Nepal: un ‘disastro’ evitabile? Sull’importanza della riduzione del rischio di disastri alla luce degli strumenti internazionalistici rilevanti
Livia Cosenza, UN OHCHR Sri Lanka Investigation Team, Università di Palermo
1. L’attenzione dei media in questi giorni si è concentrata essenzialmente sulla necessità di garantire una risposta rapida ed effettiva al terremoto che ha colpito il Nepal lo scorso 25 aprile e sulle difficoltà riscontrare nella distribuzione degli aiuti. La vicenda nepalese presenta, tuttavia, profili di interesse soprattutto in relazione alla preparazione e prevenzione ai disastri naturali.
Gli effetti devastanti del sisma costituiscono un’ulteriore dimostrazione del fatto che l’impatto di catastrofi di origine naturale, sia in termini di perdite umane che di costi economici, varia sensibilmente a seconda dei diversi Paesi e, nell’ambito dello stesso Paese, a seconda dei diversi gruppi sociali.
È generalmente riconosciuto che i terremoti non sono scientificamente prevedibili. Tuttavia, un “disastro” naturale non scaturisce esclusivamente dal “fenomeno” naturale ma soprattutto dal grado di vulnerabilità della società colpita da detto fenomeno. Per quanto non fosse possibile prevedere quando esattamente si sarebbe verificato il prossimo terremoto in Nepal dopo il 1934, erano ampiamente prevedibili gli effetti devastanti nella valle di Kathmandu con una crescita annuale della popolazione del 6,5 % e una delle più alte densità di popolazione al mondo e in cui il 93% degli edifici non sono costruiti secondo standard ingegneristici. Basti pensare che l’80% del rischio di perdita di vite umane in Nepal a seguito di un terremoto proviene dal crollo di edifici. Uno studio pubblicato su Natural Hazards all’inizio di aprile su vulnerabilità strutturale, rischio sismico e perdite economiche legate a futuri terremoti in Nepal ha rilevato che nonostante la disponibilità di nuovi dati e di miglioramenti metodologici l’ultima mappatura del rischio sismico in Nepal risale a vent’anni fa. La mutata percezione dei disastri naturali sempre meno come “acts of god”, eventi di forza maggiore, è scaturita da una concezione del “disastro” come il frutto non esclusivamente di rischi naturali o alee (hazards) ma anche e soprattutto delle politiche di preparazione, risposta poste in essere nella società colpita da detto evento. Tale concezione “sociologica” dei disastri ha avuto inevitabilmente un impatto sull’evoluzione del diritto come strumento di risposta ai disastri naturali. Se il rischio di disastri ha infatti una dimensione sociale, il diritto ha un ruolo legittimo, e finanche necessario, nel regolamentare la gestione di un simile rischio. Tale mutata percezione mette infatti in luce il ruolo che le attività umane possono giocare nel peggiorare o nel mitigare gli effetti di un disastro. Il diritto serve dunque come strumento per delineare responsabilità, obblighi e diritti sul piano della gestione e assistenza, ma soprattutto nell’ottica della prevenzione nel contesto di disastri naturali.
Come pone in rilievo Emanuele Sommario nel suo post, numerosi strumenti giuridici elaborati nel campo dei disastri sono incentrati principalmente sulla regolamentazione della risposta post- disastro. Solo più tardi, la mutata concezione dei disastri ha portato a spostare progressivamente l’attenzione sull’importanza delle politiche di preparazione, mitigazione, prevenzione poste in essere dallo Stato.
2. La risoluzione 46/182 AG, 42/169, che ha designato gli anni novanta come International Decade for Natural Disaster Reduction, la strategia di Yokohama nel 1994, l’approvazione dello Hyogo Framework for Action sulla riduzione del rischio di disastri nel 2005 e la più recente adozione della “piattaforma di Sendai“, lo scorso marzo, rappresentano le iniziative più rilevanti adottate nell’ambito di un nuovo approccio basato sulla “Disaster Risk Reduction“. L’idea è quella di sviluppare a livello internazionale, e interno, strumenti legislativi volti alla “prevenzione” non del fenomeno naturale in sé, ma del rischio di disastro, inteso come rischio dei danni provocati in una società a seguito di un fenomeno naturale. Secondo la definizione contenuta nello Hyogo Framework for Action, un rischio naturale (hazard) rappresenta un fenomeno naturale potenzialmente dannoso che può causare la perdita di vite o danni alle proprietà o una distruzione economica e sociale. La stessa Commissione di diritto internazionale, che intendeva inizialmente concentrare i propri lavori sulla protezione delle persone in caso di disastri con esclusivo riguardo alla fase della risposta, ha riconosciuto l’importanza di definire obblighi e responsabilità di protezione della popolazione colpita da un disastro attraverso la prevenzione e la preparazione. Il relatore speciale Eduardo Valencia-Ospina ha dedicato un approfondito rapporto a detto tema che ha condotto alla stesura di una disposizione sull’ “Obbligo di ridurre il rischio di disastri” nel progetto di articoli, approvato in prima lettura in occasione della 66esima sessione della Commissione di diritto internazionale. Secondo l’articolo 11 [1], «Each State shall reduce the risk of disasters by taking the necessary and appropriate measures, including through legislation and regulations, to prevent, mitigate, and prepare for disasters». L’utilizzo del verbo «shall» indica l’esistenza di un obbligo in capo ad ogni Stato di ridurre il rischio di disastri. Tale formulazione riflette la visione contemporanea della comunità internazionale in base alla quale occorre spostare sempre di più l’attenzione sulla riduzione del rischio di danni causati da un fenomeno naturale, piuttosto che sulla prevenzione del disastro stesso. In questo contesto viene ricostruito un obbligo di due diligence, di adottare «le misure necessarie ed appropriate» volte a ridurre il rischio di disastri: la formulazione del testo rispecchia dunque il diverso ‘sforzo di diligenza’ richiesto agli Stati, a seconda delle diverse capacità e delle diverse disponibilità di risorse. La Commissione ha specificato che ogni Stato deve porre in essere le suddette misure «anche attraverso legislazioni e regole». Come emerge dal commentario al progetto di articoli, l’elaborazione di un quadro giuridico è considerata come lo strumento più efficace per ridurre il rischio di disastri. Di conseguenza, viene delineato un obbligo anche per gli Stati che ne siano sprovvisti di adottare detto quadro normativo, al fine di elaborare misure volte alla prevenzione, riduzione e preparazione per i disastri. Il commentario chiarisce che tale quadro normativo sarebbe anche volto a «garantire che i meccanismi di applicazione e responsabilità per non aver adempiuto i propri obblighi di riduzione del rischio siano definiti nell’ambito dei sistemi giuridici nazionali». Il secondo comma dell’art. 16 del progetto elenca tre esempi di misure specifiche: condurre valutazioni del rischio; raccogliere e disseminare informazioni sul rischio e attivare sistemi di allarme. Tale lista è da considerarsi non esaustiva e non pregiudica, pertanto, la realizzazione di altre attività finalizzate al raggiungimento dello stesso scopo. D’altra parte, il relatore speciale Valencia-Ospina, nell’analizzare le legislazioni adottate a livello nazionale, sulla base della Hyogo Framework Action (supra), aveva anche individuato la necessità di utilizzare standard di costruzione adeguati, stanziare di fondi per la prevenzione, provvedere alla educazione della comunità locale. L’obbligo di prevenzione comprenderebbe, pertanto, in primo luogo un obbligo di risultato, consistente nell’adozione di un quadro legislativo e regolamentare amministrativo adeguato, che sia cioè adeguato in astratto a garantire la prevenzione. A tale obbligo si accompagnerebbe un obbligo di due diligence consistente nella valutazione del rischio, nell’obbligo di fornire informazioni e, soprattutto, nell’obbligo di porre in essere sistemi di allarme.
3. Se è vero che i doveri cosi delineati dalla Commissione richiedono un impegno forte degli Stati a regolamentare la gestione del rischio di disastri, uno studio condotto dalla Federazione Internazionale della Croce Rossa e UNDP ha rilevato, che sebbene un numero considerevole di Stati abbia elaborato legislazioni sulla riduzione del rischio di disastri a livello nazionale, i livelli di attuazione effettiva di tali strumenti risultano piuttosto limitati. La situazione di notevole instabilità politica in Nepal ha impedito l’adozione di una legislazione adeguata nell’ambito della risposta ai disastri che includa aspetti legati alla riduzione del rischio dei disastri. La National Strategy for Disaster Risk Management (NSDRM), approvata a seguito dello Hyogo Framework for Action (supra), appare insufficiente se non affiancata da un Disaster Management Act (DMA) che rispecchi un approccio più comprensivo alla gestione dei disastri. Il Natural Calamity Act del 1982 è, infatti, esclusivamente incentrato sulla risposta ai disastri. In particolare, manca uno strumento giuridico che disciplini specificamente i sistemi di allarme e di comunicazione alla popolazione. In secondo luogo, sussiste ancora una riluttanza a investire nella preparazione ai disastri e a concepire il fattore della vulnerabilità come una delle cause principali dei disastri. È per questo che l’educazione della comunità sull’importanza della preparazione e prevenzione riveste un particolare rilievo nel quadro della riduzione del rischio. Inoltre, il coinvolgimento attivo delle comunità locali nella definizione di politiche di prevenzione costituisce un altro elemento a lungo trascurato. Di interesse, in quest’ottica, è lo studio presentato dall’Expert Mechanism sui diritti delle popolazioni indigene, in occasione della 27esima sessione del Consiglio nel settembre 2014, in risposta alla richiesta del Consiglio dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite di analizzare il rapporto tra protezione dei diritti umani delle popolazioni indigene e riduzione del rischio di disastri. Un punto fondamentale sollevato in questo studio è che le popolazioni indigene dovrebbero essere viste, non solo come vittime, soggetti vulnerabili ai fenomeni naturali, ma anche come detentrici di conoscenza del territorio, delle variazioni climatiche e dei meccanismi di adattamento al cambiamento climatico. Tale approccio dovrebbe applicarsi in via generale a tutte le comunità locali nel delineare legislazioni volte alla prevenzione del rischio. L’utilizzo della suddetta conoscenza, affiancata a quella scientifica, avrebbe un impatto positivo nella definizione di politiche di prevenzione e preparazione ai disastri, non solo nel Paese stesso, ma anche in realtà che hanno caratteristiche simili.
4. Infine, è essenziale porre l’accento sul nesso tra riduzione del rischio di disastri, misure di adattamento al cambiamento climatico e politiche di sviluppo sostenibile nel lungo termine. Come è stato messo in risalto dalla Federazione Internazionale della Croce Rossa in sede di dibattito in Assemblea Generale sul sesto rapporto del relatore speciale Eduardo Valencia-Ospina, la Commissione di diritto internazionale non ha tenuto conto, nel delineare l’obbligo di prevenzione, dell’importanza di misure volte alla valutazione e riduzione del grado di vulnerabilità e del rafforzamento della capacità di recupero delle comunità colpite da catastrofi naturali. Il Nepal è un paese soggetto non solo a terremoti, ma anche ad altri fenomeni naturali, tra cui inondazioni; d’altra parte il cambiamento climatico determina un aumento della frequenza di determinati fenomeni naturali e della vulnerabilità della popolazione. Affiancare dunque politiche di adattamento al cambiamento climatico fornirebbe un contributo fondamentale alla riduzione del rischio di disastri. Inoltre, misure quali la pianificazione territoriale e la regolamentazione della costruzione degli edifici sono essenziali per migliorare la preparazione a futuri fenomeni naturali.
E’ di importanza cruciale prendere in considerazione tali esigenze già in questa fase di risposta all’emergenza in Nepal. Oltre alla responsabilità dello Stato interessato, anche la comunità internazionale è chiamata a giocare un ruolo nel processo di ricostruzione e di recupero nel lungo termine. È anche in tal modo che dovrebbe essere inteso l’obbligo di “cooperazione nella riduzione del rischio di disastri” richiamato, in termini piuttosto vaghi, nell’articolo 10 del progetto di articoli della Commissione di diritto internazionale.
Il Nepal è tra i paesi più poveri al mondo con un PIL pro-capite di 694 dollari nel 2014. Il terremoto del 25 aprile scorso ha già attirato una quantità notevole di aiuti sia su base bilaterale sia attraverso organizzazioni internazionali. Per evitare il rischio di assistere ad una “nuova Haiti” in cui i fondi affluiti a seguito del terremoto nel 2010 non hanno favorito una ricostruzione del Paese, è importante canalizzare le risorse non solo verso la risposta post disastro nel breve termine, ma anche verso la ricostruzione, preparazione e lo sviluppo. Uno degli ostacoli principali all’integrazione tra riduzione del rischio di disastri, cambiamento climatico e sviluppo riguarda la struttura e l’operatività dei canali di finanziamento. Nei casi di disastri naturali i fondi continuano ad indirizzarsi principalmente verso la risposta immediata al disastro nel breve termine, e sono basati su contributi volontari dei paesi.
In quest’ottica assume rilievo il dibattito sviluppatosi in sede di approvazione della piattaforma di Sendai, che contiene un riferimento, seppure generico, alla necessità, per gli Stati sviluppati, di destinare fondi alla riduzione del rischio di disastri in un’ottica di lungo termine. Nonostante si tratti di uno strumento di soft law, il Sendai Framework riveste un alto grado di autorevolezza tra gli Stati. Ciò che appare auspicabile è che dopo l’elaborazione del quadro 2015-2030 sulla riduzione del rischio di disastri, nei prossimi fori internazionali di discussione sul cambiamento climatico (Parigi 2015) e sugli obiettivi di sviluppo del millennio (New York 2015) si rafforzi il nesso tra le tre tematiche, in un’ottica di riduzione della vulnerabilità delle popolazioni ai disastri naturali.
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