Il caso Paradiso e Campanelli ovvero la Corte europea contro i “pregiudizi” dei giudici nazionali
Alessandra Viviani è professore associato di Tutela internazionale dei diritti umani presso l’Università di Siena
La decisione Paradiso e Campanelli contro Italia del 27 gennaio 2015 si segnala come una nuova tappa del dialogo fra Corte europea dei diritti dell’uomo e giudici italiani in materia di rispetto del diritto alla vita privata e familiare, garantito dall’art. 8 CEDU. Si tratta di una decisione complessa che sfiora punti molto sensibili nell’attuale dibattito interno e internazionale in merito alle forme di genitorialità ed al diritto a divenire genitori. Tuttavia, a nostro avviso, questa decisione si segnala assai favorevolmente per aver ribadito, ancora una volta si deve purtroppo osservare, la scarsa volontà dei tribunali italiani di mettere al centro delle loro valutazioni il supremo interesse del minore, così come invece richiesto sia dalla nostra adesione alla Convenzione sui diritti dei bambini e degli adolescenti delle Nazioni Unite del 1989, sia dalla costante giurisprudenza degli stessi giudici di Strasburgo.
I fatti della causa sono abbastanza semplici. I coniugi Campanelli si rivolgono ad una clinica russa per poter procedere in Russia alla fecondazione assistita eterologa e ad una successiva gravidanza surrogata, il c.d. utero in affitto. Per la signora Paradiso non è infatti possibile concepire né portare a termine la gravidanza, come hanno dimostrato vari tentativi di fecondazione in vitro precedentemente effettuati in Italia. Ella si reca quindi in Russia portando il liquido seminale del marito. La procedura medica si svolge con successo e la madre surrogata partorisce un bambino; lo stesso giorno ella dichiara, secondo quanto previsto dalla normativa nazionale, di dare il consenso alla iscrizione nei registri dello stato civile del neonato come figlio dei signori Campanelli. Ai coniugi Campanelli viene affidato così il bambino che, sul certificato rilasciato dalla competente autorità, risulta loro figlio senza che vi sia menzione del fatto che è stato partorito dalla madre surrogata. Con questo certificato la signora Paradiso si reca al nostro Consolato per ottenere i documenti necessari per l’espatrio del bambino e giunge in Italia il 30 aprile 2011, due mesi dopo la nascita del piccolo.
A questo punto i coniugi Campanelli chiedono la trascrizione del certificato di nascita nel registro dello stato civile del comune di residenza, ma si vedono rifiutare la richiesta. Il Consolato di Mosca ha infatti trasmesso gli atti sia al tribunale dei minori competente per territorio, sia al Comune sostenendo che il certificato contiene dati falsi. I coniugi Campanelli vengono così indagati per i reati di falso di cui agli art. 479 e 489 cp. Allo stesso tempo, il Tribunale dei minori di Campobasso inizia un procedimento per la dichiarazione dello stato di abbandono e adottabilità del minore. Nel corso del procedimento il Tribunale ordina un test del DNA, dal quale risulta che il bambino non è figlio biologico del ricorrente. A seguito di ciò il Tribunale dei minori il 20 ottobre del 2011 decideva per l’immediato allontanamento del minore dalla casa dei ricorrenti, la cessazione di qualunque relazione con questi ultimi e poneva il bambino in una casa famiglia, da cui egli uscirà solo alla fine di gennaio del 2013 per essere affidato ad una nuova famiglia. A nulla valgono i ricorsi dei Campanelli né di fronte al Tribunale dei minori né rispetto al rifiuto di trascrizione.
Nel loro ricorso alla Corte europea i coniugi Paradiso Campanelli lamentano la violazione dell’art. 8 CEDU sia nei loro confronti che in quelli del bambino. Tuttavia la Corte non ritiene che essi possano agire per conto del minore non avendo alcun titolo giuridico per rappresentarne gli interessi in giudizio, dato che non sono né genitori biologici, né adottivi né affidatari (par. 49-50). La Corte esamina, invece, le doglianze presentate rispetto, da un lato, al rifiuto delle autorità italiane di trascrivere il certificato di nascita e, dall’altro, all’allontanamento del bambino.
È interessante seguire il ragionamento della Corte soprattutto sul secondo profilo di violazione dell’art. 8. In generale possiamo osservare come la decisione risulti particolarmente convincente su entrambi gli aspetti e confermi la rilevanza di questa norma come strumento di effettiva tutela della sfera privata e delle relazioni familiari. Come vedremo, la decisione mostra anche la capacità dei giudici di Strasburgo di non lasciarsi “intimorire” dall’analisi di questioni delicate e complesse, come quelle legate alle tecniche della fecondazione assistita, e di poter giudicare in quest’ambito senza che il pregiudizio influisca sull’analisi dei diritti individuali.
Per quanto attiene al primo punto, i giudici di Strasburgo confermano come la mancata trascrizione del certificato possa essere rilevante nell’ottica dell’art. 8, in quanto misura di ingerenza capace di incidere profondamente sulla vita privata dei ricorrenti. Tuttavia, la Corte ritiene che non possano dirsi esauriti i ricorsi interni, in quanto non vi è stato ricorso in Cassazione contro la decisione di rigetto della Corte d’Appello. In questo modo, in un certo senso, la Corte evita di dover entrare nel merito della valutazione della legittimità del ricorso all’ordine pubblico per impedire il riconoscimento di atti stranieri che legittimano il ricorso alla maternità surrogata. Si deve però osservare come nel corso della decisione la Corte affermi che l’uso della norma sull’ordine pubblico internazionale non è sufficiente a sanare qualsivoglia violazione dell’art. 8 della Convenzione.
L’analisi della Corte è assai più articolata per quanto attiene alla doglianza relativa all’allontanamento del bambino dalla casa dei ricorrenti. Tale misura viene infatti inquadrata quale ingerenza nella loro vita privata e familiare. In primo luogo viene ribadito l’importante principio, ormai più volte affermato nella giurisprudenza della Corte, che l’art. 8 si applica in situazioni in cui vi siano legami familiari di fatto e non solo di diritto (par. 68-69). Poiché i coniugi Campanelli hanno trascorso più di sei mesi con il piccolo, agendo come suoi genitori, è innegabile che tali legami familiari sussistano e siano degni di tutela ex art. 8. In più, secondo la Corte, il fatto che il ricorrente abbia cercato di far riconoscere il proprio legame di parentela con il bambino attraverso il test del DNA, conferma, secondo i giudici, la rilevanza della fattispecie anche sotto il profilo della tutela della vita privata. Non vi è infatti alcun motivo, da un lato, per ritenere che l’assenza di un legame genetico possa influire negativamente sull’esistenza del legame familiare, e, dall’altro, per impedire di considerare l’accertamento di tali legami genetici come rilevante sotto il profilo del diritto del singolo a sviluppare legami con i propri simili. Su questo punto la Corte si è già espressa in altre occasioni, sottolineando come nel concetto di vita privata debba intendersi ricompreso quello di identità personale, ovvero di diritto del singolo a definire se stesso attraverso le relazioni con la società (par. 70). (La Corte ricorda a questo proposito il caso Mikulic c. Croazia del 2002. Viviani, L’identità personale nel sistema della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Editoriale Scientifica, Napoli, 2013).
Quanto alla questione se la misura di ingerenza sia prevista dalla legge, la Corte ritiene che possa essere considerata tale data l’applicazione da parte dei giudici italiani delle norme di conflitto nazionali, al fine di dichiarare lo stato di abbandono e l’adottabilità del minore (par. 72).
Come noto, però, le difficoltà di interpretazione dell’art. 8 risiedono piuttosto nello stabilire se la misura di ingerenza adottata dalle autorità nazionali sia in effetti “necessaria”, o, meglio, operi un corretto bilanciamento fra l’esigenza di tutela dei diritti dell’individuo e gli interessi generali. È pur vero, la Corte ricorda, che in materie delicate, come quelle relative alle scelte nazionali sulla fecondazione assistita, lo Stato gode di un ampio margine di apprezzamento; tuttavia i giudici di Strasburgo fanno un’affermazione interessante sostenendo che in ogni caso, nelle situazioni in cui è coinvolto il minore, l’interesse superiore di questi deve comunque prevalere ed essere l’oggetto principale dell’opera di bilanciamento fra interesse del singolo e quello della comunità (par. 75).
Rispetto alla fattispecie oggetto del ricorso, il parametro del superiore interesse del minore doveva comunque guidare i giudici italiani in due momenti: quello in cui hanno valutato l’esistenza del legame di filiazione fra il ricorrente e il bambino e quello successivo in cui ne hanno deciso l’allontanamento dalla casa familiare. Sul primo aspetto, le modalità che hanno portato alla nascita del piccolo e al suo arrivo in Italia hanno una certa incidenza, ma la Corte, con quello che a noi pare un certo equilibrio, ha ritenuto di non dover esprimere alcun giudizio di valore o di congruità rispetto alla Convenzione europea della legge russa, che appunto consente la fecondazione eterologa e la maternità surrogata e lo sfruttamento economico di queste. Allo stesso modo la Corte non ritiene che la stretta applicazione del diritto italiano al riconoscimento di paternità da parte dei giudici interni, nella parte in cui essi negano tale riconoscimento, poiché non vi è legame biologico fra bambino e presunto padre e la buona fede di quest’ultimo non può essere considerata di valore equivalente al legame effettivo, possa considerarsi una violazione dell’art. 8 (par. 77). In questo senso l’interesse superiore del minore non può dirsi violato. Il fatto però che il diritto italiano in materia di riconoscimento della paternità, anche qualora interpretato restrittivamente, non sia in contrasto con la Convenzione europea non è sufficiente a mettere al riparo da critiche l’operato dei giudici interni.
Punto centrale della decisione della Corte non è, dunque, ragionare in termini di diritto dello Stato a non trascrivere un atto di nascita contrario all’ordine pubblico, in quanto risultato di una procedura sanitaria di dubbia moralità. Non è dato sapere, infatti, leggendo la sentenza, cosa la Corte avrebbe detto se i ricorrenti avessero prodotto il rigetto della domanda di trascrizione della nostra Cassazione. Né si tratta di sindacare sull’applicazione delle norme di conflitto in ipotesi, come quella che qui si commenta, in cui era difficile effettuare una designazione della legge applicabile dato che non si conosceva la cittadinanza del minore. La vera questione è, piuttosto, quella di analizzare come il Tribunale dei minori sia giunto alla decisione dell’allontanamento familiare. Ed è proprio in questa parte della decisione che ci pare che la Corte colga veramente alcuni aspetti essenziali del “pregiudizio” che avvelena il ragionamento del nostro Tribunale.
I giudici di Strasburgo ricostruiscono con estrema lucidità i passaggi che hanno condotto alla decisione di allontanamento. La considerazione principale pare essere stata infatti che i coniugi Campanelli non potessero essere dei “buoni genitori”: essi avevano, infatti, compiuto una serie di “crimini” agli occhi del Tribunale dei minori. In primo luogo, avevano cercato di eludere la normativa italiana in materia di fecondazione assistita recandosi all’estero per una procedura vietata in Italia, ed è interessante notare che la stessa Corte europea ricorda che tale normativa è stata considerata costituzionalmente illegittima proprio nella parte in cui impedisce la fecondazione assistita eterologa. In secondo luogo, i ricorrenti avevano dichiarato il falso, affermando che il bambino era loro figlio, e nessun riguardo è dato al fatto che tale era stato dichiarato dalle autorità russe e che il ricorrente era oltretutto convinto di essere il padre biologico. La Corte europea si sorprende che i giudici abbiano fatto simili affermazioni senza neppure attendere gli esiti del procedimento penale a carico dei ricorrenti. In terzo luogo, questi ultimi avevano cercato di frodare le norme in materia di adozione e, anche in questo caso, nessun rilievo è stato dato dal giudice interno al fatto che i coniugi Campanelli erano stati a suo tempo dichiarati idonei all’adozione secondo la legge italiana. Insomma, secondo i giudici italiani, i ricorrenti vedevano il bambino soltanto come un mezzo per soddisfare le loro aspettative narcisistiche. Nessuna considerazione viene data al fatto che per anni la ricorrente aveva tentato la fecondazione in vitro in Italia o atteso invano l’arrivo di un bambino da adottare. In un certo senso, secondo la Corte, i giudici italiani sembrano affermare: chi va all’estero per la fecondazione eterologa o la maternità surrogata è per ciò stesso incapace e inadatto ad essere un genitore. Anzi, è talmente pericoloso che i minori devono essere immediatamente allontanati e destinati alle assai più amorevoli cure di una casa famiglia.
Questo tipo di approccio non può esser condiviso dai giudici di Strasburgo, che ribadiscono alcuni elementi essenziali in materia di interpretazione dell’art. 8, margine di apprezzamento e tutela dell’interesse del minore. In primo luogo essi affermano che considerazioni di ordine pubblico internazionale non offrono carta bianca alle giurisdizioni nazionali e non le esimono dal considerare quale sia, nel caso di specie, l’interesse superiore del minore (par. 79). In particolare, poi, l’allontanamento deve sempre essere considerato come una misura estrema e adottato quindi solo laddove vi sia un pericolo grave ed imminente per il benessere del bambino (par. 80). In quest’ottica, incombe allo Stato assicurare che anche la posizione dei genitori sia adeguatamente presa in esame, dato l’impatto che la misura di allontanamento ha sulla loro vita privata e familiare. Nel caso di specie, invece, la decisione era stata presa sul contestabile motivo che lasciare il bambino con i ricorrenti ne avrebbe reso più difficile l’allontanamento in seguito e che essi non erano adatti ad essere genitori per aver fatto scelte non consentite dal diritto italiano, senza tuttavia che alcuna valutazione di esperti sulle loro capacità e sulle relazioni stabilite con il minore fosse condotta (par. 82-84).
È evidente che, di fronte ad una decisione così motivata, la Corte non può che concludere che essa rappresenti una violazione dell’art. 8 nei confronti dei ricorrenti. La Corte sottolinea altresì come la vicenda sia stata condotta in modo da penalizzare il bambino per essere stato concepito in provetta e tramite madre surrogata. Proprio l’assenza di legami genetici con i ricorrenti, infatti, finisce per incidere negativamente sulle possibilità del bambino di crescere con loro, ponendolo in una posizione di svantaggio rispetto ad un neonato sulla cui identità o cittadinanza non esistano dubbi. E questo obiter dictum ci pare un passaggio interessante poiché, a nostro avviso, offre una possibile chiave di lettura della posizione che la Corte potrebbe seguire dovendo decidere nel merito di questioni relative alla natura degli obblighi degli Stati nella tutela dell’art. 8 di fronte a casi di maternità surrogata.
La giurisprudenza italiana non è nuova a censure della Corte europea in materia di tutela dell’interesse dei minori e dei genitori nei casi di allontanamento dalla casa familiare. I giudici italiani sono stati accusati di adottare decisioni stereotipate che non valutano in maniera adeguata i vari elementi di ogni singola fattispecie; in questo senso si può ricordare il caso Errico c. Italia del 24 febbraio 2009 (Viviani, “Patologia dei rapporti familiari e tutela dei minori: l’Italia di fronte alla Corte europea dei diritti dell’ uomo”, in Scritti in memoria di Maria Rita Saulle (a cura di Marchisio et al.), Editoriale scientifica, Napoli, 2014, vol. II). Nel caso che qui si commenta, tuttavia, il quadro che emerge parrebbe ancora più grave perché la mancata valutazione dell’interesse del minore ad essere veramente allontanato da quel nucleo familiare non poggia su meccanismi da automatismo burocratico, ma su un pregiudizio e su una visione di “vita familiare” che non è più in linea con i tempi e certamente non è in linea con l’interpretazione che ne dà la Corte europea quando afferma, come fa correttamente in questo caso, «La notion de “famille” visée par l’article 8 ne se borne pas aux seules relations fondées sur le mariage, mais peut englober d’autres liens “ familiaux” de facto» (par. 67).
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