Le responsabilità dei Governi degli Stati membri nella difficile costruzione di un’autentica politica dell’Unione europea di immigrazione e di asilo
Chiara Favilli, Università degli Studi di Firenze
La reazione a situazioni di “emergenza” può essere qualificata come il filo rosso della politica migratoria italiana. Lo è stato nel 1989, quando con un decreto legge è stata approvata la c.d. legge Martelli, lo è stato negli anni ’90 con l’“emergenza Balcani” e poi ancora, dopo il 2001, con l’“emergenza terrorismo”, nel 2007 con la c.d. “emergenza nomadi” e nel 2011 con l’“emergenza Nord Africa”. Successivamente si sono ripetuti eventi, talora tragici, che hanno fatto gridare all’emergenza profughi, emergenza sbarchi, emergenza accoglienza. Diverse le emergenze ma identico l’approccio, tendente a reagire ai fenomeni piuttosto che a governarli ed a percepirli come eccezionali anche quando sono sistematici e strutturali.
Persa nell’adozione di misure propagandistiche, come il reato di immigrazione e soggiorno irregolare o i respingimenti sommari seccamente condannati dalla Corte EDU (sentenza Hirsi e al. c. Italia del 23 febbraio 2012), l’Italia non ha seriamente affrontato la gestione del controllo delle sue frontiere marittime, nonché delle misure di contrasto dell’immigrazione irregolare e della gestione delle operazioni di ricerca e soccorso in mare. Non fosse stato per le capacità indiscusse delle forze italiane di volta in volta coinvolte, nonché dei tanti privati che in questi anni hanno salvato migliaia di vite in mare, oggi il bilancio dei morti sarebbe ancora più drammatico. La cooperazione con la Libia è un altro “buco nero” della politica migratoria italiana: oggi da più parti si rimpiange la stabilità dell’era di Gheddafi, senza ricordare che i flussi da quel Paese non sono mai cessati, neanche quando la situazione geopolitica in Nord Africa e in Medio Oriente era molto meno instabile di adesso e che, anzi, proprio Gheddafi utilizzava la leva dei flussi migratori come arma di negoziato per ottenere vantaggi economici altamente discutibili, certificati dal Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione concluso con quel Paese nel 2008.
A questo dato strutturale della nostra politica si sono aggiunti i danni causati dall’affermarsi di forze politiche che utilizzano l’immigrazione come leva elettorale, soffiando sul fuoco delle comprensibili paure della popolazione autoctona, illusa che lo “tsunami” provocato da conflitti e da condizioni di estrema povertà, congiuntamente ad una sempre maggiore globalizzazione, possa essere fermato con soluzioni semplicistiche e velleitarie prove di forza.
In questo disordine di fondo nella gestione delle politiche migratorie, periodicamente l’Italia ha invocato l’intervento dell’Unione europea, gridando all’emergenza. Lo ha fatto anche quando il numero delle richieste di protezione internazionale in Italia era di gran lunga inferiore rispetto a quello della Germania, della Francia, della Svezia, del Regno Unito e, addirittura, fino al 2012, del Belgio (v. i rapporti annuali dello European Asylum Support Office). Lo ha fatto durante la c.d. “Primavera araba”, quando solo una minima parte delle persone giunte nelle nostre coste ha richiesto protezione internazionale, mentre le altre sono state fornite di permesso di soggiorno, titolo di viaggio e denaro sufficiente per soddisfare i requisiti stabiliti dal Codice frontiere Schengen per l’attraversamento delle frontiere interne (v. il rapporto del CeSPI su “L’impatto delle primavere arabe sui flussi migratori regionali e verso l’Italia”). Una soluzione all’italiana, questa, che ha consentito alle persone di raggiungere le mete desiderate, ma che ha inferto una ferita grave al principio di reciproca fiducia tra gli Stati membri nell’attuazione degli obblighi derivanti dall’UE. Tra questi vi è quello del controllo delle frontiere, applicando le regole comuni in base al principio di leale cooperazione e di effetto utile, così che le norme possano conseguire l’obiettivo perseguito e abbiano la maggiore efficacia possibile.
Quando, a partire dalla fine del 2013, la situazione è oggettivamente cambiata e l’emergenza è arrivata davvero, con previsioni peraltro in crescita (si vedano le Risk analysis periodicamente pubblicate dall’Agenzia Frontex), l’Italia non era ancora credibile e l’invocazione del maggiore intervento dell’UE suonava più come un’eco delle passate lamentele piuttosto che come l’attuale, oggettivamente fondata richiesta di intervento alla luce delle mutate circostanze. Il malfunzionamento del sistema Dublino con le severe condanne da parte della Corte EDU (M.S.S. c. Belgio and Grecia, Tarakhel c. Svizzera, Sharifi e al. c. Italia e Grecia) ha poi reso ancora più teso il clima tra gli Stati, aggravando la contrapposizione tra Stati nord-europei e Stati sud-europei e rendendo una chimera l’attuazione effettiva dei principi di reciproca fiducia e di solidarietà, quest’ultima interpretata solo in chiave economica, lasciando ciascuno Stato a gestire le proprie frontiere esterne nell’interesse di tutti gli Stati UE, con periodiche critiche e tensioni variamente manifestate (Germany, Austria and Italy launch “trilateral controls” to deal with “the increasing numbers of refugees”).
La contrapposizione tra gli Stati membri è la vera causa dell’immobilismo dell’UE di fronte all’acuirsi dei flussi migratori attraverso il Mediterraneo e di fronte all’aumento delle tragedie in mare. Tale immobilismo non è mutato neanche dopo il naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013. Allora la Commissione pubblicò il documento sulla Task Force per il Mediterraneo che era però la riproposizione delle misure già in atto, solo monitorate e proposte in una cornice diversa. Nulla di nuovo tant’è che neanche allora si è mai presa seriamente in considerazione l’attivazione del meccanismo della protezione temporanea disciplinato dalla direttiva 2001/55/CE per gestire un afflusso massiccio di sfollati che non possono rientrare nel Paese di origine: la prima direttiva ad essere approvata dopo l’attribuzione di competenza all’UE nel 1999, ma mai utilizzata. La ragione è semplice: essa è uno strumento di autentica solidarietà tra gli Stati, che prevede uno status di soggiorno deciso dal Consiglio, con una ripartizione delle persone sfollate tra gli Stati membri. Venendo meno la solidarietà tra gli Stati, manca il presupposto principale per la sua applicazione.
Come noto, la tragedia di Lampedusa ha però indotto il Governo italiano ad attivare l’operazione Mare Nostrum, un’operazione di ricerca e di salvataggio delle vite in mare nonché di contrasto all’immigrazione irregolare. Nell’anno di attività sono state 150.000 le persone soccorse e 351 i trafficanti arrestati. Nonostante gli unanimi riconoscimenti per l’ingente sforzo e l’encomiabile attività delle forze impegnate nell’operazione, dopo alcuni mesi è montata una critica all’operazione ritenuta un fattore di attrazione dei migranti a beneficio dei trafficanti che avrebbero modificato le proprie tecniche ricorrendo a navi sempre meno grandi e meno solide, confidando nell’arrivo delle navi italiane. Tale critica è stata sollevata da varie forze politiche in Italia, da alcuni Governi degli Stati membri, con in testa il Regno Unito, financo dai vertici dell’Agenzia Frontex (si veda la sintesi delle dichiarazioni più rilevanti in questa vicenda curata da Nando Sigona).
Il Governo italiano si è oggettivamente trovato in una situazione paradossale: sostenere un’operazione costosa (9.000.000 di Euro al mese), perdente sul piano del consenso popolare e per giunta attirando critiche non solo dalle forze politiche tradizionalmente ostili, ma anche dall’UE. Nonostante gli appelli dal mondo delle organizzazioni non governative, il Governo ha così deciso di interrompere l’operazione Mare Nostrum confidando nell’avvio dell’operazione Triton sotto l’egida di Frontex. Per alcune settimane abbiamo assistito a dichiarazioni contraddittorie rilasciate dal direttore di Frontex, dall’allora Commissario UE Malmström e dal Ministro dell’interno Alfano volte a precisare se Triton avrebbe o meno sostituito Mare Nostrum (Caffio). Di fatto è stato così: Triton è l’operazione in campo tra gli Stati membri che persegue scopi di controllo delle frontiere entro le 30 miglia marine dalla costa, con limitate possibilità di ricerca e soccorso in mare a causa soprattutto della carenza dei mezzi a disposizione. Nonostante gli arrivi via mare non siano mai cessati, neanche nel pieno dell’inverno con condizioni meteorologiche avverse, l’operazione di ricerca e soccorso quale era Mare Nostrum è stata interrotta, senza un’adeguata sostituzione. Nel pieno di un’emorragia è stato tolto il tampone, auspicando nella cessazione spontanea, ovviamente non avvenuta. Le ragioni della scelta sono tutte politiche, dato che nessuna evidenza oggettiva avrebbe potuto giustificare tale interruzione. I morti di questi mesi ne sono la conferma tangibile, così come sono la prova macchiata di sangue della inconsistenza delle critiche dell’operazione Mare Nostrum come fattore di attrazione dei flussi migratori. Mare Nostrum non c’è più e i traffici di esseri umani continuano, come prima.
A livello di Unione Europea qualcosa sembrava cambiato alla luce delle prime mosse della Commissione Junker (Di Pascale). Sia dal Programma del Presidente, sia dal mandato dell’Alto Rappresentante e del Commissario per l’immigrazione era chiaro che la gestione della politica europea di immigrazione dovesse essere gestita in modo diverso rispetto al passato, con un maggiore coordinamento tra Direzioni generali competenti, prime tra tutte la DG Affari interni e la DG Cooperazione allo sviluppo e l’Alto rappresentante per gli affari esteri. All’indomani dell’insediamento della Commissione, sono iniziate riunioni periodiche sotto l’egida dell’Alto rappresentante e per metà maggio era già annunciata la pubblicazione dell’Agenda per l’immigrazione che dovrebbe dare nuovo impulso all’azione dell’UE in questo settore.
La tragedia di sabato 18 aprile ha accelerato i tempi, ed ha costretto il Consiglio Affari esteri, già programmato per il 20 aprile a cambiare priorità nei temi trattati e il Commissario Avramopoulos ad anticipare la presentazione dell’Agenda per l’immigrazione, individuando un piano d’azione articolato in dieci punti, raffinato durante la riunione del Consiglio europeo straordinario del 23 aprile, appositamente convocato a questo scopo.
Le misure concordate si articolano adesso su quattro punti:
- rafforzamento della presenza in mare;rafforzamento della presenza in mare;
- lotta ai trafficanti in conformità al diritto internazionale;
- prevenzione dei flussi migratori irregolari;
- rafforzamento della solidarietà e della responsabilità tra gli Stati membri.
L’obiettivo prioritario «to prevent people from dying at sea» è perseguito nel solco delle misure dell’Unione di contrasto dei flussi migratori internazionali, che risultano ancora il paradigma delle politiche migratorie dell’UE. Non vi è alcun accenno all’esigenza di approntare una straordinaria operazione umanitaria nel Mediterraneo e nei Paesi di origine e di transito, ma le operazioni di soccorso e di assistenza sono tutte funzionali a quelle di contrasto e di repressione dei flussi migratori irregolari. Anche l’attenzione alla lotta al traffico dei migranti invece che alla tratta, come ben spiegato da Francesca de Vittor su questo blog, si situa nella medesima traiettoria di riduzione, quasi eliminazione, della dimensione di assistenza umanitaria e di protezione delle vittime.
Così anche una delle misure più rilevanti concordata dal Consiglio europeo, quale il lancio di Programmi di protezione e sviluppo nel Nord Africa e nel Corno d’Africa, si trova inserita nel quadro della prevenzione dei flussi migratori irregolari e non nel quadro di un capitolo specifico relativo ad un Piano di emergenza umanitaria: il motivo è che questo capitolo nelle Conclusioni del Consiglio europeo non esiste. Al contrario, agire per contrastare le cause dei flussi di persone bisognose di protezione internazionale o migranti tout court necessiterebbe di un vero e proprio Piano Marshall per l’Africa, coinvolgendo il maggior numero possibile di organizzazioni internazionali e di Stati terzi. L’auspicio è che, al netto delle conclusioni del Consiglio europeo, l’azione di coordinamento dell’Alto rappresentante riesca a far prevalere la dimensione di autentica solidarietà tipica della cooperazione allo sviluppo, su quella volta principalmente alla repressione dei traffici e dei flussi migratori irregolari. L’Unione è un attore cruciale nella scena internazionale per ciò che concerne la cooperazione allo sviluppo e l’aiuto umanitario: è questa parte dell’azione UE che deve essere debitamente valorizzata e rafforzata.
Ancora, non vi è una parola nelle Conclusioni sulle modalità di accesso alla protezione da parte delle persone che ne hanno diritto. Queste non sono immigrati irregolari, ma persone che hanno diritto di ingresso, mentre invece nelle Conclusioni si considerano solo gli «illegal migration flows» senza considerare che, soprattutto negli arrivi via mare, la percentuale di persone che hanno diritto alla protezione internazionale (nelle forme dell’asilo, protezione sussidiaria e umanitaria) è elevatissima. Se si chiudono i canali di ingresso irregolari e oggettivamente pericolosi, come quelli via mare, senza aprirne di regolari, le vittime rischiano di essere ancora una volta coloro che fuggono dalle situazioni di pericolo e dal rischio o minaccia alla propria vita.
L’autentica emergenza avrebbe invece richiesto l’assunzione di impegni concreti circa l’accesso alla protezione e l’unico modo praticabile nell’immediato è quello del potenziamento del reinsediamento, meglio noto come resettlement; in Libano su una popolazione di 4.000.000 di persone vi sono 1.500.000 sfollati siriani. Una parte di questi dovrebbero essere trasferiti nell’UE, potenziando gli attuali programmi di reinsediamento. Nelle conclusioni invece, il reinsediamento è menzionato solo relativamente all’avvio di un progetto pilota, senza l’indicazione di alcun obiettivo particolare e, soprattutto, su base volontaria (originariamente era previsto il coinvolgimento di 5000 persone, poi eliso nelle conclusioni finali). La mancanza di un impegno deciso dei Governi per il reinsediamento rende praticamente inutile interrogarsi su altre misure di accesso alla protezione, come il rilascio di visti umanitari o la creazione di centri per l’esame delle domande all’estero. Queste misure, tra l’altro, sono astrattamente possibili, ma comunque difficilmente praticabili. Non è escluso che in talune situazioni particolari possano anche realizzarsi, ma i costi e le difficoltà oggettive sono così elevate che vi è il rischio reale di creare situazioni di limbo o meccanismi comunque non utili per un numero significativo di persone, di fatto impedendo l’accesso alla protezione internazionale.
La prevalenza della dimensione del controllo e della repressione su quella umanitaria è evidente anche in quella che è stata sbandierata come la più importante delle misure concordate, ossia il rafforzamento immediato dell’operazione Triton, con impegni chiaramente assunti da quasi tutti gli Stati membri, elevando il budget mensile a 9.000.000 di Euro, lo stesso che era stato stanziato dall’Italia da sola per l’operazione Mare Nostrum. Tuttavia dubbi vi sono circa l’effettiva capacità dell’operazione di garantire un’efficace azione di soccorso, estendendo la propria attività anche in alto mare: la portavoce della Commissione europea per l’immigrazione ha chiarito che Triton potrà spingersi anche oltre le 30 NM e che la ricerca e il soccorso in mare sono contemplati espressamente nel regolamento istitutivo dell’Agenzia; quasi contemporaneamente il direttore dell’Agenzia ha affermato che Triton non potrà avere un ruolo attivo nella ricerca e soccorso. Le due posizioni potrebbero non essere contraddittorie come pare ad una prima lettura: Triton potrebbe continuare ad operare entro le 30 NM e superarle in caso di intervento per salvare un’imbarcazione in pericolo, in conformità al diritto internazionale del mare. Senza una revisione del mandato di Triton, questa continuerà ad agire come operazione di controllo delle frontiere, sebbene rinforzata con la triplicazione delle risorse disponibili, ma senza avere un ruolo proattivo nella ricerca e soccorso, come precisato dal direttore dell’Agenzia Frontex. Delle due l’una: o Triton sarà in grado di offrire la necessaria assistenza alle persone bisognose di soccorso nel Mediterraneo oppure tale assistenza dovrà essere garantita da un’altra operazione complementare a Triton, al di fuori del “cappello” di Frontex e che sia di autentica ricerca e soccorso per scongiurare altri naufragi. Se così non fosse, rimarrà il pericolo che un ingente numero di persone muoia in mare, pericolo che invece nelle Conclusioni si afferma di voler evitare.
Nelle stesse Conclusioni sono indicate anche misure volte a realizzare rimpatri “rapidi” attraverso Frontex e potenziando gli accordi di riammissione con Paesi di origine e transito, pericolosamente legando la cooperazione allo sviluppo alla finalità della cooperazione ai fini della riammissione. Pur essendo comprensibile che l’UE pretenda dai Paesi terzi collaborazione nella riammissione in cambio di cooperazione allo sviluppo, questa deve rimanere saldamente ancorata ai principi di base, orientati principalmente alle esigenze dei Paesi assistiti (art. 21 TUE). Il beneficio principale per l’UE nell’investimento nella cooperazione allo sviluppo è nel lungo periodo, nella rimozione delle cause che generano le migrazioni forzate, di qualunque genere esse siano.
Infine, quanto alla protezione internazionale, le Conclusioni prevedono che squadre coordinate dall’EASO (European Asylum Support Office) potranno assistere gli Stati nell’esame congiunto delle domande. L’esame congiunto è uno degli obiettivi sul quale l’EASO sta lavorando, ma senza avere una strategia chiara su cosa esso effettivamente comporti e come debba essere realizzato. Sarà interessante verificare come queste squadre saranno impiegate, con quante risorse e, soprattutto, a che fine. Per fare l’esempio dell’Italia, non è chiaro se queste squadre fungeranno da mero supporto alle Commissioni territoriali o anche da controllo sui criteri applicati, soprattutto in relazione al riconoscimento della protezione umanitaria che è disciplinata dal diritto interno e non dalle direttive UE. Tali squadre dovranno collaborare anche alle fasi della registrazione e della identificazione dei richiedenti protezione internazionale, aspetto cruciale per consentire una più efficace applicazione del regolamento Dublino III. I Governi europei hanno un grande interesse ad assistere l’Italia nell’attività di identificazione: si stima che nel 2014 su circa 150.000 persone sbarcate soltanto 90.000 siano state identificate, con una stragrande maggioranza di persone che hanno raggiunto i Paesi del Nord Europa, ivi presentando domanda di protezione internazionale eludendo così l’applicazione del Regolamento Dublino III.
A questo proposito si consideri che nel testo delle Conclusioni non c’è una parola sul destino delle persone soccorse rispetto allo Stato competente ad accoglierle ed eventualmente ad esaminare la domanda di protezione internazionale. Si menziona soltanto la necessità di aumentare i fondi di emergenza per gli Stati di frontiera esterna e di considerare le opzioni per la ricollocazione di emergenza tra gli Stati membri su base volontaria: si tenga presente che l’esperienza del progetto pilota EUREMA di ricollocazione su base volontaria a favore di Malta ha dato risultati imbarazzanti, con un totale di 583 persone effettivamente rilocate. Neanche la decisione 2010/252/UE sulle modalità del controllo delle frontiere marittime esterne nell’ambito delle operazioni coordinate da Frontex, pur individuando procedure dettagliate sul soccorso e lo sbarco delle persone salvate, non stabilisce alcuna regola vincolante al riguardo. In mancanza di accordi particolari, in mancanza dell’applicazione della direttiva sulla protezione temporanea, si dovrà applicare il regolamento Dublino III, in base al quale il criterio prevalente per la determinazione dello Stato competente è quello dello Stato di primo arrivo. Si consideri anche che, mancando il riconoscimento della libertà di circolazione a favore dei beneficiari dello status di protezione internazionale, tale Stato diviene anche quello dove il rifugiato dovrà risiedere stabilmente. È dunque altamente probabile che sarà l’Italia a dover accogliere il maggior numero delle persone salvate, così come è altamente probabile che questo aspetto diventerà un ulteriore motivo di scontro tra gli Stati UE, nel bel mezzo delle operazioni di soccorso. Per evitarlo, lasciando integro il sistema Dublino, occorrerebbe almeno garantire ai beneficiari dello status di protezione internazionale il diritto di circolare e di soggiornare liberamente negli Stati dell’UE, con piena applicazione dei principi di mutuo riconoscimento e di solidarietà. L’assegnazione di quote virtuali tra Stati potrebbe consentire di compensare con risorse finanziarie gli Stati con una presenza di persone superiore alla propria quota, mentre contemporaneamente potrebbero essere riconosciuti incentivi a chi attrae persone nel proprio Paese.
Purtroppo anche questa rischia di divenire una chimera perché, nonostante quasi tutta l’UE sia un’area di libera circolazione delle persone, non è stato possibile concordare misure efficaci sul soggiorno intra-UE dei cittadini di Paesi terzi, nonostante la Commissione abbia varie volte considerato questo come un passaggio necessario, almeno per alcune categorie di stranieri. La responsabilità, anche di questo, è dei Governi degli Stati membri che ancora riescono attraverso il Consiglio europeo e il Consiglio a condizionare l’attività dell’Unione, agendo con la logica tipica dei vertici internazionali, perseguendo propri interessi individuali di breve periodo da sbandierare come conquiste sul piano interno. Vedremo come la Commissione tradurrà in misure operative le misure concordate nelle Conclusioni del Consiglio europeo e se il Parlamento europeo potrà incidere nell’attuazione delle misure concordate, ma per ora i Governi hanno inferto un altro duro colpo alla costruzione di «un’Unione europea aperta, sicura, pienamente impegnata a rispettare gli obblighi della Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati e di altri importanti strumenti internazionali per i diritti dell’uomo, e capace di rispondere ai bisogni umanitari con la solidarietà», come invece altri capi di Stati e di Governo avevano concordato nel sempre più distante Consiglio europeo di Tampere del 1999.
1 Comment
L’Agenda della Commissione europea concernente la migrazione sembra caratterizzarsi per un significativo mutamento dell’approccio da adottare allo scopo di affrontare un fenomeno ineludibile del nostro tempo (le Migrazioni, appunto) da sovraintendere con una visione senza dubbio più ampia (nonché lungimirante), segnatamente condivisa per quanto concerne il delicato profilo dell’accoglienza: l’Agenda europea infatti contempla diverse misure riguardanti anche l’assegnazione delle persone che necessitano di protezione internazionale nonché il reinsediamento dei rifugiati.
Particolare curiosità attira però la misura relativa all’operazione congiunta di sorveglianza Triton.
L’Agenda europea prevede essenzialmente una estensione del raggio di azione nonché del mandato dell’operazione, che dovrebbe includere l’aspetto della ricerca e (del connesso profilo, parimenti delicato e complesso) del soccorso.
I ‘dettagli’ intorno (anche) alla portata dell’estensione del mandato dell’operazione, naturalmente nel senso indicato nell’Agenda della Commissione europea che avrebbe però potuto essere più incisiva nonché più precisa nell’indicare la strada da percorrere, dovrebbero essere svelati verso la fine del mese di maggio grazie alla presentazione (che rappresenta comunque una ‘conquista’) del nuovo “Triton operational plan”: un chiaro riferimento all’inclusione di interventi di ricerca e soccorso tale da manifestare appunto un limpido intendimento di procedere al mutamento dell’essenza dell’attuale operazione congiunta Triton, fondamentalmente di sorveglianza delle frontiere marittime, avrebbe potuto giovare, al fine di fugare le perplessità suscitate dal punto inerente alla suddetta operazione.
Occorre però intendersi: non appare eccessivamente azzardato sostenere che si tratta di una sorta di ‘procedura’ da seguire attinente alla definizione del nuovo “Triton operational plan”, che sostanzialmente prevede un confronto piuttosto limitato fra vari protagonisti della scena con ruoli verosilmilmente differenti, ossia il direttore esecutivo dell’Agenzia FRONTEX, lo Stato membro ospitante l’operazione marittima (…il nostro Paese) e gli Stati membri partecipanti.
Tale confronto piuttosto limitato, risulta appunto dalla pertinente ‘lettura’ del par. 2 dell’art. 3 bis dedicato proprio ai profili “organizzativi delle operazioni congiunte”, introdotto dal Regolamento (UE) n. 1168/2011 nonché ‘integrato’ da ultimo dal Regolamento (UE) n. 656/2014 che contiene disposizioni relative alla sorveglianza delle frontiere marittime nel caratteristico contesto della cooperazione operativa pianificata dall’Agenzia FRONTEX. Detto articolo del reg. (UE) n. 1168/2011 prevede infatti il necessario consenso del direttore esecutivo dell’Agenzia FRONTEX e dello Stato membro ospitante l’operazione marittima per quanto riguarda le modifiche o adattamenti da apportare al piano operativo: sarà cura di FRONTEX trasmettere tempestivamente “copia del piano operativo modificato o adattato agli Stati membri partecipanti”.
Da non trascurare la ‘circostanza’ che le modifiche o adattamenti da apportare al piano operativo riguardano profili senza dubbio molto importanti per realizzare le finalità prefissate. Particolarmente significativi appaiono, tra gli altri, gli aspetti indicati alla lettera j del par. 1 dell’art. 3 bis del reg. (UE) n. 1168/2011 relativi alle informazioni sulla giurisdizione e sulla legislazione applicabile nell’area ove si svolgerà l’operazione congiunta, inclusi “i riferimenti al diritto dell’Unione e internazionale” relativi all’intercettazione, al soccorso e allo sbarco nonché le peculiari ‘integrazioni’ successive, prescritte appunto dal reg. (UE) n. 656/2014. Appare infatti più che opportuno riportare la seconda parte dell’eloquente considerando n. 17 di quest’ultimo regolamento: “Il piano operativo dovrebbe essere elaborato conformemente alla disposizioni del presente regolamento che disciplinano l’intercettazione, il soccorso in mare e lo sbarco nell’ambito di operazioni di sorveglianza di frontiere marittime coordinate dall’Agenzia e tenendo conto delle particolari circostanze dell’operazione interessata. Il piano operativo dovrebbe comprendere procedure volte ad assicurare che le persone bisognose di protezione internazionale, le vittime della tratta degli esseri umani, i minori non accompagnati e altre persone vulnerabili siano identificati e ricevano un’assistenza adeguata, compreso l’accesso alla protezione internazionale”.
L’imminente presentazione del nuovo ‘Triton operational plan’ dovrebbe quindi fugare le perplessità suscitate dalla lettura attenta del sintetico punto contemplato dal carnet europeo sulla migrazione intorno all’operazione Triton, poiché potrebbe (il condizionale è d’obbligo) semplicemente trattarsi di un rafforzamento del coordinamento operato dall’Agenzia FRONTEX, volto, in modo particolare, all”osservanza’ della disciplina inerente alle situazioni di ricerca e soccorso, ‘situazioni’ regolate dalle pertinenti disposizioni del reg. (UE) n. 656/2014.