Vorrei ma è vietato. Note sul “quantitative easing”
Salvatore D’Acunto è professore associato presso la Seconda Università di Napoli
1. «Quantitative easing» è un’espressione pomposa sotto la quale si nasconde una tecnica di gestione della congiuntura vecchia e dai ben noti limiti. Una volta, prima che si affermasse l’imperante costume comunicativo secondo cui qualunque concetto diventa più «cool» se espresso in inglese o se racchiuso in un acronimo sconosciuto ai più, si chiamavano «operazioni di mercato aperto»: acquisti di titoli da parte dell’autorità monetaria finalizzati ad iniettare liquidità nel sistema economico. L’unica vera novità è che, stavolta, l’oggetto delle operazioni di acquisto da parte dell’autorità monetaria non è generico, bensì definito in dettaglio: obbligazioni del debito sovrano degli Stati membri dell’Unione economica e monetaria (UEM). L’obiettivo dell’intervento, come chiarito nel Comunicato stampa della Banca centrale europea (BCE) del 22 gennaio 2015, consiste nell’abbassare i tassi di interesse, così da rendere meno costoso l’accesso al credito da parte di imprese e famiglie e sostenere in tal modo la domanda aggregata.
2. La domanda che in questi giorni tutti gli osservatori si pongono concerne gli effetti che tali operazioni potranno esercitare sulle principali variabili macroeconomiche, e più in particolare su reddito nazionale e tasso di disoccupazione. Qui il discorso sarebbe lungo, e quando i discorsi sugli effetti delle politiche economiche sono lunghi, diventano anche inevitabilmente infarciti di «se». Keynes ha chiarito ormai quasi un secolo fa che la politica monetaria è una tecnica di intervento sulle variabili macroeconomiche ad elevato grado di aleatorietà, perché il nesso che lega la variabile strumentale adoperata dall’autorità (la quantità di moneta in circolazione) e le variabili «obiettivo» (reddito, occupazione) è assai indiretto, e quindi incerto (Cfr. Keynes, pp. 396-97 e 508-509). Perché funzioni, è necessario:
(a) che l’iniezione di liquidità produca effettivamente una caduta dei tassi di interesse sulle attività finanziarie oggetto dell’intervento (nel caso di specie i titoli del debito pubblico), e questo può non accadere se gli operatori hanno aspettative orientate al ribasso dei prezzi dei titoli e quindi hanno tutto l’interesse a trattenere la liquidità immessa nel sistema, piuttosto che usarla per acquistare titoli;
(b) che la (eventuale) caduta del tasso di interesse sulle attività finanziarie specificamente oggetto dell’intervento si trasmetta agli altri tassi di interesse (nel caso di specie, dai tassi sul debito pubblico ai tassi sul debito privato). Anche questa trasmissione può essere evidentemente ostacolata da aspettative negative circa l’andamento futuro del corso dei titoli in questione;
(c) che le (eventuali) cadute dei tassi sul debito pubblico e privato spingano settore pubblico, imprese e famiglie ad espandere la domanda di beni. Ovviamente la catena causativa può spezzarsi anche a questo stadio del meccanismo, se vincoli istituzionali o aspettative negative sull’andamento degli affari consigliano questi soggetti di soprassedere agli acquisti.
3. Come si vede, i «se» sono già molti, e ognuno dei lettori potrebbe provare a valutare quanto ritiene realistico il verificarsi delle condizioni da cui dipende l’efficacia dell’intervento. Io propongo, qui di seguito, solo qualche elemento conoscitivo che può essere di ausilio per orientarsi in tale valutazione.
Circa il punto (a), le aspettative prevalenti tra gli operatori finanziari (decisamente orientate al ribasso) rendono la situazione attuale molto simile a quella che Keynes avrebbe definito «trappola della liquidità» (Cfr. D’Acunto, pp. 144-46): i detentori di titoli (in particolare le banche) si aspettano cadute dei relativi prezzi e quindi cercano di disfarsene. Se arriva sul mercato una banca centrale che se li vuole comprare, le banche sono evidentemente contente di venderli, ma non certo per comprarne altri e rimettere in circolo la liquidità acquisita. Quindi, se la BCE e le banche centrali nazionali scegliessero di compiere i loro acquisti sul mercato secondario, ci sono seri motivi per temere che la liquidità immessa nel circuito possa restare «intrappolata» nelle casse delle banche e degli altri gestori istituzionali di portafogli titoli.
Ovviamente l’autorità monetaria potrebbe aggirare il problema decidendo di acquistare titoli del debito pubblico di nuova emissione, piuttosto che operando sul mercato secondario. In tal modo essa potrebbe by-passare le banche e gli altri gestori di portafogli titoli e far pervenire direttamente la liquidità creata al settore pubblico. Purtroppo, questa strada sembra allo stato attuale preclusa alla BCE, stante l’esplicito divieto previsto dall’art. 123, par. 1, TFUE (sull’argomento, cfr. D’Acunto, Commento all’art. 123 TFUE, in Tizzano, pp. 1317-22). Pertanto, in assenza di ulteriori «strappi» istituzionali che permettano alla BCE di aggirare tale divieto, appare chiaro che l’efficacia della trasmissione degli impulsi monetari ai soggetti di spesa appare legata in maniera cruciale alla fiducia (difficile dire quanto ben riposta) in un atteggiamento “sinergico” da parte delle banche e degli altri gestori di portafogli titoli.
Ma proviamo ad immaginare che il meccanismo di trasmissione degli impulsi monetari funzioni nel modo immaginato dalla BCE e che, a dispetto dello scetticismo diffuso, la liquidità iniettata nel sistema effettivamente determini una caduta dei tassi d’interesse. E’ realistico ritenere che settore pubblico, famiglie e imprese approfittino dell’occasione per ampliare i propri programmi di spesa?
Per quanto riguarda il settore pubblico, la speranza in una ripresa di programmi espansivi è resa assai labile dal framework normativo che regola le politiche fiscali, ossia dai vincoli derivanti dall’art. 126 TFUE e dal Fiscal compact (sull’argomento, cfr. D’Acunto, Commento all’art. 126 TFUE, in Tizzano, pp. 1331-40). In assenza di un cambiamento di indirizzo da parte della Commissione circa le modalità di applicazione di tali norme, i risparmi che gli Stati membri realizzeranno grazie all’alleggerimento dei tassi di interesse sui propri debiti dovranno infatti essere usati non per realizzare politiche fiscali espansive, bensì per ridurre la propria esposizione debitoria al fine di realizzare la convergenza verso la soglia del 60% del valore del PIL prevista dal Trattato.
Per quanto riguarda imprese e famiglie, motivi diversi inducono a nutrire analogo scetticismo. Le aspettative sul futuro sono poco incoraggianti, ed i bilanci di entrambe le categorie di operatori appaiono allo stato attuale appesantiti da significative esposizioni debitorie: proprio la caratteristica situazione in cui tendono naturalmente a prevalere atteggiamenti ispirati ad estrema prudenza.
4. Non c’è quindi molto da aspettarsi dal Quantitative easing sul piano della ripresa economica, a meno di non confidare sull’attivazione di un diverso canale di stimolo all’attività legato ai potenziali effetti inflazionistici della manovra monetaria. Infatti, se l’iniezione di liquidità generasse un po’ di inflazione e spostasse in tal modo ricchezza dai soggetti creditori (che tipicamente sono quelli che hanno la possibilità di fare acquisti, ma non ne hanno il bisogno) ai soggetti debitori (che, al contrario, in genere hanno grande bisogno di fare acquisti, ma non ne hanno la possibilità), essa potrebbe dare senz’altro un impulso rilevante alla domanda aggregata. In effetti, molti studiosi attribuiscono la recessione in corso in Europa alla sperequazione distributiva e al conseguente «strangolamento» (causa indebitamento) delle categorie di operatori (privati e pubblici) tradizionalmente più inclini alla spesa, e auspicano, con modalità diverse, interventi volti ad invertire l’ormai trentennale trend di redistribuzione regressiva (cfr. Fitoussi; Brancaccio e Passarella; Cesaratto). Ci sarebbe poi da aggiungere che le aspettative di inflazione suscitate dall’annuncio del ricorso al Quantitative easing dovrebbero spingere gli operatori finanziari lontano dall’euro, favorendo una caduta del valore della valuta europea verso quotazioni compatibili con una ripresa delle esportazioni verso i Paesi non-euro.
È evidente, tuttavia, che tali effetti potrebbero risultare di dimensioni significative solo se l’impatto redistributivo e/o l’impatto sulla quotazione dell’euro fossero a loro volta di dimensioni significative, il che richiederebbe tassi d’inflazione consistenti. È realistico attendersi una cosa del genere? È realistico ritenere che, di fronte all’accendersi di focolai inflazionistici, la BCE possa lasciare i prezzi aumentare senza opporre resistenza? Confesso il mio scetticismo. È noto che il framework istituzionale definito dall’art. 127 TFUE assegna alla BCE il ruolo di custode della stabilità dei prezzi e che, per prassi ormai consolidata, per stabilità dei prezzi si intende un tasso d’inflazione intorno al 2% annuo (cfr. D’Acunto, Commento all’art. 127 TFUE, in Tizzano, pp. 1340-46). Del resto, lo stesso Draghi ha precisato (Comunicato stampa BCE del 22 gennaio 2015, cit.) che il Quantitative easing si inscrive pienamente nell’esplicazione delle funzioni istituzionali della BCE ed è volto semplicemente a riallineare il tasso d’inflazione al livello del 2% che la BCE considera il proprio target. Il che fa giustamente dire a qualche commentatore che chiedersi se il Quantitative easing «funzionerà» è la domanda sbagliata (cfr. Brancaccio e Fontana).
5. Insomma, temo che il pieno dispiegamento delle potenzialità del Quantitative easing necessiti di altri «strappi» istituzionali (sull’art. 123, sull’art. 126, sul Fiscal Compact e sull’art. 127) e di importanza sostanziale ben maggiore di quelli (abbastanza modesti) che Draghi è riuscito a realizzare in questi due anni. E temo che sarà impossibile realizzare strappi di questa importanza senza un’alterazione sostanziale dei rapporti di forza tra i Paesi membri. Il Quantitative easing sarà pure un «bazooka», come qualche commentatore lo ha pittorescamente definito. Il problema è che (almeno per il momento) ha la sicura chiusa in maniera ermetica.
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