Il Parere 2/13 della CGUE sull’adesione dell’UE alla CEDU: scontro fra Corti?
Lucia Serena Rossi è professore ordinario di diritto dell’Unione europea presso l’Università di Bologna
Il 18 dicembre 2014 la CGUE si è pronunciata sul parere sul Progetto riveduto di accordo, presentato a Strasburgo il 10 giugno 2013, relativo all’adesione dell’Unione alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Quelli che seguono sono alcuni commenti “a caldo”, che non hanno ovviamente la pretesa di esaurire tutti gli aspetti della questione, sicuramente complessa, dell’adesione dell’UE alla CEDU. Dati i limiti spazio-temporali della presente analisi, mi limito a citare solo gli aspetti del parere che suscitano il maggior numero di perplessità.
Occorre dire che, proprio alla luce della complessità del problema, sembrava probabile che la Corte pronunciasse un “ni”, dettando una serie precisa di modifiche da apportare al progetto di accordo e alle macchinose soluzioni da esso previste. La CGUE ha invece enunciato una sfilza di no, facendo sostanzialmente tabula rasa dell’accordo e del negoziato sin qui svolto.
Il parere, emesso ai sensi dell’articolo 218, paragrafo 11, TFUE, era stato richiesto dalla Commissione UE, vale a dire dalla stessa istituzione che aveva condotto il negoziato. Peraltro, se non lo avesse richiesto la Commissione, sicuramente lo avrebbe fatto qualche Stato membro (in primis, anche se per diverse ragioni, Francia e Regno Unito). Se la Corte avesse dato un parere positivo, l’accordo avrebbe ancora dovuto superare, secondo l’art.218,6 TFUE, l’approvazione del PE, un voto unanime in Consiglio, previa approvazione da parte degli Stati membri secondo le loro regole costituzionali, nonché ovviamente la ratifica di tutte le parti contraenti. Nel negoziato la Commissione aveva potuto tenere conto delle posizioni manifestate dalla stessa CGUE (v. in particolare il documento di riflessione della CGUE presentato il 5 maggio 2010, la Comunicazione comune dei presidenti della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte di giustizia dell’Unione europea, pubblicata il 24 gennaio 2011, http://curia.europa.eu/jcms/jcms/P_64268/ .
Nella causa erano intervenuti il Consiglio e tutti gli Stati membri, esprimendo una ridda di dubbi e posizioni, spesso dissonanti, volti a condizionare, ciascuno a modo suo, l’interpretazione dell’accordo e il prosieguo del negoziato. Nessuno degli Stati membri aveva tuttavia manifestato radicale contrarietà, cosa che peraltro sarebbe stata difficile perché con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (art 6 TUE) l’adesione alla CEDU è divenuta un vero e proprio obbligo per l’UE.
L’avvocato Generale Kokott, nella sua presa di posizione del 13 giugno 2014, aveva concluso che il progetto di accordo poteva essere compatibile con i Trattati, purché fossero garantite, con modalità vincolanti ai sensi del diritto internazionale, una serie di condizioni: a) che l’UE e i suoi Stati membri, in vista delle loro eventuali domande di intervento in giudizio in veste di convenuti aggiunti ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 5, del Progetto di accordo, siano sempre e tempestivamente informati in merito a tutti i ricorsi pendenti dinanzi alla Corte EDU; b) che le domande proposte dall’UE e dai suoi Stati membri ai sensi dello stesso articolo per ottenere l’autorizzazione ad intervenire in giudizio in veste di convenuti aggiunti non vengano sottoposte ad alcun esame di plausibilità da parte della Corte EDU; c) che il previo coinvolgimento della Corte di giustizia dell’Unione europea ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 6, del Progetto si estenda a tutte le questioni giuridiche relative all’interpretazione delle norme del diritto primario e del diritto secondario dell’Unione in conformità alla CEDU; d) che si possa soprassedere all’instaurazione di una procedura di previo coinvolgimento ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 6, soltanto qualora sia evidente che la CGUE si è già occupata della questione giuridica concreta che costituisce l’oggetto del ricorso pendente dinanzi alla Corte EDU; e) che il principio della responsabilità congiunta del convenuto e del convenuto aggiunto previsto dall’articolo 3, paragrafo 7, del Progetto non pregiudichi eventuali riserve formulate dalle Parti contraenti della CEDU ai sensi dell’articolo 57 di tale convenzione, e f) che, inoltre, in nessun caso la Corte EDU possa discostarsi dal principio della responsabilità congiunta del convenuto e del convenuto aggiunto per le violazioni della CEDU da essa constatate.
L’AG, pur riscontrando una serie di problemi, vertenti sui meccanismi del co-respondent e del prior involvement, lasciava insomma la porta aperta, suggerendo una serie di interpretazioni/modifiche dell’accordo che avrebbero potuto essere rinegoziate. Certo non vi era nessuna certezza che le altre Parti contraenti le avrebbero poi accettate, ma in caso di risposta negativa almeno la responsabilità politica del fallimento del negoziato non sarebbe stata dell’UE
La Corte ha ritenuto invece che il progetto di accordo non sia compatibile né con l’articolo 6, paragrafo 2, TUE, né con il Protocollo (n. 8) relativo all’articolo 6, paragrafo 2, TUE, non solo per motivi collegati ai due meccanismi sopra citati, ma anche per ragioni che, seppure implicitamente, mettono in discussione la compatibilità dei due sistemi, il contenuto essenziale della CEDU e, in ultima analisi, le ragioni per una adesione dell’UE alla stessa.
Questa volta la Corte non ha potuto archiviare l’adesione alla CEDU, come aveva fatto nel 1996 con il parere 2/94, semplicemente negando l’esistenza di una base giuridica nel Trattato, dato che gli Stati membri l’avevano appositamente introdotta con il Trattato di Lisbona nell’art.6,2 TUE. La Corte si è quindi addentrata nell’analisi del progetto di accordo, riscontrando profili di incompatibilità in tutti i punti più salienti dello stesso.
La Corte riafferma, in via preliminare, la peculiarità dell’ordinamento giuridico dell’Unione (paragrafi 157-158): “i Trattati fondativi dell’Unione hanno dato vita, diversamente dai trattati internazionali ordinari, ad un ordinamento giuridico nuovo, dotato di proprie istituzioni, a favore del quale gli Stati che ne sono membri hanno limitato, in settori sempre più ampi, i propri poteri sovrani, e che riconosce come soggetti non soltanto tali Stati, ma anche i cittadini degli stessi” (sentenze van Gend e Costa, nonché parere 1/09)…. “La circostanza che l’Unione sia dotata di un ordinamento giuridico di nuovo genere, avente una sua specifica natura, un quadro costituzionale e principi fondativi che sono suoi propri, una struttura istituzionale particolarmente elaborata, nonché un insieme completo di norme giuridiche che ne garantiscono il funzionamento, determina delle conseguenze quanto alla procedura e ai presupposti per un’adesione alla CEDU”.
Tale peculiarità richiede quindi adattamenti specifici della CEDU, la quale è stata concepita per l’adesione di Stati e non di ordinamenti come quello dell’UE. In particolare è necessario che l’adesione alla CEDU non incida sulle caratteristiche specifiche dell’UE, sul diritto della stessa e su quella che la CGUE chiama “la struttura costituzionale” dell’UE, che si riflette nella ripartizione delle competenze fra quest’ultima e i suoi membri e nel quadro istituzionale (par.165). La Corte parla di “una rete strutturata di principi” e di “una serie di valori comuni”, che giustificano “l’esistenza di una fiducia reciproca fra gli Stati membri quanto al riconoscimento di tali valori e, dunque, al rispetto del diritto dell’Unione che li attua” (par 168). Per garantire la preservazione di tale ordinamento i Trattati hanno istituito un sistema giurisdizionale basato sulla CGUE e i giudici nazionali, in rapporto di leale cooperazione.
Da queste condivisibili premesse la Corte trae però conclusioni alquanto discutibili, in base alle quali il progetto di accordo non tutela in maniera sufficiente le peculiarità dell’UE.
Si può rilevare che tutte le critiche formulate riguardano, seppure sotto diverse angolazioni, il ruolo che verrebbe ad acquistare, per effetto dell’adesione, la Corte EDU, in relazione a quello della stessa CGUE. In effetti la CGUE trasforma in un’incompatibilità fra ordinamenti quello che si potrebbe profilare come uno scontro fra Corti.
Innanzitutto la Corte riprende quanto aveva affermato nella sentenza Melloni: gli Stati membri non possono invocare standard di tutela dei diritti più alti di quelli dell’Unione quando, in un settore ove sia intervenuta un’armonizzazione, sia in gioco l’applicazione -e dunque il primato- di una norma dell’UE. La CGUE pretende che l’accordo di adesione precisi che l’art. 53 della Carta dei diritti fondamentali possa essere interpretato nel senso che la Carta costituisca uno standard massimo (anziché minimo) qualora un settore del diritto dell’Unione sia stato armonizzato, in modo tale che l’invocazione della CEDU non pregiudichi il primato o l’applicazione del diritto dell’UE.
La Corte sembra dunque esigere una dichiarazione di equivalenza a priori fra gli standard dell’UE e quelli della CEDU. Questo, certo non sarebbe facile da accettare per gli Stati terzi. Non si vede infatti come una tale pretesa potrebbe essere garantita da un accordo senza snaturare l’essenza stessa della Convenzione europea. La mutua fiducia nei rispettivi standard può avere un senso per gli Stati membri dell’UE, ma non si vede come possa averne nei confronti di Stati terzi, con cui si creerebbero non solo evidenti asimmetrie, ma anche imbarazzanti questioni di reciprocità.
La CGUE richiama la sentenza Melloni anche per illustrare un altro rischio: che gli Stati membri invochino nei rispettivi rapporti e davanti al Giudice di Strasburgo la CEDU, in violazione dell’art 344 TFUE, a norma del quale gli Stati membri si impegnano a non sottoporre una controversia relativa all’interpretazione o all’applicazione dei Trattati a un modo di composizione diverso da quelli previsti da questi ultimi.
La Corte aveva già in passato dimostrato avversione per qualunque interferenza proveniente da giudici esterni al sistema UE. Secondo una costante giurisprudenza, un accordo internazionale non può pregiudicare l’ordinamento delle competenze stabilito dai Trattati e, di conseguenza, l’autonomia del sistema giuridico dell’Unione, di cui la Corte garantisce il rispetto (v., ad esempio, i pareri 1/91 e 1/00 e le sentenze Commissione/Irlanda, e Kadi. Anche in questo parere la Corte sembra identificare la tutela delle proprie esclusive competenze giurisdizionali con la tutela dell’ordinamento stesso dell’UE.
In realtà non solo, come aveva rilevato l’Avvocato Generale, un tale rischio potrebbe essere scongiurato inserendo nell’accordo di adesione una clausola specifica, ma si può ritenere che il sistema dell’UE abbia già al suo interno un rimedio contro tale evenienza, consistente in un ricorso di infrazione per violazione degli artt. 4 TUE (principio di leale cooperazione) e 344 TFUE.
Considerazioni simili si potrebbero proporre anche in relazione ad un ulteriore problema, che la CGUE intravede nel progetto di accordo, relativo al meccanismo di cui al Protocollo n. 16 alla CEDU (peraltro non oggetto di adesione, come ammette la stessa CGUE), che autorizza le più alte giurisdizioni degli Stati a chiedere pareri alla Corte EDU, vale a dire che possa in taluni casi essere utilizzato come un’alternativa al rinvio pregiudiziale (par.196). Basterebbe infatti inserire un richiamo nell’accordo del superiore dovere per i giudici degli Stati membri di non aggirare le procedure previste dal Trattato UE e dalla giurisprudenza della stessa CGUE.
Ulteriori punti critici dell’accordo, secondo la CGUE, sono costituiti dai meccanismi del convenuto aggiunto e del previo coinvolgimento. Tali meccanismi, sicuramente tortuosi e di dubbia efficacia, sono peraltro estranei all’impianto della CEDU e sono stati inseriti nel progetto di accordo proprio per cercare di venire incontro alle peculiari esigenze dell’altrettanto peculiare contraente Unione europea
Quanto al primo meccanismo, secondo la CGUE la Corte EDU potrebbe esercitare un controllo sulla ripartizione di competenze fra UE e Stati membri, in quanto ha una valutazione discrezionale se accettare o menola corresponsabilità dell’UE e di uno Stato membro che ne faccia richiesta. L’obiezione è astrattamente accettabile, ma da un punto di vista sostanziale francamente non si vede perché la Corte Edu dovrebbe rifiutare di coinvolgere una parte che dichiara la propria corresponsabilità, anche perché questo sarebbe pregiudizievole per l’individuo che ha proposto il ricorso.
La CGUE considera insoddisfacente anche il meccanismo del proprio previo coinvolgimento, sia in quanto non garantisce che la CGUE sia sempre adeguatamente informata e coinvolta perchè spetta alla Corte Edu valutare se la CGUE si sia già pronunciata sulla stessa materia, sia per la limitazione di tale coinvolgimento, per quanto riguarda il diritto derivato, alle sole questioni di validità e non anche a quelle di interpretazione. Si tratta in effetti di un punto delicato, su cui anche l’Avvocato Generale aveva segnalato la necessità di una modifica dell’accordo.
Infine, secondo la CGUE, l’accordo non rispetterebbe i principi strutturali del diritto dell’UE riguarda la possibilità che, a seguito dell’adesione, si attribuisca ad un giudice esterno – la Corte EDU- una competenza a pronunciarsi sulla violazione dei diritti in ambito PESC/PESD, materia su cui la CGUE non ha giurisdizione. Si tratta di un ragionamento innanzitutto incongruente: se nei punti precedenti la Corte lamenta possibili interferenze dell’altra Corte con il proprio ruolo, qui non vi sarebbe alcuna interferenza. Fra l’altro se oggi si riconoscesse una competenza in queste materie alla Corte Edu, per gli Stati membri sarebbe difficile un domani (in sede di riforma del Trattato UE) negare una competenza anche alla CGUE. Ma ancora peggio tale ragionamento si presenta da un punto di vista sostanziale, perché seguendo la CGUE si svuoterebbe di contenuto una delle principali ragioni che oggi militano a favore dell’adesione alla CEDU. Nonostante l’astratta applicabilità della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, la mancanza di un pieno controllo giurisdizionale su PESD e PESD rappresenta sicuramente, anche dopo le modifiche introdotte dal Trattato di Lisbona, un vulnus significativo nella protezione dei diritti fondamentali. Infine l’argomento della CGUE appare imbarazzante anche sul piano internazionale. Con quale coerenza potrebbe l’Unione sanzionare Paesi terzi che violano i diritti fondamentali quando essa stessa rifiuta un vaglio di un giudice esterno sul proprio operato internazionale?
Il parere 2/13 fa emergere tutta una serie di contraddizioni e dubbi che vanno al di là dei singoli problemi analizzati dalla Corte.
Questo parere costringe innanzitutto a meditare sulla c.d. tutela multilivello dei diritti. La CGUE fa di tutto per ridurre ai minimi termini il ruolo della Corte EDU: quest’ultima può interpretare la CEDU, ma di fatto non può inserirsi, se non in via del tutto ancillare alla CGUE, nel sistema multilivello di tutela dei diritti dei cittadini dell’Unione europea quando è in gioco una norma di quest’ultima. E ciò nemmeno se è stato lo stesso Trattato di Lisbona a prevedere l’adesione alla CEDU (e dunque, correlativamente, un ruolo per la Corte di tale sistema).
Leggendo questo parere si percepisce una lontananza dallo spirito del Trattato di Lisbona, dal suo disegno complessivo di rendere l’Unione una comunità di valori e diritti più vicina ai propri cittadini e, di fatto, una fatica ad allontanarsi dagli stessi schemi mentali che avevano, quasi vent’anni prima, portato la CGUE a rigettare a priori l’idea dell’adesione alla CEDU con il parere 2/94.
Ci si potrebbe chiedere perché il Trattato di Lisbona prescriva l’adesione alla CEDU proprio nel momento in cui finalmente la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione esce dal limbo della soft law e acquista pieno vigore giuridico. Che bisogno ha, in altre parole, l’UE di aderire ad una Convenzione meno moderna e completa della Carta, per giunta condivisa con Stati che sono probabilmente in gran parte meno democratici di quelli dell’Unione?
La risposta è che l’adesione alla CEDU serve a garantire il controllo esterno. Molti degli Stati membri del Consiglio d’Europa sono dotati di efficaci sistemi interni di protezione dei diritti fondamentali, hanno Costituzioni che sanciscono valori fondamentali e diritti individuali, nonché Corti Costituzionali o supreme che li fanno rispettare. Ma tutti i giudici interni, incluse le Corti Costituzionali o supreme, fanno pur sempre parte di quello stesso ordinamento nazionale, che potrebbe, in nome di interessi o valori sacrificare i diritti individuali. Per questo gli Stati si sono vincolati alla CEDU e le loro Corti costituzionali o supreme non temono l’interferenza della Corte EDU. Per questo continuano ad aggiornare con nuovi Protocolli una Convenzione scritta nel 1949 con il proposito di proteggere gli individui dai loro Stati.
Il controllo esterno è dunque la chiave di volta del sistema e accettarlo è segno di forza, non di debolezza degli ordinamenti nazionali. Ora, quello che emerge con chiarezza dal parere 2/2013, che peraltro come si è visto, si colloca sulla scia di precedenti pareri e sentenze, è che ciò che la CGUE rifiuta è proprio il controllo esterno. Lo teme e lo vede come un’insidia alla coesione e all’autonomia dell’ordinamento giuridico cui appartiene. La tensione fra primato e diritti fondamentali, già presente nelle “relazioni a distanza” fra la CGUE e le Corti Costituzionali e Supreme, e fra i rispettivi ordinamenti dell’UE e degli Stati membri, si ripropone dunque anche nelle relazioni fra ordinamento dell’Unione e CEDU.
Certo è comprensibile che l’Unione sia in una situazione particolare, che la rende più fragile rispetto agli ordinamenti statuali: essa non è (ancora) uno Stato federale, è ancora quell’ ”ordinamento di nuovo genere” emerso dalla sentenza Van Gend del 1963, un ordinamento in transizione, di cui la Corte sente la necessità di affermare come valore supremo l’autonomia dagli Stati membri e dal diritto internazionale.
Ma, come la stessa Corte afferma in questo parere, l’UE è già un sistema costituzionale, dotato di competenze sempre più ampie, in grado di incidere sulla sfera dei cittadini. E proprio per questo che l’adesione alla CEDU segnerebbe una “maturazione costituzionale”, un segno di forza. Paradossalmente, l’autonomia dell’UE nei confronti degli Stati membri ne uscirebbe rafforzata, non indebolita.
In secondo luogo, se non si realizzerà il controllo esterno della Corte Edu rimarrà comunque – e sarà spinto da questo parere a rafforzarsi – il controllo delle Corti Costituzionali o supreme degli Stati membri, le quali fanno dell’identità nazionale e dei diritti fondamentali dei controlimiti che sempre più apertamente contrappongono all’autorità dell’ordinamento dell’UE. Con una differenza: questi controlimiti, enunciati da giudici di diversi ordinamenti, ognuno dei quali riflette le peculiarità dell’ordinamento da cui proviene, non trovano facilmente una sintesi, e costituiscono, per l’ordinamento dell’Unione tanti diversi scogli da aggirare, mentre la Corte Edu può esprimere sui diritti fondamentali una posizione di sintesi.
Occorre infine chiedersi se il rifiuto all’adesione che la CGUE oppone mediante questo parere è davvero sufficiente per mettere l’ordinamento dell’UE al riparo di “incursioni” del sistema CEDU. La Corte forse si illude che i due sistemi procedano come rette parallele, senza mai collidere, ma questa illusione si regge sul self-restraint sin qui dimostrato dalla Corte Edu, che a volte chiude un occhio (o anche tutti e due) in nome del principio di equivalenza. Ma la Corte Edu, dopo questo parere, potrebbe cambiare approccio. Non solo potrebbe colpire ogni Stato membro dell’UE (in quanto membro della CEDU) per aver violato diritti fondamentali in attuazione di direttive o altre norme dell’Unione, ma non si può escludere che, come dimostra il caso Senator Lines, tutti gli Stati membri dell’UE vengano citati davanti alla Core di Strasburgo per aver adottato un atto all’interno delle istituzioni dell’UE.
Certo, si può riconoscere che l’accordo negoziato dalla Commissione probabilmente non era il migliore possibile e non solo perché forse non tutelava pienamente l’autonomia dell’ordinamento dell’UE. I meccanismi da esso previsti avrebbero ritardato e complicato i ricorsi degli individui che chiedono giustizia. Ma la Corte avrebbe potuto limitarsi, come aveva fatto l’Avvocato generale, ad indicare problemi specifici e soluzioni ragionevoli, senza mettere, come ha fatto, in discussione la compatibilità stessa fra i due sistemi.
Si può prevedere che la Commissione, cercherà prima o poi di far ripartire il negoziato, perché così prescrive il Trattato di Lisbona (La Commissione potrebbe in caso contrario essere citata in carenza da qualche Stato membro), ma sembra comunque difficile che gli Stati terzi siano disposti ad accettare tutte le modifiche che questo parere imporrebbe. Ma anche ammesso che si riuscisse ad imporre agli altri contraenti un insieme di condizioni e riserve che soddisfacessero le condizioni imposte da questo parere, verrebbe da chiedersi quale beneficio gli individui potrebbero trarre dall’adesione ad una Convenzione così depotenziata.
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