Armonizzare stanca? Forse, ma conviene
Davide Diverio, Università degli Studi di Milano
Lo scorso 16 giugno, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha sancito l’illegittimità, per incompatibilità con la direttiva relativa ai servizi nel mercato interno, dell’obbligo imposto dalla normativa italiana agli organismi di attestazione di disporre della loro sede legale nel territorio nazionale. La sentenza è in apparenza di agevole lettura e forse perfino scontata nelle conclusioni cui giunge. In effetti, a ricordare, anche solo superficialmente, qualche precedente in tema di libertà economiche di circolazione e disposizioni interne che impongono l’obbligo di stabilirsi nel Paese della prestazione oltre che il dettato, del tutto chiaro, dell’art. 14 della direttiva 2006/123/CE, il dispositivo della decisione in commento non può senz’altro sorprendere. A una lettura ancora affrettata può poi stupire la circostanza che la Corte si sia pronunciata a grande sezione per rispondere in via pregiudiziale a un quesito dalla soluzione tutto sommato piuttosto evidente. A un esame solo un poco più attento, la pronuncia offre, invece, rilevanti spunti di interesse che, toccando anche questioni di rilievo generale nell’ambito dell’ordinamento dell’Unione, si spingono ben oltre la mera risposta al dubbio sollevato in via pregiudiziale dal Consiglio di Stato.
Nella sostanza, il giudice amministrativo italiano domanda alla Corte di giustizia se sia conforme al diritto di stabilimento (artt. 49 ss. TFUE), alla libera prestazione dei servizi (artt. 56 ss. TFUE) e alla direttiva 2006/123/CE la previsione, di cui all’art. 64, par. 1, del d.p.R. n. 207/2010 di esecuzione e attuazione del «Codice dei Contratti pubblici» (decreto legislativo n. 163/2006), secondo cui le società che svolgono la funzione di organismi di attestazione (SOA) debbono disporre della sede legale in Italia. Si tratta, in estrema sintesi, degli enti che certificano il possesso di specifici requisiti di qualità, professionalità e correttezza da parte dei soggetti esecutori a qualsiasi titolo di lavori pubblici. Le SOA, dunque, costituiscono tassello fondamentale nel quadro della piena applicazione della disciplina italiana sugli appalti pubblici, rappresentando elemento imprescindibile del sistema di qualificazione unico per gli esecutori di lavori pubblici di importo superiore a 150.000 Euro. Risulta così comprensibile che l’ordinamento italiano si preoccupi di imporre una lunga serie di requisiti per poter svolgere tale delicata attività di attestazione, quali, ad esempio, quelli che attengono al capitale sociale minimo posseduto così come ai regimi di incompatibilità. Il Consiglio di Stato si chiede però (e lo chiede ai giudici di Lussemburgo) se sia compatibile con il diritto dell’Unione anche imporre a tali società di avere una sede legale in Italia.
La sentenza di rinvio ex art. 267 TFUE sottopone, innanzitutto, all’attenzione della Corte di giustizia una questione preliminare che suscita, invero, qualche perplessità. Il giudice a quo domanda infatti se le attività di attestazione svolte dalle SOA possano essere incluse nell’ambito di applicazione dell’art. 51 TFUE e, dunque, per tale via essere sottratte alla sfera di influenza delle disposizioni del TFUE sul mercato interno. Come noto, tale articolo afferma che sono escluse dall’applicazione della disciplina sul diritto di stabilimento le attività che «partecipino, sia pure occasionalmente, all’esercizio dei pubblici poteri». Sulla medesima questione, i giudici di Lussemburgo si erano però già pronunciati in maniera del tutto chiara soltanto un anno e mezzo fa quando, con la sentenza del 12 dicembre 2013, nella causa C-327/12, SOA Nazionale Costruttori, avevano negato l’applicabilità dell’art. 51 TFUE alle attività svolte in Italia dalle SOA. A parere dei giudici di Lussemburgo, infatti, tali attività sono, da un lato, «prive dell’autonomia decisionale propria dell’esercizio di prerogative dei pubblici poteri» (punto 53), e anzi adottate proprio nell’ambito di una vigilanza statale diretta, dall’altro lato, di carattere ausiliario e preparatorio e dunque inidonee a essere considerate, come invece richiesto dalla consolidata giurisprudenza della Corte, «partecipazione diretta e specifica all’esercizio dei pubblici poteri» (ibidem). Nella sentenza in commento, dunque, i giudici europei hanno buon gioco nel concludere che, non avendo il Consiglio di Stato dato atto di nessuna modifica nella natura delle attività svolte dalle SOA intervenuta dall’epoca dei fatti relativi alla precedente pronuncia, non vi è motivo per discostarsi da una presa di posizione già così chiaramente assunta, escludendo l’applicazione dell’art. 51 TFUE. Da qui le nostre perplessità, alla luce anche del fatto che, al di là di tale precedente, che avrebbe probabilmente dovuto far desistere il Consiglio di Stato dal (ri)proporre in termini di fatto identici la questione alla Corte, a identiche conclusioni era giunto anche il T.a.R. per il Lazio nella sentenza che, poi impugnata, ha di fatto messo in condizione il Consiglio di Stato di sollevare il rinvio pregiudiziale di cui ora si discute.
Venendo così al merito del quesito pregiudizialmente sollevato dal giudice italiano, la Corte di giustizia constata che i servizi di attestazione rientrano nell’ambito di applicazione della direttiva 2006/123/CE e dunque, per quanto il Consiglio di Stato facesse riferimento (anche) agli artt. 49 e 56 TFUE, è solo sulla base di tale atto che occorre valutare se la normativa italiana di cui alla causa sia o meno conforme al diritto dell’Unione. Diversamente dall’Avvocato generale Cruz Villalón, i giudici di Lussemburgo non si sono espressamente domandati se la direttiva sui servizi abbia o meno attuato un’armonizzazione esaustiva delle pertinenti diposizioni degli Stati membri. Dubbio senz’altro rilevante posto che, soltanto laddove una direttiva determini quel grado di armonizzazione, tale atto diviene il solo parametro di riferimento per accertare la conformità delle discipline nazionali all’ordinamento europeo. Con l’espressa considerazione che i servizi in parola sono compresi nell’ambito di applicazione della direttiva la Corte pare, in effetti, aver dato per presupposta la realizzazione di una armonizzazione completa.
Avuto riguardo, perciò, alla sola direttiva 2006/123/CE, la Corte giudica che il requisito relativo al luogo in cui è situata la sede legale degli organismi di attestazione rientri nell’ambito di applicazione del suo art. 14, ai sensi del quale è fatto divieto agli Stati membri di subordinare l’accesso a un’attività di servizi e il suo esercizio sul loro territorio al rispetto di una lunga serie di requisiti. Al punto 1) di tale art., infatti, e dunque fra i requisiti espressamente «vietati» secondo la rubrica della disposizione in parola, figurano i «requisiti discriminatori fondati direttamente o indirettamente sulla cittadinanza o, per quanto riguarda le società, sull’ubicazione della sede legale» (e del resto in maniera identica si esprime l’art. 11, par. 1, lett. a), del decreto legislativo n. 59/2010).
A fronte di un disposto normativo così chiaro, il vero nodo da sciogliere è rappresentato dalla possibilità o meno – qui per la Repubblica italiana ma, in generale, per gli Stati membri – di giustificare l’imposizione di un requisito vietato da un atto di diritto derivato. Su tale specifico aspetto, indubbiamente, la sentenza in commento si rivela di particolare interesse. Alle obiezioni del governo italiano, che si appuntano sostanzialmente sulla circostanza che il requisito della sede legale in Italia risponderebbe alla necessità di garantire l’efficacia del controllo esercitato dalle amministrazioni pubbliche sulle attività delle SOA, la Corte risponde, di fatto, con un duplice ordine di argomentazioni: il primo fondato sull’art. 14 della direttiva; il secondo, di respiro più generale, sul rapporto fra diritto derivato e diritto primario.
Quanto al primo profilo, i giudici di Lussemburgo ricordano che, tanto dalla lettera dell’art. 14 quanto dall’impianto sistemico della direttiva stessa, i requisiti di cui all’art. 14 della direttiva 2006/123/CE non possono in alcun modo essere giustificati. In effetti, da un lato, tale disposizione non contempla nessuna facoltà per gli Stati membri di giustificare il mantenimento di questi requisiti (del resto esplicitamente qualificati come «vietati») nelle loro normative interne; dall’altro lato, con riferimento al diritto di stabilimento, la direttiva de qua distingue nettamente fra requisiti vietati e requisiti soggetti a valutazione. Solo questi ultimi, contemplati però dall’art. 15, possono essere giustificati dagli Stati membri ove risultino in concreto non discriminatori, necessari e proporzionati. Analogamente, anche con riferimento alla libera prestazione dei servizi, all’art. 16, par. 3, la direttiva ammette una tale facoltà di giustificazione per gli Stati membri. Secondo la Corte di giustizia, tuttavia, la libertà di circolazione qui in gioco non è la libera prestazione dei servizi bensì il diritto di stabilimento, dovendosi perciò ritenere inapplicabile l’art. 16, par. 3.
Diversa impostazione è invece quella dell’Avvocato generale. Egli ha infatti valutato che l’obbligo imposto dalla normativa italiana incidesse sulla libera prestazione dei servizi di un operatore economico che, stabilito in altro Stato membro, intendesse svolgere la propria attività a partire da un’infrastruttura stabile all’interno del territorio italiano (ritenendo perciò applicabile l’art. 16 della direttiva). Tale differente prospettiva non ha tuttavia impedito all’Avvocato generale di giungere, nella sostanza, alle medesime conclusioni cui è pervenuta la Corte seppure sulla base, ovviamente, di un diverso ragionamento. Una volta ammessa la facoltà per l’Italia di giustificare il requisito in discorso, Cruz Villalón ha poi negato che in concreto sussistessero motivi di ordine pubblico o di pubblica sicurezza tali da giustificare, nel rispetto del principio di proporzionalità, l’obbligo di disporre di una sede legale sul territorio italiano.
Sul secondo dei menzionati profili, quello attinente al rapporto fra diritto derivato e diritto primario, la Corte di giustizia è poi condotta dall’art. 3, par. 3, della direttiva 2006/123/CE, secondo cui gli Stati membri sono tenuti ad applicare le disposizioni di quest’ultima «nel rispetto delle norme del trattato che disciplinano il diritto di stabilimento e la libera circolazione dei servizi». Può una simile clausola generale consentire di superare il chiaro dettato di un atto di diritto derivato permettendo agli Stati membri di invocare direttamente una disposizione del diritto primario a sostegno delle proprie ragioni? Più in concreto, posto che, come noto, l’art. 52, par. 1, TFUE consente agli Stati membri di mantenere, in presenza di determinate ragioni e nel suo rispetto, una restrizione al diritto di stabilimento e alla libera prestazione dei servizi, il citato art. 3, par. 3, abilita gli Stati membri a giustificare sulla base di tale norma del TFUE l’imposizione di requisiti espressamente qualificati come «vietati» dalla direttiva 2006/123/CE?
La risposta dei giudici di Lussemburgo a un tale dubbio, che ben potremmo definire “di sistema” e che, forse, ha giustificato l’intervento della Corte nella composizione a grande sezione, è oltremodo chiara e perentoria e fa leva su due distinte, seppur coordinate, considerazioni. In primo luogo, ammettere che attraverso le norme del TFUE sul mercato interno possano di fatto (re)introdursi negli ordinamenti nazionali ostacoli al diritto di stabilimento vietati dalla direttiva condurrebbe, pacificamente, a privare di effetto utile la direttiva stessa. In secondo luogo, interpretare l’art. 14 della direttiva sui servizi in modo da non consentire di apportare a esso deroghe costituisce il solo modo «per garantire la soppressione sistematica e rapida» (punto 39) delle restrizioni alle libertà economiche di circolazione, obiettivo sì della direttiva ma, soprattutto, dello stesso TFUE. Da tali premesse la Corte di giustizia conclude che, per quanto una disposizione del diritto primario consenta agli Stati membri di giustificare, per le ragioni che la stessa elenca, misure contrarie al diritto di stabilimento, il legislatore di diritto derivato dell’Unione può escludere tale facoltà, in particolare, come nel caso qui in discussione, quando adotta una direttiva al fine di garantire proprio tale diritto sancito dal TFUE e con tale atto si limita nella sostanza a codificare la consolidata giurisprudenza in materia.
Paiono almeno due le implicazioni della pronuncia in commento. Da un punto di vista pratico, la sentenza conduce potenzialmente all’apertura del mercato italiano dei servizi di attestazione; obiettivo, del resto, che si sarebbe dovuto raggiungere già con una adeguata attuazione della direttiva 2006/123/CE o, se si preferisce, con un’applicazione effettiva del decreto legislativo che ne ha disposto il recepimento. Sul piano generale, la Corte di giustizia ha colto qui l’occasione per ribadire il principio secondo cui, in presenza di un’armonizzazione completa, la legittimità europea della condotta del legislatore nazionale va scrutinata alla sola luce di tale armonizzazione e, dunque, dell’atto di diritto derivato che l’ha realizzata.
Quanto a quest’ultimo profilo, è significativo che l’esigenza di confermare tale principio, pacifico nella giurisprudenza dei giudici di Lussemburgo, sia stata avvertita proprio con riferimento alla direttiva sui servizi e nella prima pronuncia in cui, in pratica, essa ha costituito oggetto di specifica attenzione. Possono qui soltanto essere citate le tormentate vicende che hanno accompagnato l’adozione di questa direttiva e le difficoltà di conciliare armonizzazione e mutuo riconoscimento in vista del definitivo completamento del mercato interno. Quasi dieci anni fa, l’attuale giudice della Corte costituzionale Giuliano Amato intitolava un suo articolo «L’errore Bolkestein. Armonizzare stanca» (da cui lo spunto per il titolo della presente nota). Volgendo ora in senso interrogativo quella affermazione, la sentenza in commento potrebbe farci rispondere che se è vero che armonizzare richiede indubbi sforzi (sia in sede di elaborazione della legislazione europea che all’atto dei suoi recepimenti nazionali), questi si rivelano tuttavia necessari per l’effettivo conseguimento degli obiettivi sanciti dai Trattati istitutivi. Armonizzare, allora, conviene. La pronuncia dimostra tuttavia chiaramente come convenga per l’Unione e non certo per i suoi Stati membri, irrimediabilmente destinati a smarrire sempre più, e in ambiti sempre più rilevanti, la propria discrezionalità legislativa anche quando tale discrezionalità pare posta al riparo, a prima vista del tutto sicuro, dagli stessi Trattati. Del resto, una simile conclusione suona del tutto ovvia; ma forse non per gli Stati membri ora riportati bruscamente alla dura realtà dalla Corte di giustizia.
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