Il “predominio assiologico della Costituzione sulla CEDU”: Corte costituzionale 49/2015 ovvero della “normalizzazione” dei rapporti tra diritto interno e la CEDU
Paola Mori, Università Magna Graecia di Catanzaro
Con la sentenza n. 49 del 2015 la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte di cassazione e dal Tribunale di Teramo sulla questione della confisca adottata nei confronti di soggetti prosciolti dal reato di lottizzazione abusiva. L’art. 44, 2° co., del d.P.R. 380/2001 stabilisce che «la sentenza definitiva del giudice penale che accerta che vi è stata lottizzazione abusiva, dispone la confisca dei terreni, abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite». Secondo il «diritto vivente» risultante dall’interpretazione consolidata della Corte di cassazione la confisca ha natura di mera sanzione amministrativa e il giudice penale è tenuto a disporla anche quando debba dichiarare prescritto il reato di lottizzazione abusiva, purché il fatto costitutivo del reato sia stato in concreto accertato. Dal canto suo la Corte EDU, dopo avere qualificato nella sentenza Sud Fondi c. Italia del 20 gennaio 2009 la confisca come una sanzione penale e pertanto in quanto tale soggetta alle garanzie che la CEDU stabilisce in materia, nella successiva sentenza Varvara c. Italia del 29 ottobre 2013, ha ritenuto che l’applicazione della confisca mediante una sentenza che proscioglie i convenuti per prescrizione del reato violi l’art. 7 CEDU, anche alla luce della presunzione di innocenza di cui all’art. 6, par. 2 CEDU. In altri termini, secondo la Corte di Strasburgo se la confisca è una pena, la sua applicazione presupporrà necessariamente un accertamento di responsabilità a carico del suo autore e dunque una sua condanna.
La sentenza della Consulta trae origine da due diverse questioni di legittimità costituzionale. La prima era stata sollevata dalla Corte di cassazione in un caso in cui era emersa, nei precedenti gradi di giudizio, la responsabilità degli imputati per il reato di lottizzazione abusiva, essendo peraltro ormai maturato il relativo termine di prescrizione. Secondo la Suprema Corte per effetto della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Varvara il citato art. 44, 2° co., del d.P.R. 380/2001 avrebbe assunto il significato che è preclusa la confisca dei beni quando non viene pronunciata una condanna per il reato di lottizzazione abusiva. Di conseguenza la misura non potrebbe essere più adottata quando il reato è prescritto e ciò nonostante sia stata, o possa venire incidentalmente, accertata la responsabilità personale di chi è soggetto alla confisca. Ritenendo tale assetto in contrasto con l’insieme delle disposizioni costituzionali invocate (artt. 2, 9, 32, 41, 42 e 117, 1° co., Cost.), in quanto esso determinerebbe «una forma di iperprotezione del diritto di proprietà» a discapito degli interessi tutelati da quelle disposizioni (il paesaggio, la salute, l’ordinato assetto urbanistico), la Cassazione ha sollevato questione di legittimità costituzionale. In sostanza, pur non facendovi esplicito riferimento, la Corte di cassazione chiedeva di azionare il meccanismo dei controlimiti.
All’origine della seconda questione era un procedimento penale pendente davanti al Tribunale di Teramo per il reato di lottizzazione abusiva nei confronti di un imputato, la cui responsabilità era stata dimostrata nel dibattimento, nel corso del quale era però maturata la prescrizione, con la conseguenza che si sarebbe dovuto pronunciare un non luogo a procedere. Il giudice rimettente ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 44, secondo comma, d.P.R. 380/2001, rilevando il contrasto tra il diritto vivente formatosi sulla base della giurisprudenza della Cassazione che impone in tal caso di disporre la confisca e l’art. 117, 1° comma, Cost. in relazione all’art. 7 CEDU, così come interpretato dalla sentenza Varvara.
Pur avendo le due ordinanze di remissione finalità contrapposte, quella della Cassazione di bloccare l’applicazione del diritto di Strasburgo quale risultante dalla sentenza Varvara ritenuto in contrasto con valori costituzionali preminenti, quella del Tribunale di Teramo di portare alla declaratoria di incostituzionalità della norma di legge censurata per contrasto con la CEDU quale interpretata dalla sentenza Varvara, la Corte costituzionale ne ha deciso la trattazione congiunta in quanto entrambe vertenti sulla medesima disposizione.
L’interesse per l’internazionalista della sentenza 49/2015 sta nell’ampia parte dedicata ai rapporti tra il diritto della CEDU e diritto interno e al ruolo rispettivo della Corte di Strasburgo e del giudice nazionale, là dove la Corte costituzionale sembra compiere un ulteriore passo, ma forse sarebbe più appropriato dire balzo, in avanti in quella linea di diffidente contenimento della CEDU (Ruggeri parla in proposito di «un nazionalismo costituzionale esasperato») che ha da sempre e salvo sporadiche eccezioni (si pensi alla sentenza n. 388 del 1999) caratterizzato la giurisprudenza costituzionale italiana (sia consentito rinviare a Mori, Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Patto delle Nazioni Unite e Costituzione italiana, in Rivista di diritto internazionale, 1983).
L’argomentare della Corte costituzionale è complesso e in alcuni passaggi il linguaggio appare particolarmente drastico, si pensi all’affermazione del «predominio (sic!) assiologico della Costituzione sulle norme della CEDU» (par. 4 cons. dir.). Già da una prima lettura appare dunque evidente come l’obiettivo prioritario delle Consulta sia quello di ridimensionare una volta per tutte il ruolo della CEDU e della giurisprudenza della Corte di Strasburgo (in questo senso v. anche Conti; Viganò).
La Consulta esordisce con l’affermazione che «ancorché tenda ad assumere un valore generale e di principio, la sentenza pronunciata dalla Corte di Strasburgo […] resta pur sempre legata alla concretezza della situazione che l’ha originata (n. 236 del 2011)» (par. 6.2 cons. dir.) con ciò richiamando quella giurisprudenza che tende a relegare il giudice europeo ad un ruolo circoscritto, limitato a specifici casi, competendo invece al solo giudice costituzionale la valutazione «“sistemica e non frazionata” dei diritti coinvolti dalla norma di volta in volta scrutinata» e il «necessario bilanciamento in modo da assicurare la “massima espansione delle garanzie” di tutti i diritti e i principi rilevanti, costituzionali e sovranazionali, complessivamente considerati, che sempre si trovano in rapporto di integrazione reciproca» (n. 85 del 2013; n. 264 del 2012)
La motivazione prosegue poi ribadendo, in prima battuta, quanto affermato nelle sentenze “gemelle” del 2007, «ovvero che alla Corte di Strasburgo compete di pronunciare la “parola ultima” (sentenza n. 349 del 2007) in ordine a tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione e dei suoi Protocolli», allo scopo di assicurare che, «all’esito di un confronto ermeneutico, tale da coinvolgere nel modo più ampio possibile la comunità degli interpreti, sia ricavata dalla disposizione convenzionale una norma idonea a garantire la certezza del diritto e l’uniformità presso gli Stati aderenti di un livello minimo di tutela dei diritti dell’uomo». E qui la Corte costituzionale, riconoscendo la «funzione interpretativa eminente» (sentenza n. 348 del 2007) della Corte di Strasburgo, sembra sottolineare l’importanza del dialogo fra giudici che dovrebbe garantire un confronto e un arricchimento reciproco tra i vari sistemi dei diritti.
Tuttavia, subito dopo la Corte precisa che i giudici nazionali non sono «passivi ricettori di un comando esegetico impartito altrove nelle forme della pronuncia giurisdizionale». In particolare il giudice nazionale non può prescindere dall’art. 101, 2° co., Cost., con il quale si «esprime l’esigenza che il giudice non riceva se non dalla legge l’indicazione delle regole da applicare nel giudizio, e che nessun’altra autorità possa quindi dare al giudice ordini o suggerimenti circa il modo di giudicare in concreto […] e ciò vale anche per le norme della CEDU, che hanno ricevuto ingresso nell’ordinamento giuridico interno grazie a una legge ordinaria di adattamento».
A questo punto la Corte opera una distinzione a seconda che il giudice comune torni ad occuparsi di una specifica causa rispetto alla quale la Corte di Strasburgo abbia pronunciato una sentenza ovvero al di fuori di tale presupposto. Nel primo caso «il giudice comune non potrà negare di dar corso alla decisione promanante dalla Corte di Strasburgo …. perché cessino, doverosamente, gli effetti lesivi della violazione accertata (sentenza n. 210 del 2013)». Al di fuori di questa ipotesi «l’applicazione e l’interpretazione del sistema di norme è attribuito beninteso in prima battuta ai giudici degli Stati membri» i quali «non potranno ignorare l’interpretazione della Corte EDU, una volta che essa si sia consolidata in una certa direzione».
La Corte motiva quest’ultima affermazione con l’esigenza, che appare senza dubbio razionale, «che sia raggiunto uno stabile assetto interpretativo sui diritti fondamentali, cui è funzionale, quanto alla CEDU, il ruolo di ultima istanza riconosciuto alla Corte di Strasburgo». Tuttavia la portata del dictum della Corte non può che lasciare fortemente perplessi e preoccupati per le conseguenze che ne possono derivare in ordine al rispetto del sistema convenzionale di garanzia dei diritti dell’uomo.
Il punto centrale della sentenza sta nell’affermazione che è «solo un “diritto consolidato”, generato dalla giurisprudenza europea, che il giudice interno è tenuto a porre a fondamento del proprio processo interpretativo, mentre nessun obbligo esiste in tal senso, a fronte di pronunce che non siano espressive di un orientamento oramai divenuto definitivo» (corsivi aggiunti). In altri termini, l’obbligo di interpretazione conforme alla norma convenzionale quale interpretata dalla Corte di Strasburgo e «fermo il margine di apprezzamento che compete allo Stato membro (sentenze n. 15 del 2012 e n. 317 del 2009)», sussiste solo in presenza di una giurisprudenza europea consolidata e non in tutti gli altri casi. Pertanto qualora il giudice comune si interroghi sulla compatibilità della norma convenzionale con la Costituzione, «va da sé che questo solo dubbio, in assenza di un “diritto consolidato”, è sufficiente per escludere quella stessa norma dai potenziali contenuti assegnabili in via ermeneutica alla disposizione della CEDU, così prevenendo, con interpretazione costituzionalmente orientata, la proposizione della questione di legittimità costituzionale». Dunque in queste ipotesi il giudice ordinario potrà limitarsi ad un’interpretazione costituzionalmente orientata senza necessità di sollevare la questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 117, 1° co., e senza tener conto dell’interpretazione fornita dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Questo passaggio della sentenza solleva un duplice ordine di problemi, il primo relativo alla definizione di «diritto consolidato», il secondo è quello della compatibilità di una tale giurisprudenza con gli obblighi convenzionali, in particolare con l’art. 46 CEDU, e, più in generale, con il basilare principio di buona fede nel rispetto di quegli stessi obblighi.
Sotto il primo profilo è la stessa Corte costituzionale ad ammettere che non sempre sarà «di immediata evidenza se una certa interpretazione delle disposizioni della CEDU abbia maturato a Strasburgo un adeguato consolidamento, specie a fronte di pronunce destinate a risolvere casi del tutto peculiari, e comunque formatesi con riguardo all’impatto prodotto dalla CEDU su ordinamenti giuridici differenti da quello italiano». Dopo una digressione diretta a dimostrare come sia «la stessa CEDU a postulare il carattere progressivo della formazione del diritto giurisprudenziale» (a questo scopo viene anche evidenziato il carattere non vincolante dei pareri consultivi della Corte EDU ex art. 5 del Protocollo n. 16), la Consulta elabora una sorta di vademecum contenente gli «indici» che dimostrerebbero il carattere non consolidato della giurisprudenza di Strasburgo: «la creatività del principio affermato, rispetto al solco tradizionale della giurisprudenza europea; gli eventuali punti di distinguo, o persino di contrasto, nei confronti di altre pronunce della Corte di Strasburgo; la ricorrenza di opinioni dissenzienti, specie se alimentate da robuste deduzioni; la circostanza che quanto deciso promana da una sezione semplice, e non ha ricevuto l’avallo della Grande Camera; il dubbio che, nel caso di specie, il giudice europeo non sia stato posto in condizione di apprezzare i tratti peculiari dell’ordinamento giuridico nazionale, estendendovi criteri di giudizio elaborati nei confronti di altri Stati aderenti che, alla luce di quei tratti, si mostrano invece poco confacenti al caso italiano».
In questi casi secondo la Consulta non vi sarà «alcuna ragione che obblighi il giudice comune a condividere la linea interpretativa adottata dalla Corte EDU per decidere una peculiare controversia, sempre che non si tratti di una “sentenza pilota” in senso stretto».
In conclusione, «solo nel caso in cui si trovi in presenza di un “diritto consolidato” o di una “sentenza pilota”, il giudice italiano sarà vincolato a recepire la norma individuata a Strasburgo, adeguando ad essa il suo criterio di giudizio per superare eventuali contrasti rispetto ad una legge interna, anzitutto per mezzo di “ogni strumento ermeneutico a sua disposizione”, ovvero, se ciò non fosse possibile, ricorrendo all’incidente di legittimità costituzionale (sentenza n. 80 del 2011)».
Non è però chiaro quando si sia in presenza di una giurisprudenza consolidata. Verosimilmente potrebbero ritenersi dar luogo ad un consolidamento del diritto le sentenze della Grande Camera, la quale decide in sede di riesame quando sono in gioco gravi problemi di interpretazione della Convenzione o dei suoi Protocolli (art. 43 CEDU), e in primo grado anche qualora la soluzione della questione rischi di dare luogo ad un contrasto con una sentenza pronunciata anteriormente dalla Corte (art. 30 CEDU); ma la Grande Camera pronuncia un numero esiguo di sentenze all’anno.
E nemmeno è chiaro il motivo per cui si debbano equiparare alla giurisprudenza consolidata le sentenze pilota. Queste non riflettono necessariamente un orientamento consolidato della giurisprudenza europea quanto piuttosto l’accertamento di casi di violazioni ripetute o sistematiche della CEDU da parte dello Stato in conseguenza di un difetto strutturale dell’ordinamento giuridico o di sue prassi (e questo pone in luce un ulteriore punto di debolezza della giurisprudenza della Corte costituzionale là dove assume di essere l’unico giudice titolato alle valutazioni “sistemiche”).
Resta un interrogativo: quid per le sentenze definitive delle Camere, come lo è diventata la sentenza Varvara (il 24 marzo 2014)? Come sottolinea Viganò, evidentemente il collegio di cinque giudici previsto dall’art. 43 CEDU ha ritenuto che la richiesta del Governo italiano non presentasse profili problematici tali da imporre il riesame della sentenza da parte della Grande Camera e quindi in questo senso la sentenza della Camera ben potrebbe costituire diritto consolidato.
Rispetto ad esse l’obbligo di conformarvisi sancito dall’art. 46 CEDU si pone solo per il giudice comune «che abbia definito la causa di cui … torna ad occuparsi, quando necessario, perché cessino, doverosamente, gli effetti lesivi della violazione accertata» (par. 7) o piuttosto non grava sullo Stato e quindi su tutti i suoi organi in primis quelli giurisdizionali almeno ogni qualvolta si trovino ad applicare le stesse disposizioni normative? Obbligo su cui la Corte costituzionale sembra forse aver con troppa disinvoltura sorvolato, andando a inasprire un conflitto ormai non più latente che segna i rapporti con la Corte di Strasburgo. Si pensi al caso delle pensioni svizzere (sul quale la Corte EDU è ritornata nella sentenza Stefanetti e a. c. Italia, 15 aprile 2014, reiterando in termini netti la decisione del caso Maggio c. Italia, 31 maggio 2011, dopo la sentenza della Corte cost. n. 264 del 2012) o ancora al caso del personale ATA (tra i molti giudizi v. Corte EDU, Agrati e a. c. Italia, 7 giugno 2011, De Rosa e a., 11 dicembre 2012, Montalto e a. c. Italia, 14 gennaio 2014; Corte cost., sentenza n. 311 del 2009; Corte GUE, 6 settembre 2011, causa C-108/10, Scattolon).
In realtà negli ultimi anni la Corte costituzionale sembra essersi decisamente e molto nettamente orientata verso l’affermazione esplicita della prevalenza del diritto interno sulla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e più in generale sul diritto internazionale (si pensi alla sentenza 238 del 2014) attribuendosi il ruolo di cerniera di chiusura dell’ordinamento giuridico italiano ai valori esterni ogni qualvolta questi siano da lei stessa, e solo da lei stessa, reputati incompatibili con limiti e controlimiti costituzionali.
Rispetto alla CEDU l’operazione di normalizzazione era già in nuce nelle sentenze gemelle del 2007 là dove se ne irrigidiva la dinamica normativa nell’inquadramento nell’art. 117, 1° co., Cost. e nell’esigenza «assoluta e inderogabile» che le norme che integrano il parametro di costituzionalità siano esse stesse conformi alla Costituzione. La sentenza n. 49 del 2015 va avanti nell’opera.
Non si sottovaluti però l’importanza del ruolo della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e del suo giudice e l’ineliminabile funzione di controllo esterno al sistema statale che essa svolge (v. Rodotà).
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lo so che i diritti umani turbano il sonno dei potenti in italia ………