Quale protezione per le persone sfollate a seguito di un disastro?
Flavia Zorzi Giustiniani, Università Telematica Internazionale Uninettuno e coordinatore nazionale del progetto FIRB International Disaster Law Project
A distanza di due settimane dal terremoto che ha sconvolto il Nepal, ancora incerto é il numero delle vittime e dei feriti mentre la ricerca dei sopravvissuti prosegue senza sosta (sulle problematiche emerse nella risposta, latu sensu, al disastro si vedano i contributi di E. Sommario e L. Cosenza su questo blog). Una conseguenza di tutto rilievo della catastrofe sembra tuttavia restare in secondo piano nella copertura mediatica della vicenda. Si tratta del massiccio sfollamento di persone che é iniziato immediatamente dopo il terremoto e che non accenna ad arrestarsi.
Lo sfollamento ha interessato migliaia di residenti della capitale Kathmandu, nonché gli abitanti di diversi villaggi colpiti dal disastro, i quali sono fuggiti per il timore di nuovi crolli, ma anche per trovare riparo altrove (oltre 300.000 dimore sono state distrutte dal terremoto) o per rintracciare i loro cari. I dati in possesso dell’OIM parlano di almeno 100.000 persone in movimento e di altre 300.000 che a breve potrebbero andare ad ingrossare le fila degli sfollati interni. Ancora più allarmanti sono i numeri diffusi dal Nepal Risk Reduction Consortium, secondo cui gli sfollati ammonterebbero a 2,8 milioni, pari ad un decimo della popolazione del Paese. Si tratta, purtroppo, di uno scenario sempre più frequente a seguito di catastrofi naturali, il cui impatto va ben oltre la fase dell’emergenza con il rischio concreto di rendere permanenti le conseguenze umanitarie di un disastro.
La crisi umanitaria in Nepal induce pertanto a riflettere su di un dato oramai costante nelle migrazioni interne e internazionali, che da diversi anni assegna ai disastri naturali, sia a rapida che a lenta insorgenza, il triste primato di fattore scatenante di tali fenomeni. Ciò é un effetto della crescente frequenza e intensità dei disastri naturali e della loro imprevedibilità.
Diversi studi convergono nell’indicare la cifra di 200 milioni di persone che entro la metà del secolo saranno costrette ad abbandonare le proprie terre a causa dell’aggravamento delle condizioni climatiche. Ma quale protezione é in grado di fornire il diritto internazionale agli sfollati ambientali (environmentally displaced persons, secondo la terminologia utilizzata dall’UNHCR e dall’IOM)?
Non vi è una risposta univoca a tale questione, dovendo distinguersi tra coloro che rimangono all’interno del proprio Paese (i cosidetti IDPs, o sfollati interni) e coloro che invece emigrano. La vasta maggioranza degli sfollati “da disastro” rientra nella prima categoria, ed é pertanto opportuno cominciare da questi ultimi. Per lungo tempo gli sfollati interni non sono stati oggetto di un’attenzione specifica, in parte perché a differenza dei rifugiati continuano ad essere protetti – almeno formalmente – dal proprio Stato, e in parte in ragione dell’esigenza di rispettare i principi di sovranità e non intervento. Un’inversione di tendenza si é registrata all’inizio degli anni ’90 allorché, per effetto del crescente numero di conflitti interni nonché delle politiche sempre più restrittive degli Stati nei confronti dei richiedenti asilo, il numero degli sfollati interni é cresciuto vertiginosamente sino a superare quello dei rifugiati.
Su impulso delle Nazioni Unite si é così deciso di procedere ad uno studio del diritto internazionale vigente al fine di enucleare una serie di principi che potessero applicarsi alla situazione specifica degli IDPs garantendo loro un’adeguata protezione giuridica. L’esito di tale studio é contenuto nei noti Guiding Principles on Internal Displacement, che vennero presentati alla Commissione dei diritti umani nel 1998 e sono stati poi solennemente riconosciuti dagli Stati membri dell’ONU nel World Summit Outcome Document del 2005 «as an important international framework for the protection of internally displaced persons». Tali Principi si applicano a situazioni di sfollamento derivanti sia da conflitto che da disastro e consistono in una serie di diritti, ricavati per analogia da norme del diritto internazionale umanitario, dei diritti umani e del diritto dei rifugiati, il cui rispetto dovrebbe garantire protezione dallo sfollamento e durante lo sfollamento, nonché assicurare una soluzione duratura agli IDPs.
I Principi Guida non sono di per sé giuridicamente vincolanti ma hanno avuto un impatto significativo sulle leggi e le politiche nazionali di molti Stati, che hanno provveduto ad incorporarli nel proprio diritto interno o ne hanno comunque recepito il nucleo essenziale nel legiferare in materia. Nondimeno, ancora insufficiente é l’attenzione generalmente riservata dagli Stati allo sfollamento dovuto a disastri, come evidenziato dal fatto che gran parte delle leggi nazionali in tema di disaster response non danno specifico rilievo alle esigenze e ai diritti degli sfollati interni (vd E. Ferris).
Un recente sviluppo al riguardo si é avuto a livello regionale con l’adozione della Convenzione dell’Unione Africana sulla protezione e l’assistenza alle persone sfollate interne, entrata in vigore il 6 dicembre 2012. Questo strumento non si limita a menzionare i disastri naturali e antropici, ivi compreso il cambiamento climatico, tra le possibili cause di sfollamento interno, ma pone diversi e precisi obblighi agli Stati in tema di prevenzione e protezione dal degrado ambientale.
Se gli IDPs ambientali, pur con i limiti e le differenze appena evocati, sono comunque destinatari di un complesso significativo di diritti in base al diritto internazionale e interno, non altrettanto può dirsi per quegli sfollati ambientali che varcano la frontiera nazionale. Lo sfollamento ambientale non rientra infatti tra i motivi di persecuzione previsti dall’art. 1A della Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati, né é specificamente contemplato dal diritto internazionale dei diritti umani, che non è idoneo a garantire l’ammissione né tantomeno il soggiorno in un Paese terzo agli environmentally displaced. Le lacune della normativa internazionale e le problematicità della tematica sono evidenziate anche dal mancato riferimento agli sfollati transfrontalieri nel progetto sulla Protezione delle persone in situazioni di disastro recentemente licenziato dalla CDI in prima lettura.
A ben guardare, invero, una seppur limitata protezione potrebbe comunque essere fornita agli sfollati ambientali sulla base del diritto vigente. Ciò anzitutto facendo ricorso a quelle forme di protezione temporanea che sono previste sia da vari ordinamenti nazionali (quali ad esempio Stati Uniti, Finlandia, Danimarca e Svezia) sia, a livello regionale, dalla Direttiva 2001/55/CE. A titolo esemplificativo, può ricordarsi che gli Stati Uniti avevano accordato la protezione temporanea ai cittadini haitiani presenti sul loro territorio a seguito del terremoto del 2010. Egualmente aveva fatto la Danimarca nei confronti di alcuni afgani che avevano abbandonato il proprio Paese nel 2001 a causa della siccità.
Tali regimi sono generalmente accomunati dal carattere provvisorio della protezione fornita (ad eccezione di quanto previsto dalla Finlandia, che contempla pure il rilascio di uno status di protezione permanente), dalla loro applicazione in casi di afflusso massiccio di sfollati nonché dalla discrezionalità a cui é condizionato il loro ricorso.
In secondo luogo, una protezione indiretta degli sfollati ambientali può essere garantita dal diritto internazionale dei rifugiati e dai diritti umani. È tristemente noto, infatti, che situazioni di disastro sono spesso accompagnate, se non addirittura innescate, da un contesto di gravi violazioni dei diritti umani, discriminazioni e persecuzioni, come ben evidenziato dai casi dello Tsunami del 2004 nel sud-est asiatico e del ciclone Nargis in Birmania. Potrebbe pertanto sostenersi che coloro che fuggono da tali contesti dovrebbero beneficiare del principio di non refoulement. L’applicazione di tale principio pare tuttavia invocabile solo in situazioni eccezionali, e ciò sia sulla base del diritto internazionale dei rifugiati – essendo subordinato al riconoscimento dell’esistenza di una persecuzione ai sensi della Convenzione di Ginevra – che sulla base dei diritti umani. Nella sua interpretazione più evolutiva, proposta dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, la protezione contro il refoulement ha natura assoluta soltanto se associata al rischio di violazione di un diritto inderogabile (tipicamente gli artt. 2 e 3 della CEDU). Tuttavia la Corte, malgrado un’iniziale apertura (D. v. the United Kingdom), ha sottolineato il carattere eccezionale dei casi in cui tale protezione potrebbe essere innescata dal mancato soddisfacimento dei basic needs nel Paese di origine, specie allorché la situazione non sia riconducibile a ‘intentional acts or omissions’ delle pubbliche autorità o di enti non statali (Sufi and Elmi v. the United Kingdom, S.C.C. v. Sweden, N v. the United Kingdom; in argomento v. M. Hesselman).
In definitiva dunque il contesto normativo vigente subordina la protezione degli environmentally displaced transfrontalieri vuoi all’adozione di uno specifico provvedimento discrezionale degli Stati di accoglienza, vuoi al riconoscimento dell’eccezionalità delle circostanze che ne impediscono il rimpatrio.
Al fine di colmare questo vuoto giuridico sono state proposte varie soluzioni, quali una modifica della Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati, l’adozione di un protocollo aggiuntivo alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico o la stipula di un trattato ad hoc (cfr. la Draft Convention on the International Status of Environmentally-Displaced Persons proposta da un gruppo di giuristi dell’Università di Limoges). Nessuna di tali soluzioni pare tuttavia percorribile al momento attuale, stante un atteggiamento di forte chiusura degli Stati di immigrazione che non paiono disposti ad assumersi precisi obblighi in materia.
In questo quadro, é da segnalare l’iniziativa intrapresa da alcuni Stati volenterosi – la Norvegia e la Svizzera – che va sotto il nome di Nansen Initiative. L’obiettivo é quello di realizzare un consenso su principi chiave e effective practices in tema di protezione dei displaced transfrontalieri nel contesto di disastri naturali, al fine di definire un’Agenda di Protezione e un Piano di Azione per azioni future a livello locale, regionale e internazionale. Tale processo consultivo è organizzato in stretta collaborazione con l’UNHCR e l’Internal Displacement Monitoring Centre del Norwegian Refugee Council, nonché con il contributo dell’Unione europea. I principali stakeholders sono gli Stati, specialmente quelli appartenenti alle regioni più vulnerabili ai disastri, ma nel processo sono coinvolti molti altri attori quali organizzazioni regionali e locali, esperti, esponenti della società civile e le stesse popolazioni colpite. L’esito delle consultazioni regionali sinora condotte sarà discusso l’ottobre prossimo a Ginevra, nell’ambito di una conferenza internazionale che dovrebbe concludersi con l’approvazione della Protection Agenda. Non è un caso, ed anzi pare di buon auspicio, che l’Iniziativa sia condotta da Walter Kälin, ex rappresentante del Segretario Generale per i diritti umani degli IDPs. Nella sua opera di diffusione e promozione dei Guiding Principles Kälin ha infatti dimostrato che il metodo migliore per far progredire il diritto internazionale malgrado le resistenze statali sia quello di procedere con un approccio “morbido” e graduale invece di sollecitare ad ogni costo un accordo al ribasso.
No Comment