Il terremoto in Nepal e la risposta (del diritto) internazionale
Emanuele Sommario, Scuola Superiore Sant’Anna, Pisa, Coordinatore d’unità dell’International Disaster Law Project
Le immagini che ci giungono dal Nepal costituiscono un drammatico monito che ci rammenta della fragilità dell’uomo e di quanto si affanna a edificare su questa terra. La mattina del 25 aprile ha segnato l’inizio di una delle pagine più difficili della vita recente del paese. Al 5 maggio, le statistiche parlano di oltre 7.400 morti e più di 14.000 feriti, ma il numero totale di quanti hanno bisogno di assistenza a seguito del terremoto supera gli 8 milioni di individui. Fonti governative riferiscono di oltre 160.000 abitazioni completamente distrutte, mentre quasi 143.000 sono state danneggiate in maniera più o meno grave. Le persone costrette ad abbandonare le proprie case sono 1,2 milioni e l’ufficio delle Nazioni unite per il Coordinamento dell’Affari Umanitaria (OCHA) riporta che le attività rivolte a garantire livelli d’assistenza minimi alle vittime del disastro costeranno 415 milioni di dollari per i prossimi 3 mesi. Ad oggi ne sono stati raccolti 71.
A fronte di tanta distruzione, la risposta internazionale deve fare i conti con seri problemi di carattere logistico e organizzativo. La conformazione orografica del territorio e le limitate dimensioni dell’unico aeroporto del paese, già al limite delle proprie capacità, stanno rallentando non poco l’afflusso degli aiuti. Molti voli umanitari sono stati deviati su aeroporti vicini, e la disponibilità di elicotteri, necessari soprattutto per raggiungere località isolate dal terremoto, è assai limitata.
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, il diritto internazionale non è silente rispetto ai diritti e doveri degli Stati (e di altri attori internazionali) nel prevenire e mitigare gli effetti di catastrofi naturali. Gli obblighi relativi alla prevenzione e alla preparazione ai disastri sono ben riassunti da Livia Cosenza nel suo post in questo blog. Assai numerosi sono però anche i trattati e gli strumenti di soft law tesi a regolamentare la risposta ai disastri, che questi siano causati da eventi naturali o legati ad attività umane (si veda de Guttry). Quel che manca, tuttavia, è un trattato che regoli in maniera unitaria tutti gli aspetti legati all’avvio, alla realizzazione e alla conclusione di operazioni di assistenza umanitaria in situazioni che non siano qualificabili come conflitti armati. Siamo invece ancora di fronte a un insieme di trattati bilaterali, regionali o settoriali, i quali mancano però di sistematicità e non identificano soluzioni condivise a molte delle questioni giuridiche rilevanti. A dare nuovo impulso al tentativo di negoziare uno strumento “olistico” è il lavoro della Commissione per il diritto internazionale, che dal 2008 si sta occupando del tema della protezione delle persone in caso di catastrofe. La Commissione ha prodotto un progetto di articoli, adottato in prima lettura nel 2014. Il progetto è stato poi inviato agli Stati e ad alcune organizzazioni rilevanti per raccogliere commenti e osservazioni, che dovranno giungerle entro la fine di quest’anno.
Il lavoro della Commissione ribadisce la centralità del ruolo dello Stato vittima di disastro nel rispondere all’emergenza e nel coordinare aiuti provenienti dall’estero. L’articolo 12 del progetto ribadisce chiaramente che «the affected State has the primary role in the direction, control, coordination and supervision of such relief and assistance». Tuttavia, gli articoli prevedono responsabilità precise in capo ai diversi attori coinvolti nella gestione del disastro, che possono risultare utili anche nel definire gli obblighi delle autorità nazionali.
Ad esempio, l’articolo 17 dispone che lo Stato vittima prenda le misure necessarie per facilitare la fornitura rapida ed efficace di assistenza internazionale, soprattutto riguardo a «equipment and goods, in fields such as customs requirements and tariffs, taxation, transport, and disposal thereof». Suscitano dunque preoccupazione le notizie di gravi ritardi nella gestione delle procedure doganali alle quali sono sottoposte gli aiuti destinati alla popolazione. Sebbene le autorità abbiano già da qualche giorno eliminato le tariffe d’ingresso su alcuni beni di emergenza, funzionari internazionali hanno sottolineato la necessità di adottare procedure più spedite, per evitare l’accumularsi di scorte che potrebbero rallentare l’accesso di altri beni necessari alle successive fasi dell’emergenza. Eppure il Nepal ha già obblighi internazionali precisi in materia. Ad esempio, l’allegato 9 alla Convenzione di Chicago sull’aviazione civile internazionale – di cui il Nepal è parte dal 1960 – contiene numerose norme relative alla facilitazione del trasporto aereo. La lettera C dello strumento prevede che, in caso di disastro, le alte parti contraenti debbano facilitare «the entry into, departure from and transit through their territories of aircraft engaged in relief flights performed by or on behalf of international organizations recognized by the UN or by or on behalf of States themselves and shall take all possible measures to ensure their safe operation». Dal 2007 il Nepal e’ inoltre vincolato da un accordo con le Nazioni Unite in materia doganale, che lo obbliga ad adottare misure volte ad accelerare le procedure d’accesso di personale e beni di soccorso che siano dispiegati nell’ambito di un’operazione umanitaria gestita dall’organizzazione. Ad esempio, il trattato richiede alle autorità nepalesi di ispezionare il materiale in arrivo anche al di fuori degli orari d’ufficio (art. 3.3.3.), di esaminare i contenuti delle spedizioni in arrivo in maniera selettiva e «il più rapidamente possibile» (art. 3.3.5), o di lasciare accedere beni di assistenza sulla base di una documentazione provvisoria, da integrarsi successivamente (art. 3.3.6.). Si tratta, come facile comprendere, di misure volte ad accelerare il passaggio di professionisti, mezzi e beni destinati a essere utilizzati nella fase di risposta immediata, quando ogni minuto di ritardo può comportare la perdita di vite umane. Ancora, l’accordo regionale in materia di risposta rapida ai disastri naturali – stipulato in seno all’Associazione dell’Asia del Sud per la cooperazione regionale (SAARC) nel 2011, ma non ancora in vigore – prevede il dovere di concedere esenzioni e facilitazioni nella prestazione di assistenza. L’articolo XI sancisce, ad esempio, un obbligo di facilitare l’entrata, la permanenza e l’uscita dal proprio territorio di equipaggiamento e materiale utilizzato nell’opera di soccorso. Le autorità nepalesi dovrebbero dunque intensificare i propri sforzi per disbrigare il prima possibile le pratiche doganali ed eliminare completamente tasse, imposte e altre imposizioni sull’importazione di beni destinati ai terremotati.
Altra questione rilevante è l’adeguatezza degli aiuti inviati nelle aree colpite. Le agenzie riportano che il Pakistan ha inviato in Nepal razioni di carne bovina. La popolazione nepalese è al 95% di religione induista, che prevede un divieto generalizzato di consumare tale alimento. Quanti organizzano azioni di soccorso possono non aver piena contezza delle reali esigenze e delle particolarità culturali proprie delle zone colpite. Ciononostante, errori marchiani potrebbero evitarsi con facilità, facendo risparmiare danaro e risorse a chi invia questi beni e limitando la congestione che caratterizza le fasi di primo soccorso. L’esigenza di fornire assistenza adeguata ai bisogni delle vittime è peraltro ribadita anche in strumenti internazionali. Ad esempio, le linee guida per la facilitazione e regolamentazione domestica delle operazioni internazionali di soccorso e di assistenza riabilitativa iniziale (adottate nel 2007 dalla Federazione internazionale delle società di Croce rossa e di Mezzaluna rossa) prevedono che «i soccorsi offerti e gli interventi di assistenza riabilitativa iniziale dovrebbero essere (…) b) adeguati alle necessità delle persone colpite». Le Measures to Expedite International Relief, contenute in un Rapporto del Segretario generale delle NU all’Assemblea generale, raccomandano espressamente agli Stati impegnati nell’assistenza di assicurarsi che i beni inviati corrispondano alle reali esigenze delle vittime del disastro (raccomandazione F) e li invitano a condurre campagne informative nei confronti di soggetti privati e pubblici volte ad evitare che vengano raccolti ed inviati beni non essenziali (raccomandazione E; sul diritto al cibo in situazione di disastro si veda Fisher). Anche il diritto internazionale dei diritti umani suggerisce che gli Stati e le organizzazioni internazionali che prestano aiuto alle popolazioni colpite da disastro debbano fornire prodotti che siano «safe and culturally acceptable to the recipient population» (si veda il General Comment N. 12 del Comitato dei diritti economici, sociali e culturali sul diritto a un’alimentazione adeguata, par. 39).
Chiaramente, la mancanza di beni di prima necessità, la perdita delle proprie abitazioni, la scomparsa dei propri cari, unite allo stress e alla frustrazione che caratterizzano qualsiasi situazione post-disastro, possono esasperare gli animi nella popolazione, portando a problemi di ordine pubblico. I media riportano già di scontri fra cittadini allo stremo e forze di pubblica sicurezza a Kathmandu. Se il governo centrale ha la responsabilità di prestare soccorso alla popolazione, gli corre anche l’obbligo di garantire il rispetto dei diritti dell’uomo, per quanto seria possa essere la situazione. La stessa Commissione del diritto internazionale ci ricorda all’articolo 6 del progetto che le vittime di un disastro debbano continuare a godere dei propri diritti umani. Come noto, l’esercizio dei diritti e delle libertà fondamentali è garantito da numerosi strumenti internazionali, fra cui il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, che il Nepal ha ratificato nel 1991. Tuttavia, molti dei diritti garantiti sono soggetti a limitazioni che la pubblica autorità può imporre, a condizione che esse siano previste dalla legge e che mirino a salvaguardare uno o più degli interessi collettivi che i negoziatori hanno individuato come meritevoli di protezione (ordine pubblico, salute pubblica, morale pubblica, sicurezza nazionale, ecc.) o i diritti e le libertà di altri individui. Le restrizioni dovranno inoltre essere necessarie «in una società democratica», ossia proporzionate all’obiettivo specifico che lo stato intende perseguire. Le autorità nepalesi dovranno dunque valutare con attenzione se e in che misura i diritti esercitati dai propri cittadini possano essere ristretti per garantire l’ordine o la salute pubblica, in una situazione in cui queste paiono essere particolarmente a repentaglio. Seppure non frequentissime, esistono pronunce di organismi di monitoraggio dei diritti umani in cui si è valutato il bilanciamento fra diritti individuali e interessi generali minacciati da disastri naturali. Nel caso I c. Italia, ad esempio, la Commissione europea dei diritti umani reputò conformi alla CEDU restrizioni imposte al diritto di proprietà su un immobile, motivate dal ripetersi di eventi sismici nell’area dove esso era ubicato che rendevano assai ardua l’individuazione di una sistemazione alternativa per i locatari dell’appartamento.
Non è peraltro da escludersi in maniera tassativa che eventi catastrofici possano dar luogo a situazioni che giustifichino il ricorso alla clausola di deroga prevista nei principali trattati sui diritti umani. L’articolo 4 del Patto per i diritti civili e politici, ad esempio, prevede che «in caso di pericolo pubblico eccezionale, che minacci l’esistenza della nazione e venga proclamato con atto ufficiale, gli Stati parti del presente Patto possono prendere misure le quali deroghino agli obblighi imposti dal presente Patto, nei limiti in cui la situazione strettamente lo esiga, e purché tali misure non siano incompatibili con gli altri obblighi imposti agli Stati medesimi dal diritto internazionale e non comportino una discriminazione fondata unicamente sulla razza, sul colore, sul sesso, sulla lingua, sulla religione o sull’origine sociale» (si veda Sommario). Ovviamente, il governo che ritenesse di dover sospendere alcuni dei diritti garantiti dalle Convenzioni dovrebbe ottemperare agli obblighi di notifica contemplati dai trattati, e potrebbe introdurre unicamente misure temporanee che siano strettamente necessarie (ossia proporzionate) al pericolo che intende affrontare. Di nuovo, la prassi internazionale non è ricchissima, ma a partire dal 1998 sono stati almeno 5 i casi in cui Stati colpiti da calamità naturali o da epidemie hanno ritenuto di sospendere alcune delle garanzie sancite dai trattati facendo ricorso alla clausola di deroga. Il Cile, ad esempio, la invocò nel 2010 proprio a seguito di un terremoto assai violento, introducendo limitazioni straordinarie alle libertà di movimento e di riunione pacifica. La legalità di tali condotte non è stata (ancora) vagliata dal Comitato dei diritti umani, ma – qualora lo fosse – è probabile che le misure adottate non verrebbero individuate come violative del Patto, essendo i regimi in deroga stati introdotti per periodi di tempo limitati, esclusivamente nelle zone maggiormente interessate dal disastro e prevedendo misure effettivamente funzionali a far fronte alla calamità e alle sue conseguenze. Lo stesso Comitato ha tuttavia sottolineato che misure di limitazione ordinaria dovrebbero essere generalmente sufficienti per risolvere situazioni di disastro naturale, che non richiederebbero di norma il ricorso alla deroga (si veda General Comment N. 29 del Comitato dei diritti civili e politici su “stati di emergenza”, para 5).
Al contempo, la fase di prima assistenza deve essere accompagnata da misure improntate a una visione di medio periodo, per scongiurare il rischio di maggiori perdite fra la popolazione. La stagione dei monsoni è alle porte, e le centinaia di migliaia di sfollati nepalesi rischiano gravi difficoltà se costretti a vivere negli alloggi temporanei approntati in queste ore. Una situazione in cui gli ospedali sono sovraffollati, l’acqua è scarsa, i corpi sono ancora sepolti dalle macerie e le persone dormono all’aria aperta offre le condizioni ideali per la proliferazione di malattie. C’è dunque da augurarsi che le attività di risposta si svolgano in tempi rapidi e in maniera efficace, in conformità con un quadro giuridico poco conosciuto, ma di certo non scarno.
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