La violenza di Boko Haram in Nigeria e la credibilità del sistema africano di sicurezza collettiva
Federica Musso è dottoranda di ricerca presso l’Università di Macerata
Il recente massacro compiuto nella città di Baga, nel Nordest della Nigeria, è l’ultimo di una lunga serie di gravi atti di violenza ai danni della popolazione civile imputabili al gruppo fondamentalista islamico ufficialmente denominato «People Committed to the Prophet’s Teachings for Propagation and Jihad» e meglio (oltre che tristemente) noto come «Boko Haram». È a partire dal luglio del 2009, infatti, che questa fazione armata lancia offensive nella parte settentrionale del Paese, prima contro obiettivi governativi e poi anche contro la popolazione civile, commettendo violazioni dei diritti umani su larga scala (cfr. il recente statement del Presidente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite); violazioni che, stando a quanto ha affermato il Procuratore della Corte penale internazionale, lasciano supporre che siano stati commessi crimini contro l’umanità di cui all’art. 7 dello Statuto di Roma, in particolare i crimini di omicidio e di persecuzione dettata da ragioni di ordine religioso.
Non sussistono dubbi circa i legami di Boko Haram con gruppi terroristici di matrice islamica (v. la decisione assunta dal Comitato delle sanzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite). D’altra parte, non si deve dimenticare che gli attacchi compiuti da questa fazione armata, il cui obiettivo in ultima istanza è quello di istituire in Nigeria uno Stato islamico, si inseriscono in un contesto dove la dimensione religiosa si intreccia con l’emarginazione economica e sociale delle regioni settentrionali del Paese. Ad oggi, le misure adottate dal Governo nigeriano nel tentativo di risolvere la crisi – dal dialogo instaurato con gli esponenti di Boko Haram alla creazione di reparti militari speciali per ristabilire l’ordine sui territori del Nord (v. Agbiboa e Maiangwa, pp. 78-86) – si sono rivelate insufficienti. Quanto avvenuto nella città di Baga ne è una prova.
Questo drammatico scenario induce a soffermarsi sulla risposta offerta dal complesso sistema africano di sicurezza collettiva, le cui diverse componenti, continentali e sub-continentali, sono state istituite al fine di concretizzare il principio «African solutions for African problems» (cfr. Mays). Il riferimento, in questo caso, è alla Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (ECOWAS) e all’Unione africana (UA). Trattasi, infatti, di organizzazioni regionali dotate di ambiziosi meccanismi volti alla prevenzione e alla risoluzione dei conflitti nel continente. La Nigeria è Membro di entrambe.
Considerati gli ampi poteri di intervento in materia di pace e sicurezza attribuiti all’ECOWAS e all’UA, desta qualche perplessità la reazione scarsamente incisiva delle due organizzazioni alle atrocità commesse da Boko Haram. Nel caso dell’UA tale perplessità è ancora maggiore, se si considera che uno dei motivi ispiratori del passaggio dall’Organizzazione dell’Unità africana all’UA è stato il desiderio di evitare che si ripetessero tragedie analoghe al genocidio ruandese.
Poche righe sono sufficienti per descrivere le iniziative assunte dall’ECOWAS e dall’UA. In entrambi i casi, infatti, non ci si è spinti al di là di una manifestazione di preoccupazione per la situazione in cui versa il Nordest della Nigeria e di una condanna dei crimini commessi da BokoHaram. L’Autorità dell’ECOWAS, in un comunicato del 15 dicembre 2014, «expresses deep concern over the continuing terrorist attacks of the Boko Haram group in Nigeria, and expresses its sympathy with the Government and people of Nigeria as well as to the families of victims of the recent terrorist attacks in the North of the country». Di analogo tenore è il comunicato adottato dal Consiglio per la pace e la sicurezza dell’UA in data 25 novembre 2014, contenente una«strong condemnation of the abhorrent terrorist attacks … carried out by Boko Haram over the past few years, killing hundreds of people, wounding many others and leading to significant displacements of populations both within the affected areas in Nigeria and in the neighboring countries»(v. Communiqué of the 469th meeting of the Peace and Security Council).
Senza dubbio si potrebbe scrivere molto di più su ciò che tali organizzazioni avrebbero potuto fare – e sinora non hanno fatto – per far fronte a una situazione che lo stesso Consiglio dell’UA, nel comunicato appena menzionato, ha definito «a serious threat not only to Nigeria but also to the region and the continent as a whole».Vediamo.
Il verificarsi di una crisi umanitaria costituisce uno dei presupposti per l’attivazione dei sistemi di sicurezza collettiva dell’ECOWAS e dell’UA. Nello specifico, il ricorrere di un simile presupposto abilita le due organizzazioni ad adottare misure di carattere militare: la possibilità di intervenire in conflitti interni caratterizzati da gravi violazioni dei diritti umani è espressamente contemplata tanto dal Protocollo dell’ECOWAS istitutivo del Meccanismo per la prevenzione, la gestione e la risoluzione dei conflitti (art. 22, lett. c) quanto dall’Atto istitutivo dell’UA (art. 4, lett. h).
Non sono chiare le ragioni che sono alla base dell’inerzia delle due organizzazioni regionali. Certo è che l’intraprendenza da esse manifestata in occasione di altre crisi interne –per gestire le quali, si noti bene, i governi interessati avevano avanzato richieste di assistenza alle forze regionali o quantomeno avevano acconsentito a che operassero nel proprio territorio –lascerebbe supporre che rispetto alla crisi di cui qui ci occupiamo sia mancata, ad oggi, la volontà delle autorità territoriali di permettere l’intervento di una forza di pace dell’ECOWAS o dell’UA. Se così stanno le cose, occorre chiedersi se le due organizzazioni possano superare l’ostacolo rappresentato dall’assenza del consenso del Governo nigeriano.
Significative misure militari di natura coercitiva sono previste sia in ambito ECOWAS che in ambito UA per prevenire gravi violazioni dei diritti fondamentali. L’art. 22 del Protocollo dell’ECOWAS succitato annovera, tra le modalità di intervento dell’organizzazione, la «humanitarian intervention in support of humanitarian actions». Tale disposizione va letta congiuntamente (per mettere in luce il carattere anche potenzialmente coercitivo dell’intervento) al documento intitolato «Ecowas Conflict Prevention Framework», nel quale l’organizzazione si dichiara «imbued with the necessary supranational powers … as well as the legitimacy to intervene to protect human security in threedistinct ways», tra cui «actions taken in response to grave and compelling humanitarian disasters» (par. 41).Certezze in merito al carattere coercitivo che possono assumere le azioni dell’UA a difesa dei diritti umani sono offerte dalla lettera dell’art. 4, lett. h, dell’Atto istitutivo, che prevede il diritto dell’organizzazione di intervenire in uno dei suoi Stati membri in caso di commissione di crimini contro l’umanità, crimini di guerra o genocidio, ed è chiaro che non è escluso un intervento di carattere “preventivo” rispetto a qualsiasi accertamento in sede penale.
Considerata la gravità della situazione in Nigeria, dovuta agli atti di violenza di Boko Haram e ai numerosissimi sfollati, sorprende che le norme menzionate non solo non abbiano trovato alcuna applicazione ma non siano, a quanto pare, neppure evocate nei comunicati pertinenti. L’ECOWAS e l’UA avrebbero potuto chiedere a Boko Haram un immediato cessate il fuoco, con l’ammonimento che, in caso di mancato adempimento, si sarebbero adottati«all necessary means», compreso evidentemente l’uso della forza, ferme restando le prerogative del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
Una simile decisione, oltre che trovare un chiaro fondamento giuridico negli strumenti normativi dell’ECOWAS e dell’UA, sembrerebbe essere coerente con la presa di posizione del Consiglio di Sicurezza in merito alla crisi nigeriana, definita mediante lo statement presidenziale sopra citato. Il documento fornisce, infatti, qualche spunto di interesse circa il configurarsi del rapporto tra sistema di sicurezza collettiva universale (ONU) e sistemi regionali africani, ove prende nota della decisione assunta dalla Commissione del Bacino del Lago Ciad (LCBC) di istituire una «Multinational Joint Task Force» incaricata di coordinare le operazioni militari contro Boko Haram e incoraggia l’adozione delle misure necessarie a renderla operativa. In particolare, questi passaggi paiono confermare la generale consapevolezza delle Nazioni Unite in ordine alle potenzialità delle organizzazioni regionali e all’importanza del loro contributo al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale in quanto «well positioned to understand the causes of armed conflicts owing to their knowledge of the region», quale si desume dalle risoluzioni adottate dal Consiglio di sicurezza in materia (v., da ultimo, risoluzione n. 2167 del 2014).
La mancata reazione alla crisi nigeriana e, segnatamente, agli atti di violenza di Boko Haram, non depone però a favore della credibilità dell’ECOWAS e dell’UA, per ciò che concerne l’esercizio del loro ruolo di tutori della pace e della sicurezza in Africa, specialmente quando l’azione collettiva non è “assistita” dal consenso dello Stato territoriale. Più della scarsità di risorse finanziarie ed umane, alla quale si è soliti imputare l’inefficacia degli ambiziosi (sulla carta) meccanismi posti a tutela dei diritti umani nel continente africano, sembra che sia la difficoltà di esprimere una volontà politica precisa all’interno degli organi competenti a impedirne il funzionamento. Una volontà politica che non riesce a prendere corpo quando le crisi umanitarie hanno luogo in uno Stato che si dimostra contrario al dispiegamento nel proprio territorio di una forza regionale, tanto più se lo Stato in questione è particolarmente influente, come – è appena il caso di dirlo – la Nigeria. In ragione del suo peso economico (è la prima economia africana) e demografico (trattasi del Paese più popoloso del continente) la Nigeria rappresenta una potenza dominante in seno all’ECOWAS e all’UA. Non solo, infatti, costituisce uno dei maggiori finanziatori delle due organizzazioni, ma con le proprie forze armate contribuisce in larga misura alle missioni di pace che le organizzazioni stesse di volta in volta istituiscono negli Stati membri. Non sorprende, dunque, che la Nigeria sia in grado di condizionare le scelte di ECOWAS e UA, a fortiori se tali scelte la riguardino direttamente.
Infine, vale la pena soffermarsi brevemente sulle motivazioni che potrebbero essere alla base della mancata richiesta di assistenza indirizzata all’ECOWAS o all’UA da parte del Governo nigeriano. A tal proposito, non va trascurato che le forze di sicurezza nigeriane sono accusate dalle organizzazioni umanitarie della commissione di gravi violazioni dei diritti umani nell’ambito delle operazioni condotte contro Boko Haram (v. i rapporti di Amnesty International e Human Rights Watch). Si potrebbe allora supporre che la contrarietà del Governo al dispiegamento di una forza di pace regionale rifletta l’esigenza di evitare che le attività dei contingenti dell’ECOWAS o dell’UA possano essere condotte contro le stesse forze nigeriane, se e quando queste si apprestino a violare i diritti umani?
Comunque sia, la crisi umanitaria in Nigeria rivela la difficoltà delle due organizzazioni africane di imporsi agli Stati membri che rivestono il ruolo di potenze regionali. Se, sulla carta, tali organizzazioni non ritengono indispensabile il consenso del sovrano territoriale per intervenire militarmente in caso di gravi violazioni dei diritti umani, i fatti mostrano purtroppo una connessione inversamente proporzionale tra l’esercizio dei poteri sovranazionali in questione e l’importanza dello Stato membro interessato. Il rischio è che il sistema africano di sicurezza collettiva perda la sua credibilità come garante della c.d. «sicurezza umana» in Africa, proprio mentre il sistema “universale” che fa capo alle Nazioni Unite – come dimostra il già citato statement del Presidente del Consiglio di Sicurezza – sembra incline a riconoscergli un ruolo di primissimo piano.
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