La legge cd. “anti-moschee” della Regione Lombardia: moniti mnesici a tutela della libertà religiosa, fra Costituzione e Convenzione europea
Giancarlo Anello è professore di diritto interculturale e ricercatore confermato in diritto ecclesiastico presso l’Università degli studi di Parma
Nella seduta del 27 gennaio scorso, il Consiglio Regionale della Lombardia ha approvato la Legge regionale 3 febbraio 2015, n. 2 che introduce alcuni principi in materia di edificazione dei luoghi di culto delle confessioni diverse da quella cattolica, inserendosi all’interno del tessuto normativo della precedente normativa regionale in materia di governo del territorio (Legge regionale 11 maggio 2005, n. 12). Le nuove norme si applicano alle confessioni che hanno stipulato un’intesa con lo Stato e a quelle che, seppur prive di intesa, abbiano una presenza diffusa, organizzata e consistente a livello territoriale e un significativo insediamento nell’ambito dei comuni di riferimento e i cui statuti esprimano il carattere religioso delle loro finalità istituzionali e il rispetto dei principi e dei valori della Costituzione. La nuova disciplina non tocca quindi la Chiesa cattolica, la cui posizione rimane regolata dall’art. 70 della legge per il governo del territorio.
Di là dalla terminologia burocratica, si tratta di una serie di norme che riguardano, tra l’altro, il tema dell’edificazione sul territorio lombardo di nuove moschee, vale a dire dei luoghi di culto della religione islamica. Ad una prima e sommaria lettura, emerge il dubbio che il sistema di norme adottate sia in grave contrasto con il principio di libertà religiosa, come fissato nei suoi standard costituzionali e internazionali. Ciò per almeno tre ordini di argomentazioni: a) contestualizzazione storico-culturale, b) valutazione in termini sistematici di diritto interno, c) esigenza di garanzia del diritto umano di libertà di religione. A giudizio di chi scrive, simili linee argomentative, seppure astrattamente riconducibili ad ambiti disciplinari diversi, possono, guardate con l’esperienza pratica del giurista, risultare interdipendenti e interconnesse. Ad ogni modo, in un approccio interdisciplinare, le riflessioni seguenti vanno considerate come mere ipotesi di indirizzo, suscettibili di ulteriori analisi e approfondimenti.
a) La discriminazione giuridica per motivi di religione ha, purtroppo, un passato consistente e articolato, sia prossimo sia remoto. A proposito, può apparire singolare che le norme in commento siano state approvate il 27 gennaio, giorno in cui – ogni anno – si celebra la Giornata della Memoria. Tale ricorrenza, introdotta con la Legge 20 luglio 2000, n. 211, ricorda, appunto, le discriminazioni subite per motivi religiosi dagli ebrei durante la loro storia, affinché – recita testualmente l’art. 2, comma 1, della legge istitutiva – «simili eventi non possano mai più accadere». La storia del popolo ebraico, infatti, rappresenta una sorta di manuale sulle pratiche discriminatorie e alcune delle limitazioni neo-introdotte in materia di edificazione dei luoghi di culto paiono riportare alla mente misure già sperimentate contro gli ebrei durante la loro tormentata diaspora:
– Il macchinoso procedimento amministrativo necessario per autorizzare la costruzione di nuove moschee, nonché i limiti ai cambiamenti di destinazione d’uso, richiamano alla mente le norme emanate dagli imperatori cristiani del V secolo volte a vietare la costruzione di nuove sinagoghe o la ristrutturazione delle vecchie (C. Th, XVI, 8, 25 secondo cui Synagogae de cetero nullae protinus extruantur, veteres in sua forma permaneant);
– la disposizione che prevede la congruità architettonica e dimensionale degli edifici di culto previsti con le caratteristiche del paesaggio lombardo (che di fatto riguarda il problema dell’edificazione dei minareti) non sembra dissimile dai decreti del medioevo islamico che vietavano alle sinagoghe di sovrastare gli edifici circostanti, specialmente le moschee;
– l’obbligo di videosorveglianza del perimetro esterno, con onere a carico del richiedente con collegamento diretto con le forze dell’ordine, richiama in modo sinistro il sistema di vigilanza del Ghetto di Varsavia che, mediante l’istituzione dello Jüdischer Ordnungsdienst (Servizio d’Ordine Ebraico) nel 1940, imponeva ai “controllati” lo svolgimento di operazioni di polizia ausiliaria a favore dei “controllori” nazisti.
Di là dalle analogie storiche, tanto polemiche – lo si ammette – quanto angoscianti, occorre ribadire che la lotta alla discriminazione religiosa necessita di una tutela egualitaria e radiale. Alla luce delle norme da loro varate, ci si potrebbe chiedere se i legislatori lombardi fossero al corrente del principio costituzionale di uguale libertà di tutte le confessioni religiose (art. 8, comma 1, Cost.), se condividessero l’auspicio che le forme più odiose di sperequazione diretta e indiretta non debbano più realizzarsi ovvero se intendessero tali assunti applicabili “selettivamente”, ammettendo un trattamento differente tra una religione e le altre.
b) Anche nei termini più stringenti di una valutazione sistematico-giuridica, le norme appena approvate apparirebbero lesive del principio di libertà religiosa. La nuova disciplina verte sulla stipulazione di una convenzione a fini urbanistici tra enti rappresentativi e comuni. Va sottolineato che dal dato testuale della legge (art. 2 bis) pare richiedersi alle confessioni (– si badi – non agli enti rappresentativi che chiederanno la convenzione) una presenza diffusa, organizzata e consistente a livello territoriale e un significativo insediamento nell’ambito del Comune nel quale vengono effettuati gli interventi urbanistici; e che i relativi statuti esprimano il carattere religioso delle loro finalità istituzionali e il rispetto dei principi e dei valori della Costituzione. Si prevede a riguardo un parere, preventivo e obbligatorio, di una neoistituita nuova consulta regionale circa la sussistenza di simili requisiti. Ai comuni si richiede: l’acquisizione preliminare, ai fini della predisposizione del nuovo piano per le attrezzature religiose (atto separato facente parte del piano dei servizi), dei pareri di organizzazioni, comitati di cittadini, esponenti e rappresentanti delle forze dell’ordine oltre agli uffici provinciali di questura e prefettura al fine di valutare possibili profili di sicurezza pubblica; la possibilità di indire referendum; l’approvazione del piano nel termine di diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della legge regionale. Decorso detto termine il piano è approvato unitamente al nuovo PGT; l’individuazione specifica e un adeguato dimensionamento alle esigenze locali delle aree che andranno ad accogliere le attrezzature religiose o che sono destinate alle stesse; la previsione specifica, tra l’altro, di ulteriori condizioni quali strade, opere di urbanizzazione, distanze, parcheggi, impianti di videosorveglianza, servizi igienici, accessi per i disabili, e una congruità architettonica e dimensionale con le caratteristiche generali e peculiari del paesaggio lombardo.
Posto questo plesso normativo, si possono avanzare numerosi interrogativi. Dal punto di vista costituzionale, si pone preliminarmente la questione circa la competenza delle Regioni a porre in essere tali disposizioni e tali limitazioni alla libertà di culto. Sebbene, infatti, esse siano inserite formalmente in un testo in materia di “governo del territorio”, tali norme paiono pienamente integrare la disciplina dei rapporti tra lo stato e le confessioni religiose, materia che la Costituzione rimette espressamente alla competenza esclusiva dello stato centrale (art. 117, comma 2, lett. c, Cost.) o incardinate su intese regionali. Inoltre, anche a voler ammettere una qualificazione urbanistica delle norme in commento, occorre riflettere su quell’impostazione tecnicistica, ricorrente (ma non prevalente) nella prassi amministrativa, che tende a recidere i nessi tra la disciplina dello spazio di culto e quella delle attività rituali in esso svolte, contribuendo a realizzare una certa “ineffettività strutturale”, in questi ambiti, del diritto di libertà religiosa. Sebbene all’interno di un quadro normativo complesso e disorganico, non può certamente affermarsi che in tale settore l’ordinamento possa esimersi dall’offrire una tutela effettiva dei diritti e delle libertà, quando essi siano investiti in concreto dall’azione della Pubblica amministrazione. In ogni caso, rimanendo ancorati al principio della razionalità dell’azione amministrativa, si dovrà verificare se le nuove norme non introducano adempimenti istruttori particolarmente complessi o gravosi, termini troppo stringenti, pareri discrezionali o addirittura modalità di verifica totalmente inutili, tali da aggravare o rendere addirittura impossibile la conclusione del procedimento autorizzativo. Anche a un rapido sguardo, infatti, il percorso autorizzativo previsto pare particolarmente frastagliato e pericolosamente restrittivo. In particolare, è lecito chiedersi quali criteri e quali adempimenti istruttori possano essere richiesti a un organo amministrativo (nuova consulta regionale) per esprimere una valutazione localizzata circa i presupposti strutturali, organizzativi e quantitativi delle confessioni (– si ribadisce – non di enti localmente rappresentativi che andranno a stipulare la convenzione coi comuni). Ci si chiede, in particolare, se sia legittimo che tale parere sia preventivo e obbligatorio: la Costituzione fissa il diritto delle confessioni di organizzarsi sulla base di propri statuti, con il solo limite dell’ordinamento giuridico italiano (art. 8, comma 2, Cost.). Tale garanzia copre sia il processo, sia il risultato del processo organizzativo. Inoltre, il superamento di tale limite deve essere accertato, concretizzarsi in violazione di norme ordinamentali e non può essere operato in termini teorici, ideologici e aprioristici. La Corte costituzionale da parte sua ha stabilito altri indici di confessionalità rispetto allo statuto religioso, quali la comune considerazione o i precedenti riconoscimenti pubblici (sentenza della Corte costituzionale n. 195 del 1993), requisiti che nel caso dell’Islam non mancherebbero. Gravoso o addirittura inutile appare il parere preliminare sulla sicurezza pubblica, posto che esso non sembrerebbe essere vincolante. Similmente dilatoria, oltreché democraticamente aberrante, appare la prospettiva di una consultazione popolare preventiva tramite referendum comunale, non essendo chiaro su quali profili tale consultazione dovrebbe pronunciarsi. Infine, la norma che prevede la fissazione di criteri di congruità con le caratteristiche sia “generali” sia “peculiari” del paesaggio lombardo appare suggerire una eccessiva discrezionalità dell’autorità amministrativa a riguardo.
c) Sul piano della Convenzione europea, ci si può chiedere se il complesso di norme e di adempimenti previsti per il rilascio dell’autorizzazione non siano in contrasto con gli indici di tutela della libertà di religione dell’art. 9 della Convenzione medesima. Certamente, la frequentazione e, a monte, la realizzazione di luoghi dedicati alla preghiera possono essere considerate forme di manifestazione esterna e collettiva delle credenze religiose, tutelate dalla disposizione. La complessità e la tendenziale restrittività delle condizioni sostanziali e procedimentali dell’autorizzazione parrebbero, infatti, sproporzionate rispetto alle esigenze di tutela della libertà di culto. In passato, una analoga disciplina, in materia di autorizzazione a costruire edifici di culto, è incorsa nella censura della Corte EDU. In quel caso, la Corte ha messo in evidenza come il rimettere l’accertamento di numerose fasi del procedimento all’ampia discrezionalità di soggetti quali l’autorità di polizia, quella comunale o di altri organi distrettuali avrebbe consentito una dilazione eccessivamente indeterminata nell’esito del procedimento o avrebbe potuto comportare un diniego alla concessione dell’autorizzazione senza adeguata giustificazione; con l’esito di permettere all’autorità politica e amministrativa di usare tali disposizioni per imporre rigide, o addirittura proibitive, condizioni alla pratica del culto di alcune confessioni (v. la sentenza nel caso Manussakis and others v. Greece, par. 45 e 48).
In aggiunta alle considerazioni precedenti, va posto poi il problema circa la portata discriminatoria di tali norme rispetto a quelle delineate nella stessa disciplina per la Chiesa cattolica. Sebbene, cioè, le modifiche appena introdotte siano apparentemente formulate in termini neutri, tuttavia il richiamo alle disposizioni di favore già contenute nella legge sul governo del territorio del 2005 e relative alla Chiesa cattolica potrebbero far pensare, fin non troppo sommessamente, ad un trattamento sperequativo nei confronti di particolari religioni rispetto ad altre (in contrasto con l’uguale libertà dinanzi alla legge di tutte le confessioni religiose, formulata dall’art. 8, comma 1, Cost.). Se le seconde, infatti, prevedono espressamente che Regioni e Comuni debbano impegnarsi in un’attività di promozione nella realizzazione delle attrezzature religiose della Chiesa (art. 70 l. r. 12/2005), le prime paiono sostanzialmente finalizzate alla restrizione delle autorizzazioni, al controllo e alla vigilanza sulle attività di culto. Tale argomento potrebbe rilevare nella valutazione della violazione, sia dell’articolo 9 in quanto tale (ancora Manoussakis) sia in combinato con l’art. 14 sul divieto di discriminazione, il quale a sua volta – pur non prescrivendo necessariamente un’assoluta identità di trattamento tra confessioni religiose – richiede una valutazione della ragionevolezza della eventuale disparità di trattamento.
Infine, e come estremo rimedio, vale la pena di ponderare, in termini di qualificazione normativa, la variante di prospettare il c.d. “diritto alla moschea” come ragionevolmente riferibile alla libertà di riunione ai sensi dell’art. 11 invece che all’art. 9, o in aggiunta a esso. Nella tradizione culturale islamica, infatti, l’aspetto collettivo o congregazionale del culto parrebbe prevalere rispetto a quello posizionale o spaziale. Nel Corano, la sura intitolata al-jum’a (il venerdì) impone ai fedeli di lasciare i loro traffici nel momento in cui viene fatto l’annuncio della preghiera del venerdì (62,9). La distinzione assiologica tra la preghiera e la moschea è scandita in diversi ahadith della sunnah di al-Bukhari, relativi, da un lato, alla varietà di luoghi leciti per la preghiera individuale (sui tetti delle case, sul minbar, sull’impiantito, su monticelli di terra, sopra i canali di scolo, sul tetto della moschea, sulla neve, sul terreno destinato ai cammelli, in luoghi di culto non musulmani); dall’altro, alla modalità, necessariamente congregazionale, di esecuzione della preghiera del venerdì. In essa, infatti, assume fondamentale rilievo il processo collettivo, simbolizzato dal rito di disporsi su lunghe linee diritti, fianco a fianco allineati. Inoltre durante il venerdì è obbligatorio seguire il sermone dell’imam (khutba’). La funzione dell’imam, in quanto guida religiosa, consiste in tale frangente nel suggerire ai membri della comunità condotte adeguate ai dettami religiosi, ma anche alle circostanze di vita e del contesto politico, attuale e concreto. Se, infine, i nomi sono significanti, l’etimologia delle parole e gli usi linguistici della lingua araba rendono chiarissima la priorità contenutistica e assiologica dell’attività di riunione al venerdì sul regime spaziale dell’edificio di culto: tutte le parole attinenti al culto sono composte dalla radice verbale trilittera j-m-‘a, che indica l’azione del raccogliere ciò che è sparso. In genere, la grande moschea in cui la comunità (jama’a) si riunisce al venerdi (ium al-jum’a) prende il nome di masgid al-jama’a o masgid al-jum’a (moschea della comunità o del venerdì), oppure masgid al-jami’ (luogo della riunione), ma più usualmente e comunemente viene chiamata al-jami’ah.
In conclusione, le ipotesi di una dubbia legittimità delle norme della Legge regionale lombarda n. 2 del 2015 non possono essere trascurate. Sebbene necessitino di un ulteriore approfondimento, tali perplessità devono porsi al centro di un’attenta riflessione, per il rilievo che la libertà religiosa assume in seno alla cultura giuridica europea. Ai suoi margini, pertanto, possono collocarsi questi argomenti introduttivi: come esercizi mnesici, essi intendono ricordare che la memoria collettiva può sempre tradursi – attraverso il diritto e i diritti – in regole per l’azione.
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