Ancora in tema di protezione per le persone sfollate a seguito di disastro
Eugenio Zaniboni, Università degli Studi di Foggia
L’interessante scritto pubblicato giorni fa su questo Blog da Flavia Zorzi Giustiniani induce qualche brevissima notazione il cui intento, in una diversa prospettiva metodologica, è quello di fornire (e anche, in parte, di chiarire) i dati che scaturiscono da una — seppur limitata e sintetica, come si addice alla presente sede — disamina della prassi normativa interna in materia di accoglienza, su base temporanea, di soggetti in fuga da calamità e disastri naturali. A tal fine, si effettuerà un rapidissimo esame delle disposizioni di tre distinti ordinamenti, ciascuno dei quali si caratterizza per un diverso “approccio” al fenomeno. Si tratta di quello dell’Unione europea, in quanto organizzazione internazionale di carattere regionale ad uno stadio di coordinamento normativo in materia di gestione dei flussi migratori esterni notoriamente molto avanzato; di quello dell’Italia, considerata uno Stato di relativamente recente esposizione a migrazioni dall’esterno, a volte anche massicce; di quello, infine, degli Stati Uniti, tradizionalmente uno Stato oggetto di consistenti flussi migratori in ricezione. Come si vedrà, le tre prassi considerate si distinguono sul piano formale non solo per la varietà della disciplina, ma anche in relazione all’intensità delle tutele apprestate.
Partiamo dall’Unione europea e dalla Direttiva 2001/55/CE, citata nello scritto appena menzionato come possibile esempio di base giuridica per la «protezione temporanea» degli sfollati per motivi ambientali. In tale atto, la definizione dei soggetti beneficiari della protezione si ricava dall’art. 2, lett. c), ai sensi del quale gli «sfollati» sono «i cittadini di paesi terzi o apolidi che hanno dovuto abbandonare il loro paese o regione d’origine o che sono stati evacuati, in particolare in risposta all’appello di organizzazioni internazionali, ed il cui rimpatrio in condizioni sicure e stabili risulta impossibile a causa della situazione nel paese stesso … ed in particolare: i) le persone fuggite da zone di conflitto armato o di violenza endemica; ii) le persone che siano soggette a rischio grave di violazioni sistematiche o generalizzate dei diritti umani o siano state vittime di siffatte violazioni».
Come si vede, dunque, l’accento è posto sulle situazioni di guerre civili e di gross violations dei diritti umani, come causa della situazione di displacement, e si tralascia di menzionare i fenomeni di natura ambientale. Non si tratta certo di una dimenticanza. Invero, in sede di elaborazione dell’atto, l’assenza delle fattispecie qui in commento era stata segnalata nel parere reso ai sensi dell’art. 262 del Trattato istitutivo della Comunità (oggi art. 304 TFUE) dal Comitato economico e sociale. Secondo il parere in questione: «Although the Committee notes and understands that the proposal only applies to people fleeing from political situations, it thinks there might also be a case for a directive providing temporary reception and protection mechanisms for persons displaced by natural disasters» (parere n. 2001/C 155/06, in G.U.C.E. C 155/21 del 29 maggio 2001, par. 2.3). La Commissione però non ha ritenuto di dover tener conto dell’indicazione ricevuta dal Comitato.
Peraltro, le difficoltà che proprio in questi giorni sta incontrando l’Italia in sede europea nell’avviare un processo di formalizzazione delle attività di coordinamento nella gestione dei flussi (quanto meno in ordine alla previsione di misure di accoglienza pro quota: si veda un cenno a tale questione nello scritto di Chiara Favilli pubblicato su questo Blog), originati altresì da fattispecie che prima facie sembrerebbero rientrare nelle categorie previste dalla Direttiva 2001/55/CE ben più agevolmente rispetto ai “natural disasters”, inducono a dubitare in radice — e diversamente da quanto si lascia intendere nel contributo di Flavia Zorzi Giustiniani — della possibilità di ottenere il necessario consenso all’applicazione di tale disciplina a dei contesti per i quali neppure, come si è appena detto, è stata pensata.
Più stimolanti altresì sarebbero le prospettive che potrebbe forse assumere un’indagine che approfondisse la disamina delle norme di diritto positivo presenti negli ordinamenti interni. Così, a titolo di esempio, prendendo in considerazione la prassi legislativa italiana, merita almeno un cenno una interessante norma ad hoc, costituita dall’art. 18, co. 2, della legge n. 40 del 1998. Secondo tale disposizione, confermata dal successivo art. 20 del D. lgs. 286 del 1998, il c.d. “Testo Unico sull’immigrazione”, possono essere stabilite per decreto «misure di protezione temporanea da adottarsi, anche in deroga a disposizioni del presente testo unico, per rilevanti esigenze umanitarie, in occasione di conflitti, disastri naturali o altri eventi di particolare gravità in Paesi non appartenenti all’Unione Europea» (corsivo aggiunto).
Dal punto di vista in esame, dunque, l’ambito di applicazione della normativa italiana pertinente ha un perimetro più esteso di quella europea, come del resto la stessa Direttiva 2001/55/CE consente espressamente (v. l’art. 3, par. 5). Ciò dipende anche dalla circostanza che la disciplina italiana in materia si è consolidata a seguito delle numerose emergenze umanitarie verificatesi a partire dal 1991-92 e poi proseguite — seppure con diverse caratteristiche qualitative e quantitative — fino ai giorni nostri. I consistenti afflussi di stranieri in questione sono stati, invero, per lo più fronteggiati attraverso un massiccio ricorso alla decretazione d’urgenza almeno fino al 1998, allorquando l’Italia si è dotata delle prime disposizioni legislative organiche, poi progressivamente integrate dalle leggi di attuazione delle direttive europee in materia.
Per quanto concerne, nel medesimo solco di indagine, il sistema adottato negli Stati Uniti, occorre mettere in rilievo un radicale cambiamento nell’approccio alla disciplina giuridica applicabile agli sfollati ambientali, che, da diversi punti di vista, potrebbe considerarsi addirittura “regressivo”.
Invero, fin dagli anni settanta gli Stati Uniti avevano predisposto un sistema di ammissione degli sfollati per disastri naturali assistito da una sofisticata procedura, peraltro più volte modificata, in base alla quale, in estrema sintesi, il flusso di migranti in entrata era determinato annualmente, dunque per lo più in via preventiva, dal Presidente degli Stati Uniti sulla base di una complessa serie di valutazioni effettuata caso per caso. Questa procedura è rimasta in vigore fino al 1980, quando, con l’entrata in vigore del Refugee Act, fu adottata una riforma legislativa che ne modificava il contenuto, introducendo una previsione che conferiva la possibilità di prolungare il soggiorno negli Stati Uniti di quegli stranieri, già domiciliati nel Paese per altri motivi, il cui Stato di appartenenza fosse stato colpito inter alia da una calamità naturale, e perciò considerati «temporarily unable to safely return to their home country because of ongoing armed conflict, the temporary effects of an environmental disaster, or other extraordinary and temporary conditions» (corsivo aggiunto).
Attualmente, dunque, il Secretary of Homeland Security (prima del 2003 la figura competente ad emettere il provvedimento era l’Attorney General, il che testimonia, significativamente, la volontà di trasferire maggiori poteri in materia di migrazioni agli organi competenti in materia di sicurezza, a scapito del Dipartimento della Giustizia) può ricevere l’autorizzazione a individuare come beneficiari del TPS (Temporary Protected Status) solo cittadini del Paese/i designato/i che sono già presenti sul territorio degli Stati Uniti al momento del verificarsi dell’evento (cfr. l’Immigration and Nationality Act (INA), U.S. Code § 1254a) con un evidente arretramento dei diritti invocabili dagli sfollati sur place. La procedura in questione è stata attivata, da ultimo, dal Senato degli Stati Uniti, mediante una richiesta formulata il 27 aprile del 2015 nei confronti del Governo affinché quest’ultimo prenda in considerazione la possibilità di estendere il beneficio del TPS ai cittadini nepalesi presenti negli USA lo scorso 25 aprile, ovvero al momento in cui si è verificato il terremoto che ha sconvolto lo Stato del Nepal.
I tre distinti approcci giuridici al tema degli sfollati ambientali fin qui enucleati in estrema sintesi sembrano dunque ben poco omogenei. Quello degli Stati Uniti — in passato distintosi, sul piano formale, per la sua “inclusività”, caratterizzata da una legislazione dettagliata, non solo in ordine alla gestione dei flussi migratori in generale, ma in particolare alle diverse cause previste per la concessione dello status di protezione temporanea, comprensive sia degli eventi di calamità naturali che dei man-made disasters — approda, nel tempo, ad una legislazione fortemente limitativa degli ingressi, contrassegnata anche, come si è detto, dall’espunzione dall’ordinamento delle norme che attribuivano un titolo all’ingresso ai soggetti designati come in fuga da calamità naturali. Un secondo, quello dell’Italia, nel quale si parte da una situazione manifestamente lacunosa, colmata mediante il progressivo consolidamento di una base normativa applicabile pro futuro a fattispecie che, almeno in questo specifico contesto, sono anche più ampie di quella europee. Il terzo, quello dell’Unione europea in cui, in sede di negoziazione di quello che sarebbe stato lo strumento giuridico di elezione per la disciplina dell’accoglienza degli sfollati ambientali, si è volutamente omesso di inserire una previsione ad hoc.
Se quanto sostenuto fin qui è corretto, ulteriori indagini andrebbero forse indirizzate a verificare l’esistenza di possibili denominatori comuni alle tre opzioni descritte. Ad esempio andrebbe a nostro avviso verificato se, nell’orientare la scelta verso l’una o l’altra opzione legislativa, le fattispecie prese in considerazione nel presente contributo – inerenti, lo ripetiamo, alla tutela apprestata da alcuni ordinamenti interni agli sfollati ambientali transfrontalieri – abbiano o meno posseduto un particolare rilievo autonomo, sia quanto alla scelta di includere una fattispecie ad hoc (Italia), sia quanto a quella di espungere dall’ordinamento quella prevista (Stati Uniti). Inoltre, andrebbe ulteriormente accertato se le scelte di cui si tratta, come si è visto molto diversificate, siano state poste in essere in quanto, sul piano internazionale, ancor prima che come giuridicamente necessarie, almeno come socialmente dovute (così, a proposito del rilievo da conferire all’elemento della prassi nel procedimento di ricognizione della consuetudine internazionale, Conforti, Diritto internazionale8, Napoli, p. 35 ss). Non è possibile evidentemente approfondire qui questi temi. Tuttavia, alcuni dati relativi al contesto generale in cui le determinazioni in questione sono maturate sembrerebbero — prima facie — far propendere per una risposta negativa, almeno per quanto concerne il secondo problema sollevato.
Va ricordato in questo senso che l’Italia, accusata per anni di non aver offerto una risposta ordinamentale adeguata relativamente alle modalità di gestione dei numerosi afflussi massicci di stranieri da cui è stata colpita, ha optato per l’adozione di una disciplina “a maglie larghe”, e cioè idonea, quanto meno sulla carta, a far fronte ad un ampio numero di possibili emergenze. Gli Stati Uniti, all’opposto, da sempre oggetto di massicce (e fino a pochi anni fa bene accette) ondate migratorie — e che hanno cominciato a sviluppare un’ampia cornice normativa in tema di migrazioni con larghissimo anticipo rispetto alla maggioranza degli altri Paesi —, hanno progressivamente ristretto il novero delle categorie di soggetti ammissibili ai benefici dello status di protezione temporanea per evidenti motivi di policy interna, ovvero sotto la spinta di un’opinione pubblica meno favorevole che in passato a consentire l’ingresso di nuovi stranieri, anche se per ragioni umanitarie e transitorie. Entrambi i sistemi, infine, sono accomunati dalla necessità di disporre di strumenti flessibili per fronteggiare le emergenze, nonché dalla discrezionalità di cui godono gli organi amministrativi nelle decisioni relative all’ammissione di particolari categorie di stranieri al beneficio della protezione temporanea.
Considerazioni in parte analoghe possono valere anche per la Direttiva 2001/55/CE, la cui impostazione è tesa ad evitare riconoscimenti automatici dell’esistenza di un esodo di massa, prevedendo al contrario procedure di determinazione caratterizzate, anche in questo caso, da ampi margini di discrezione (su cui non possiamo diffonderci qui), tra le quali però non sembra trovare posto, almeno allo stato, la protezione temporanea degli sfollati a seguito di disastri ambientali.
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