Norme internazionali generali e principi costituzionali fondamentali, fra giudice costituzionale e giudice comune (ancora sulla sentenza 238/2014)
Pasquale De Sena è professore ordinario di diritto internazionale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
1. Il suggestivo (secondo) post di Lorenzo Gradoni è un’occasione troppo ghiotta perché io la lasci passare, senza approfittarne per aggiungere qualche considerazione ulteriore rispetto al mio primo intervento sulla sentenza 238 della Corte costituzionale. Lo ringrazio, dunque, soprattutto per questo, oltre che per il generoso riferimento personale che mi rivolge in chiusura. Cercherò, peraltro, di essere breve e di concentrami sui punti seguenti: a) la possibilità di pervenire ad diversa soluzione in ordine al contrasto fra norme internazionali generali e principi fondamentali ordinamento costituzionale italiano; b) l’eventuale opportunità di una tale, diversa soluzione sia sul piano metodologico, sia sul piano dei rapporti fra giudice costituzionale e giudice comune. Sul secondo punto, confesso che mi sembra doveroso tornare, anche perché le considerazioni svolte nel mio primo intervento sono appena accennate. In ogni caso, tengo a ribadire il mio apprezzamento per la decisione de qua, soprattutto per il fatto di essere entrata oggettivamente in contrasto con una linea di tendenza che, in tema di immunità degli Stati e crimini individuali, sembra oramai accomunare Corte internazionale di giustizia e Corte europea dei diritti dell’uomo.
2. Per sviluppare il primo punto, vorrei anzitutto ricordare due circostanze che possono risultare banali.
La prima concerne il diritto internazionale generale, cui si riferisce l’art. 10. Quest’ultimo, in quanto diritto non scritto, non può che essere concretamente (ri)costruito dall’operatore giuridico, in particolare dal giudice. Ciò significa che, in assenza di un testo normativo – se si vuole, in assenza di una disposizione – è il giudice che, per definizione, ricava direttamente la norma dalla prassi sociale, rilevante per la fattispecie oggetto del suo giudizio. Nel far questo, egli esercita un ruolo creativo, forse anche più creativo rispetto al caso in cui si trovi, per l’appunto, ad interpretare, stricto sensu, disposizioni (sempre al fine di trarne norme). Rileggendo in tale ottica l’articolo 10, si può allora affermare che fra i suoi significati rientri quello di abilitare l’operatore giuridico interno – in primis, il giudice – a regolare le fattispecie che ad esso si presentino, tramite la ricostruzione e l’applicazione di norme ricavabili dal diritto internazionale generale (“dualisticamente” parlando; tramite la ricostruzione e l’applicazione di norme interne di contenuto corrispondente a quelle ricavabili dall’ordinamento internazionale).
La seconda circostanza riguarda invece il modo di configurarsi del giudizio di legittimità costituzionale nell’ordinamento italiano. Sia in ragione del suo carattere incidentale, sia in considerazione dell’esperienza concreta che sinora ne è stata fatta, si ritiene, oramai pacificamente, che tale giudizio abbia ad oggetto norme (sul punto, con particolare chiarezza, Ruggeri e Spadaro). Ciò è quanto si ricava, in particolare, dalla prassi delle sentenze interpretative, di rigetto e di accoglimento; sentenze, queste ultime, che presuppongono, per l’appunto, che da una singola disposizione risultino scorporabili più norme, corrispondenti ad altrettante interpretazioni di detta disposizione, compatibili (rigetto) o incompatibili (accoglimento) con la Costituzione.
Ebbene, è proprio alla luce di tali circostanze che la soluzione scelta dalla Corte costituzionale nella sentenza 238 – secondo la quale norme internazionali contrastanti con principi fondamentali della Costituzione neppure sono destinate ad entrare nel nostro ordinamento – mi sembra non essere l’unica possibile. Nella decisione 238, pare, infatti, darsi per scontato che l’eventuale presenza nel nostro ordinamento di norme internazionali di tal genere sia radicalmente – ed irriducibilmente – contraddittoria col meccanismo stesso dell’articolo 10, il quale, in una simile eventualità, finirebbe per introdurre (o riprodurre) nel nostro ordinamento norme … incostituzionali, conferendo loro, per di più, rango … costituzionale. Di qui l’idea (non nuova e piuttosto diffusa) che, in simili ipotesi, una questione di costituzionalità, stricto sensu, neppure sarebbe configurabile; e di qui la conclusione, in base alla quale la questione di costituzionalità proposta dal giudice di Firenze deve ritenersi non fondata, pur affermandosi la competenza della Corte a verificare l’esistenza del suddetto contrasto (non fondata, si badi bene, e non inammissibile – malgrado la mancanza di oggetto – proprio per evidenti ragioni di coerenza con tale affermazione).
Se si tiene presente, però, che il giudizio di costituzionalità ha ad oggetto norme, e se si aggiunge che queste ultime, allorché promanino da fonti consuetudinarie, finiscono per essere direttamente ricostruite, ed applicate, da un giudice, non si vede perché esso (giudizio) non possa aver luogo. Non si vede perché, in altri termini, tali norme, ancorché, in ipotesi, incostituzionali, non possano considerarsi presenti nel nostro ordinamento, sulla base del meccanismo di cui all’articolo 10, e, dunque, passibili di esserne espunte (ove le si consideri “nazionalizzate”, per effetto di tale meccanismo: v. qui sotto). Verrebbe anzi da osservare che, in relazione a norme di questo genere, siffatto meccanismo (comunque lo si configuri teoricamente) non potrebbe che operare in modo non “selettivo”, e che la loro contrarietà rispetto a principi fondamentali della Costituzione, lungi dal risultare predeterminabile in astratto (come si fa a dire, per esempio, che la norma consuetudinaria internazionale in tema di immunità degli Stati dalla giurisdizione sia, di per sé, contraria alla Costituzione?), non può che misurarsi in concreto, nel vivo, cioè, della ricostruzione operatane dal giudice, nella prospettiva della loro applicazione.
Ma quali conseguenze si sarebbero potute trarre dall’opinione sopra esposta, con specifico riguardo alla questione risolta dalla Corte costituzionale? A quale esito, in altri termini, quest’ultima sarebbe potuta pervenire, ove l’articolo 10 fosse stato letto nei termini qui appena abbozzati? Se si resta nell’ottica della necessità di un giudizio della Corte, la risposta mi pare piuttosto agevole, nel caso concreto. Una simile impostazione avrebbe condotto all’accoglimento della questione di costituzionalità della norma di diritto internazionale, così come ricostruita dal giudice di Firenze; vale a dire, in quanto norma (di adattamento alla norma internazionale) implicante l’immunità dalla giurisdizione italiana di uno Stato straniero (anche) in relazione a una domanda di risarcimento dei danni derivanti da crimini internazionali. Più esattamente, così configurandosi, la decisione della Corte avrebbe assunto la forma di una sentenza interpretativa di accoglimento. In senso contrario rispetto a tale eventualità, non mi parrebbe sufficiente appellarsi alla circostanza che le norme consuetudinarie, in quanto promananti da un fatto-fonte, non rientrerebbero nella categoria di quelle passibili di un giudizio di costituzionalità. Se è vero che tale giudizio ha, di regola, ad oggetto norme, e se si accede all’idea che le norme consuetudinarie, così come ricostruite dal giudice, risulterebbero “nazionalizzate”, per effetto del meccanismo dell’articolo 10 (secondo una visione “produttivistica” o “nomogenetica” di quest’ultimo), una simile obiezione rivestirebbe un sapore inevitabilmente formalistico. Neppure, d’altra parte, potrebbe sostenersi che l’articolo 10, nel conferire rango costituzionale alle norme internazionali generali, renderebbe inconcepibile un giudizio di costituzionalità sulle medesime. Anche ad attestarsi sull’idea che le norme ricostruite dal giudice in virtù dell’articolo 10, siano, per l’appunto, dotate di rango costituzionale (contra, fra gli altri, Sorrentino e Guastini, secondo i quali l’art. 10 della Costituzione non attribuirebbe a tali norme un rango propriamente costituzionale, consentendo, semmai, di configurarle come parametri di costituzionalità di norme di rango legislativo), la possibilità di sottoporle a un giudizio di costituzionalità non sembra incontrare ostacoli, ove si consideri che la Corte costituzionale è pervenuta ad ammetterla (seppure non prevista dall’art. 134 della Costituzione) per le leggi di revisione costituzionale e per le altre leggi costituzionali, proprio con riferimento ai principi di fondo dell’ordinamento costituzionale (sentenza 1146 del 1988). Chiudendo sul punto, osservo poi che una sentenza interpretativa di accoglimento della questione di costituzionalità, prospettata dal giudice di Firenze, avrebbe, anch’essa, definitivamente espunto dall’ordinamento la norma internazionale sull’immunità degli Stati, nel senso attribuitole da tale giudice; in quanto idonea, cioè, ad impedire l’esercizio della giurisdizione italiana, (anche) in relazione ad azioni di risarcimento di danni derivanti da crimini internazionali. E’ appena il caso di sottolineare, infatti, che, al pari di qualsiasi decisione di incostituzionalità, essa avrebbe vincolato qualsiasi giudice, in ipotesi chiamato a pronunciarsi su una fattispecie implicante l’applicazione di una simile norma, col risultato di bloccare – con riferimento a quest’ultima – il funzionamento del meccanismo predisposto dall’articolo 10.
3. Ciò detto, può concludersi che la prospettiva appena delineata sarebbe stata preferibile, rispetto a quella scelta dalla Corte? Sotto il profilo metodologico, la sua adozione sarebbe stata più coerente, a mio avviso, con la circostanza di cui si è già detto; e cioè, con il fatto (emergente del resto, dalla stessa decisione 238) che la contrarietà a principi costituzionali fondamentali di una norma internazionale generale non è astrattamente predeterminabile, essendo invece destinata ad emergere in concreto, in sede di ricostruzione della medesima … per effetto dell’operare del meccanismo di cui all’articolo 10. D’altra parte, l’adozione di tale prospettiva avrebbe evitato (in conformità alla regola … del rasoio di Occam) di dar vita a una figura atipica di giudizio costituzionale – come osservato da Lorenzo Gradoni – dagli esiti immediati, in ipotesi, sostanzialmente analoghi (v però qui sotto). Inoltre, e sempre sul piano metodologico, l’adozione di siffatta prospettiva avrebbe forse favorito una più compiuta articolazione del bilanciamento fra valori costituzionali in conflitto (ivi compresi, quelli derivanti dall’ordinamento internazionale), in linea con quanto normalmente si verifica in un qualsiasi giudizio di costituzionalità, e a prescindere dagli esiti di tale operazione nel caso concreto (sul punto, v. il mio post precedente).
Ma quid sul piano pratico, particolarmente sul piano dei rapporti fra giudice costituzionale e giudice comune? A questo riguardo le considerazioni da svolgere sono più sfumate.
Non vi è dubbio che la sentenza 238 fornisca, in proposito, un segnale che può suonare ambivalente (com’è oggettivamente dimostrato dalla stessa discussione in corso in questo Blog) , se si considera, come si è già detto, che la Corte, pur dichiarando non fondata la questione di costituzionalità sollevata dal Tribunale di Firenze – in ragione del mancato ingresso della norma oggetto del giudizio nell’ordinamento italiano – non manca di affermare la propria competenza ad occuparsi del contrasto fra diritto internazionale generale e principi fondamentali della Costituzione. Come dovrà allora comportarsi un giudice comune, in un caso simile? Dovrà egli chiedere l’intervento della Corte, in via pregiudiziale rispetto alla ricostruzione e all’applicazione di qualsiasi norma internazionale generale, ogni qual volta un dubbio insorga in proposito? O dovrà procedere, piuttosto, ad una propria valutazione preliminare, volta a comporre il suddetto contrasto, limitandosi a provocare l’ intervento della Corte, solo nelle ipotesi in cui il contrasto risulti inevitabile? Com’è chiaro, la prima variante indicata implicherebbe due conseguenze: per un verso, un potenziale, notevole ampliamento del ruolo della Corte costituzionale, nel quadro della stessa ricostruzione di norme internazionali generali, a scapito del giudice comune; per altro verso, il rischio (connesso) di un potenziale rallentamento dell’adattamento del nostro ordinamento al diritto internazionale generale, sia pure in proporzioni minori di quelle che, notoriamente, avrebbero potuto riguardare, prima della sentenza Granital, le norme comunitarie (molti meno essendo infatti i casi di applicazione di norme internazionali generali). In relazione alla seconda variante, può osservarsi che affidare al giudice comune la valutazione della effettiva portata del conflitto fra norme generali e principi fondamentali della Costituzione, al fine di provocare un eventuale intervento della Corte, significherebbe, evidentemente, riconoscergli un significativo margine interpretativo; margine, quest’ultimo, che, pur avvicinando il ruolo di detto giudice a quello riconosciutogli in ampia parte della letteratura (secondo la quale dovrebbe, per l’appunto, essere quest’ultimo, a disapplicare le norme internazionali generali in contrasto con principi fondamentali della Costituzione), potrebbe tuttavia risultare dissonante rispetto alla competenza rivendicata dalla Corte in argomento. Anzi, se fosse questo lo scenario aperto dalla decisione 238, si potrebbe dire che detta decisione – al di là delle apparenze – risulterebbe ascrivibile, in realtà, al genus della dottrina dell’interpretazione conforme a Costituzione (per tutti: D’Atena). A tale dottrina, che parte dal presupposto secondo cui “l’applicazione della Costituzione non costituisce appannaggio (pressoché) esclusivo della Corte costituzionale”(ibidem), ma anche dei giudici comuni, sono senz’altro riconducibili- è appena il caso di ricordarlo – le sentenze “gemelle” rese dalla Corte nel 2007.
Ora, è chiaro che, a fronte delle questioni appena indicate, la scelta della prospettiva alternativa, abbozzata poco sopra, sarebbe risultata semplificatrice. A parte l’obbligo del giudice a quo, e di qualsiasi altro giudice, di conformarsi a tale pronuncia (v. supra), essa avrebbe senza dubbio comportato, per il giudice comune, l’esigenza di prospettare una questione di costituzionalità della norma internazionale “incriminata”, ogni qual volta egli avesse nutrito il dubbio di un contrasto fra norme internazionali e principi costituzionali fondamentali. Al pari, però, di quanto poco sopra ipotizzato con riferimento al primo dei due scenari potenzialmente aperti dalla decisione 238, siffatta prospettiva avrebbe inoltre determinato, sia un potenziale ampliamento del ruolo del giudice costituzionale ai fini della stessa ricostruzione di norme internazionali generali, sia un potenziale rallentamento dell’adattamento dell’ordinamento italiano a norme di diritto internazionale generale. Non vi è dubbio, infatti, che la prassi delle sentenze interpretative di accoglimento, implichi, come si è già detto, l’imputazione “esclusiva”, in capo alla Corte costituzionale, del compito di offrire un’interpretazione costituzionalmente orientata delle norme dell’ordinamento italiano, sottraendo tale compito al giudice comune, con le conseguenze appena ricordate. Se si ritiene, però (come io stesso ritengo), che anche in relazione al contrasto fra norme internazionali generali e principi fondamentali sia opportuno lasciare spazio al giudice comune, e se si ritiene altresì (ciò che è più incerto) che tale spazio sia compatibile con la sentenza 238 – essendo verosimile il secondo dei due scenari delineati – l’impostazione scelta da tale decisione appare preferibile.
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