’opportunità di riconsiderazione complessiva del sistema. Se da un lato la proposta della Commissione di sperimentare in via temporanea un meccanismo di redistribuzione delle richieste di protezione internazionale fra gli Stati membri muove in questa direzione, dall’altro lato la minaccia di sospensione unilaterale dell’applicazione del regolamento Dublino III da parte di uno Stato membro non può che costituire una grave deviazione dall’obbligo di adempiere al diritto dell’Unione europea con puntualità e nel rispetto del principio di leale cooperazione. Merita infatti ricordare che, in occasione della riforma del previgente regolamento Dublino II, la Commissione stessa aveva prospettato la possibilità di introdurre un meccanismo di sospensione temporanea dell’applicazione del sistema, per le ipotesi in cui uno Stato con limitate capacità di assorbimento delle richieste si fosse trovato a fronteggiare un flusso di migranti oltremodo significativo. D’altra parte, anche laddove fosse prevista la possibilità di sospendere l’applicazione del diritto dell’Unione – come nel caso, pur alquanto specifico, del regolamento UE 1289/2013 in materia di visti – essa dovrebbe in ogni caso essere opportunamente soppesata, per le ricadute che può generare sugli altri Stati membri e sull’Unione nel complesso. Appare dunque difficilmente condivisibile una scelta di carattere unilaterale, sottratta ad una forma di confronto o di vaglio preventivo con le istituzioni europee e con gli altri Stati membri, come nel caso, poc’anzi considerato, del ripristino dei controlli alle frontiere interne.
A prescindere da valutazioni tecnico-formali, le vicende in esame offrono lo spunto per alcune riflessioni di carattere generale sulla natura del processo di integrazione nel contesto della politica migratoria e sul ruolo riservato – rectius, unilateralmente preteso e di fatto conservato – dagli Stati membri. Il tema della gestione delle frontiere, invero, ha conosciuto nel tempo un’evoluzione significativa, sia dal punto di vista istituzionale che sotto il profilo degli obiettivi ai quali tende l’operato dell’Unione europea. Come è stato evidenziato in dottrina, infatti, l’abolizione dei controlli alle frontiere interne e la definizione di un approccio comune a quelle esterne sono state inizialmente maturate «at the level of technocratic solutions», ma hanno presto assunto i tratti di «dramatic stories of consolidation of powers» (McNamara), in cui l’Unione e gli Stati recitano non di rado ruoli contrapposti.
Nel libro bianco del 1985 sul completamento del mercato interno, la Commissione europea evidenziò l’utilità pratica dell’abolizione dei controlli alle frontiere tra Stati membri: il conseguimento di questo obiettivo avrebbe infatti comportato significativi benefici economici, a cominciare da una sempre crescente integrazione – anche fisica – tra i mercati nazionali. L’anno precedente, il Consiglio europeo di Fontainebleau aveva sottolineato l’opportunità di «rendere più credibile la Comunità agli occhi dei suoi cittadini», attraverso la semplificazione delle norme e delle pratiche sull’attraversamento dei confini fra Stati membri. La stretta connessione fra la materia in esame e le dinamiche del mercato interno venne di fatto confermata dalla prima iniziativa avviata a livello interstatale: in risposta a massicce proteste degli autotrasportatori per i ritardi ai valichi di frontiera, Francia e Germania conclusero proprio nel 1984 l’accordo di Saarbrucken, che determinò l’abolizione dei controlli al confine tra questi due Stati. Il fondamento originario dell’integrazione in questo settore fu in definitiva rappresentato da esigenze pratiche, derivanti dalle istanze quotidiane dei cittadini e degli operatori economici europei.
Fu ben presto chiaro, nondimeno, che il regime giuridico dei confini avrebbe recato con sé un pesante fardello simbolico e ideologico, unitamente a conseguenze politiche di assoluto rilievo. Da un lato, esso avrebbe implicato l’elaborazione di una complessiva politica migratoria europea e la definizione di norme comuni sui controlli alle frontiere esterne, secondo una linea evolutiva indirizzata verso il sensibile rafforzamento delle prerogative dell’Unione (in misura tale che, secondo alcuni commentatori, lo sviluppo delle competenze e delle iniziative dell’Unione in questa materia riecheggia alcuni tratti del tradizionale percorso verso il consolidamento del potere statale: Conversi). Dall’altro lato, l’accresciuto grado di integrazione avrebbe posto con evidenza il problema del bilanciamento fra esigenze complessive del futuro spazio Schengen e interessi nazionali, come confermato dall’impostazione marcatamente intergovernativa delle prime fasi della politica migratoria UE.
Queste opposte tensioni hanno animato negli anni lo sviluppo dello spazio Schengen e ne hanno in molte occasioni plasmato la conformazione e le priorità. L’importante ruolo dell’integrazione differenziata e le frequenti controversie – sia interistituzionali che fra Stati ed istituzioni UE – sulla portata delle basi giuridiche del TFUE ne sono, ad esempio, un precipitato evidente. In un quadro già profondamente innervato da aspirazioni “centralizzatrici” e slanci centrifughi, l’incremento dei flussi migratori verso l’Europa e la crisi economica hanno funto da ulteriore cassa di risonanza delle istanze degli Stati, non di rado agevolmente veicolate da letture semplicistiche in auge nell’agone politico.
Questa dinamica comporta uno scollamento nella percezione – e conseguentemente nella narrazione e nella giustificazione – del processo di integrazione in questa materia. Da un lato, la Commissione in molte occasioni si è esibita in una difesa accorata dello spazio Schengen, qualificato come «uno dei risultati più tangibili, popolari e di successo» conseguiti dall’Unione europea. Questo approccio, in un’ottica funzionalista, si è spesso tradotto nel tentativo di affermare una maggiore integrazione fra gli Stati membri in questo settore, quale soluzione elettiva delle sfide che l’attualità pone. Dall’altro lato, in una inversa prospettiva, gli Stati hanno spesso valorizzato – per poi mettere in pratica – una lettura oppositiva della politica migratoria, tentando di conservare «the executive culture which has dominated the Schengen process from the start» (Den Boer). Così, gli sforzi verso un maggiore coordinamento a livello continentale si sono non di rado risolti in una riaffermazione, sotto nuova forma, della centralità del potere discrezionale degli Stati, come testimoniato sia dalle iniziative estemporanee di alcuni governi, sia dalle più recenti scelte regolatorie, ad esempio in tema di ripristino dei controlli alle frontiere interne. In un simile contesto, la biforcazione tra le aspettative di maggiore integrazione espresse dalla Commissione e la volontà statale di conservare priorità decisionale anche in sede europea si traduce nella difficoltà di individuare strategie coerenti e idonee a fronteggiare il fenomeno migratorio nel lungo periodo. Le «contradictory driving forces» (Cornelisse) della politica migratoria ne costituiscono al contempo il motore ed il freno principale. Poco rimane, in definitiva, nella percezione degli attori coinvolti, delle originarie esigenze pratiche legate al miglioramento della quotidianità dei cittadini europei e non solo: se ne rinvengono tracce evidenti nella giurisprudenza della Corte di giustizia, il cui argomentare è saldamente ancorato ai principi di coerenza, uniformità ed effettività del diritto dell’Unione, ma esse scompaiono rapidamente dinnanzi al «political messianism» (Weiler) che, da opposte prospettive, anima la Commissione europea e gli Stati membri.
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