Spunti di riflessione sulla sentenza 238/2014 della Corte costituzionale
Pasquale De Sena è professore ordinario di diritto internazionale presso l’Università Cattolica di Milano
1. La sentenza n. 238/2014 della Corte costituzionale è una pronuncia significativa, non solo perché essa si pone in conflitto con la decisione precedentemente resa in argomento dalla Corte internazionale di giustizia, e con gli orientamenti della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in relazione a casi analoghi (da Al Adsani a Jones); ma anche perché la sua adozione sigla una tappa decisiva nella strisciante contrapposizione fra potere giudiziario ed esecutivo, che, sin dall’inizio (e cioè, sin dalla sentenza Ferrini del 2004), ha caratterizzato la vicenda cui essa si riferisce (sul punto, v. sub 2). Molte sono quindi le considerazioni che si potrebbero svolgere. In questa sede, vorrei limitarmi a proporre qualche spunto di riflessione critica su tre aspetti: a) l’effettiva possibilità dell’adozione di una decisione di segno diverso, a fronte degli obblighi discendenti, per l’Italia, dalla sentenza della Corte internazionale di giustizia; b) l’impostazione, data dalla Corte, al rapporto fra Costituzione italiana e diritto internazionale generale; c) l’idoneità dello scenario aperto dalla decisione della Corte costituzionale a condizionare eventuali, successive decisioni della Corte internazionale di giustizia.
2. Per quanto concerne il primo punto, conviene qui ricordare l’opinione secondo la quale, al fine di evitare di entrare in conflitto, non solo con la Germania, ma anche con la sentenza della Corte internazionale di giustizia, la Corte costituzionale avrebbe potuto limitarsi ad adottare una pronuncia “monitoria” nei confronti dell’esecutivo, rigettando le questioni di costituzionalità proposte dal Tribunale di Firenze, ma ingiungendogli, in qualche modo, di procedere a un negoziato, volto ad ottenere forme alternative di compensazione dei danni subiti dai ricorrenti, ad opera dello Stato tedesco (D. Russo). Si può osservare che tale soluzione avrebbe presentato, perlomeno prima facie, una certa ragionevolezza. Oltre ad essere suggerita da esigenze relative ai rapporti internazionali dell’Italia (non solo quelli con lo Stato tedesco, ma anche quelli con le Nazioni Unite), essa avrebbe probabilmente garantito una migliore prospettiva di soddisfazione dei diritti fatti valere dei ricorrenti; diritti, questi ultimi, la cui concreta realizzazione è ancora oggi, con ogni probabilità, destinata ad incontrare difficoltà, sia in sede di individuazione dei beni su cui effettuare l’esecuzione, sia in ragione della presumibile, forte resistenza che la Germania opporrebbe (anche) in questa sede. Tralasciando ogni considerazione sulla praticabilità di un simile modus procedendi sul piano tecnico, può dirsi che la sua adozione fosse davvero realistica? A me pare piuttosto difficile affermarlo, tenuto conto della doppia circostanza, in presenza della quale la sentenza della Corte costituzionale è intervenuta. Mi riferisco alla pronta emanazione, da parte italiana, di una normativa interna per far fronte agli obblighi derivanti dalla sentenza della Corte internazionale di giustizia (finalizzata a bloccare i giudizi interni, e puntualmente dichiarata incostituzionale nella decisione in esame) e alla contemporanea assenza di un’iniziativa diplomatica, apertamente volta ad ottenere forme alternative di compensazione per gli interessati. Dinanzi alla chiara presa di posizione della Corte costituzionale, nonché alla eventualità di soggiacere a un’ulteriore pronuncia sfavorevole da parte della CIG (infra), una siffatta iniziativa potrebbe forse ancora essere intrapresa dal Governo; e ciò, nella prospettiva di pervenire ad un accordo generale di compensazione, fra Italia e Germania, sul presupposto di forme di rinuncia all’esercizio di azioni giurisdizionali da parte degli interessati, in conformità a quanto verificatosi in relazione al caso Princz fra Stati Uniti e Germania: (sulla vicenda, v. F. De Vittor; per l’accordo, cfr. International Legal Materials, 1996, p. 193). Per quanto un accordo del genere non possa certo paralizzare l’esercizio di un diritto costituzionalmente garantito, quale quello alla tutela giurisdizionale (solennemente affermato nella sentenza 238, di cui costituisce il fulcro; v. anche sub 3), neppure da parte di chi decidesse di beneficiarne, esso potrebbe peraltro svuotare di significato concreto il ricorso a tale forma di tutela (depotenziando l’entità delle richieste di risarcimento). D’altra parte, se le compensazioni così disposte risultassero eque ed adeguate, le pretese delle vittime potrebbero dirsi soddisfatte, sia pure per equivalente, in assenza, cioè, di un procedimento di carattere giurisdizionale (sull’assenza di un vero e proprio bilanciamento di interessi nella sentenza della Corte v., però, ancora sub 3). Chiudendo sul punto, deve tuttavia riconoscersi che è piuttosto improbabile che la Germania addivenga ad una simile composizione. A differenza che nel caso Princz, nel cui ambito alcune imprese tedesche rischiavano effettivamente di essere soggette alla giurisdizione statunitense (v. ancora De Vittor), tale rischio appare inferiore nel nostro caso, per di più dopo la sentenza della CIG, e malgrado la pronuncia della nostra Corte costituzionale; basti pensare alle difficoltà, destinate sicuramente a sorgere in sede di esecuzione (trattandosi, in questo caso, di uno Stato straniero), alle quali si è accennato poco sopra, e alla stessa possibilità di provocare un’ulteriore pronuncia della stessa CIG (infra, sub 4).
3. Passando all’impostazione seguita dalla Corte costituzionale in ordine al rapporto fra Costituzione italiana e diritto internazionale generale, è facile osservare che essa è conforme a ciò che generalmente si sostiene nella letteratura rilevante, e nella stessa giurisprudenza costituzionale, in relazione a vicende del tipo di quella in esame. Nel caso di un conflitto fra discipline di diritto internazionale generale e valori costituzionali fondamentali, attinenti alla stessa identità di fondo del nostro ordinamento costituzionale (nella specie, quelli relativi al rispetto dei diritti inviolabili della persona e alla tutela giurisdizionale effettiva di tali diritti), alle suddette discipline neppure è consentito entrare nell’ordinamento italiano (“dualisticamente” parlando: neppure si formano norme di adattamento aventi il medesimo contenuto di tali discipline, in ragione del meccanismo predisposto dall’articolo 10). In tal modo, la Corte costituzionale dà concreta applicazione, per la prima volta, ad un principio già enunciato nella decisione Russel del ’79 (e ribadito nella pronuncia Baraldini del 2001), estendendolo però a qualsiasi disciplina consuetudinaria, a differenza di quest’ultima decisione, che riteneva applicabile siffatto principio alle sole regole consuetudinarie, successive all’entrata in vigore della Costituzione. Nella pronuncia in esame risulta poi chiaramente affermato che la valutazione relativa all’eventuale conflitto fra regole consuetudinarie e valori costituzionali fondamentali spetta alla Corte costituzionale. Sotto questo specifico profilo, nel rivendicare, cioè, la propria competenza a pronunciarsi in proposito, la Corte resta “in asse”, per così dire, con le affermazioni di principio già contenute al riguardo nelle sentenze 348 e 349 del 2007, sia pure ad altro proposito. Essa tende a distaccarsi, invece, dall’opinione di chi ritiene che la suddetta valutazione spetti a qualsiasi giudice, chiamato a dare applicazione a norme o principi di diritto internazionale generale. Dico “tende”, perché, malgrado quanto appena osservato, la possibilità che tale valutazione finisca per essere svolta dal giudice comune (ciò che secondo alcuni era addirittura da considerarsi implicito nell’obiter dictum dedicato alla questione nella sentenza Baraldini) non pare da escludere del tutto, considerato che essa (valutazione) si configura come preliminare all’applicazione di qualsiasi norma internazionale generale; applicazione che, per l’appunto, è ordinariamente effettuata dal giudice comune.
Altro problema è quello di capire se la Corte, indipendentemente dalla matrice chiaramente “dualistica” della sua impostazione, abbia proceduto a un vero e proprio bilanciamento dei principi costituzionali ritenuti rilevanti, con stretto riferimento al caso concreto. A ben vedere, il bilanciamento fra il principio del rispetto della potestà di governo di uno stato straniero e il diritto di accesso al giudice è tracciato in considerazione della sola gravità dei crimini oggetto di giudizio; circostanza, quest’ultima, giudicata insuscettibile di consentire deroghe al diritto alla tutela giurisdizionale, sia pure a fronte delle “ragioni”, proprie della regola tradizionale sull’immunità degli Stati. Una valutazione così condotta non attesta dunque una compiuta adozione dello schema del bilanciamento. Nessun rilievo è stato dato, infatti, nel ragionamento svolto dalla Corte, alla eventualità che la protezione dei diritti dei ricorrenti potesse aver luogo per equivalente, attraverso forme di soddisfazione di detti diritti, alternative rispetto a quelle riconducibili a un ricorso giurisdizionale (forme, peraltro, concretamente insussistenti nel caso di specie: v. sotto); insomma, la posizione dei ricorrenti è stata valutata con esclusivo riferimento alla circostanza della mancanza di tutela giurisdizionale. Allo stesso modo, nessuna considerazione è stata attribuita, nell’ambito di questa stessa valutazione, all’interesse costituzionalmente protetto, dello Stato italiano, a conformarsi ad un principio dell’ordinamento internazionale, cristallizzato in una sentenza della Corte internazionale di giustizia; e cioè, nella decisione di un’istanza giurisdizionale internazionale, incardinata nell’ordinamento delle Nazioni Unite, la partecipazione al quale è prevista, e coperta, dall’articolo 11 della Costituzione. Al di là dell’autonomo rilievo, assunto da tale disposizione nella distinta questione di costituzionalità avente ad oggetto l’articolo 94 della Carta delle Nazioni Unite (di cui qui non mi occupo), la sua considerazione avrebbe dovuto trovar spazio, a mio avviso, anche nella soluzione della prima questione, ove questa fosse stata – per l’appunto – compiutamente affrontata nella logica del bilanciamento fra principi. Peraltro, è doveroso precisare che seppure tale bilanciamento fosse stato compiutamente articolato, esso, con ogni probabilità, non avrebbe potuto condurre a un risultato diverso, nel caso di specie; e ciò, non solo in considerazione del rilievo attribuibile al diritto di accesso alla giustizia nel nostro ordinamento costituzionale, ma anche in ragione dell’assenza di strumenti alternativi di compensazione, in grado di offrire una protezione equivalente ai ricorrenti, nell’ordinamento tedesco.
4. Relativamente all’ultimo aspetto da trattare qui, e cioè all’incidenza, sia pure indiretta, della sentenza della Corte costituzionale su un’eventuale, ulteriore pronuncia della Corte internazionale di giustizia, le considerazioni da svolgere sono tutt’altro che agevoli, anche a causa del loro carattere necessariamente “prospettico”, visto, tra l’altro, che una simile eventualità potrebbe non verificarsi, se (non tanto plausibilmente, per la verità: v. supra) un negoziato fra Italia e Germania conducesse a una ragionevole soddisfazione dei diritti vantati dai ricorrenti, in grado di bloccare i giudizi nei confronti della Germania medesima.
Ipotizzando però che la Corte venga chiamata a pronunciarsi, da parte tedesca, sulla mancata esecuzione della sentenza del 2012 (e che a tal fine sia sufficiente la medesima base giurisdizionale, utilizzata per la prima controversia), ciò non sarebbe facilmente destinato a cambiare i termini di fondo di quest’ultima sentenza. Più esattamente: se è vero che fu proprio la CIG (come ricordato dalla stessa Corte costituzionale italiana) a prefigurare il suddetto negoziato (par. 104 della sentenza), difficilmente, a mio avviso, la constatazione del suo mancato esperimento potrebbe indurla a concludere che l’applicazione della disciplina consuetudinaria in tema di immunità incontrerebbe un limite, in ragione della perdurante mancanza di qualsiasi forma di compensazione per le vittime, conseguente a tale circostanza. In senso contrario rispetto a siffatta possibilità (ventilata da Lorenzo Gradoni) depone il fatto che il riferimento della CIG al negoziato, viene operato in forma … ottativa (rilevandosi che i due Stati “pourraient” procedere in tal senso), piuttosto che in un’ottica … “Solange”. Riconsiderarlo, sic et simpliciter, in quest’ultima ottica, equivarrebbe, insomma, da parte dei giudici dell’Aja, a mutare decisamente prospettiva (passando, cioè, dalla prospettiva della ricostruzione di norme a quello dell’individuazione di principi e del loro bilanciamento nel caso concreto), con la conseguenza di porre sostanzialmente nel nulla la propria precedente pronuncia, favorevole alla Germania. Un simile scenario, per quanto astrattamente augurabile sul piano della tutela dei diritti in gioco (basti pensare a quanto sostenuto anche dal sottoscritto, e da Francesca De Vittor, sin dai tempi della sentenza Ferrini), appare dunque piuttosto improbabile. Sempre ammettendo che la Corte sia effettivamente chiamata a intervenire sul caso in questione, mi sembra che essa potrebbe essere indotta a pronunciarsi su un’altra, significativa questione, che pure si connette alla sentenza 238. E’ del tutto evidente, infatti, che l’inadempimento degli obblighi scaturenti dalla sentenza internazionale del febbraio 2012, che pare costituire la conseguenza necessaria del giudizio costituzionale italiano, pur essendo imposta dall’esigenza di dare attuazione a valori fondamentali della nostra Costituzione, entra in conflitto col tradizionale principio secondo il quale uno Stato non può invocare il proprio ordinamento interno al fine di giustificare un illecito internazionale. Può dirsi però che un simile principio sia destinato a valere, anche quando la violazione sia necessitata, per l’appunto, dal dovere di dare attuazione a principii supremi concernenti la tutela dei diritti fondamentali? Sebbene nulla si desuma a questo proposito, né dalla formulazione dell’articolo 32 del Progetto di codificazione della responsabilità degli Stati, né dal relativo commento, una tale questione potrebbe porsi, se solo si pensa alle indicazioni di carattere più generale, ricavabili, in questi ultimi anni, sia dalla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, nella ben nota sentenza Kadi, sia, più di recente, dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, nella decisione Al Dulimi. Su dette decisioni (la prima delle quali è stata espressamente citata dalla Corte costituzionale) non è opportuno soffermarsi qui, se non per osservare che nel loro ambito l’obbligo di garantire la realizzazione di diritti fondamentali della persona, previsti dall’ordinamento di riferimento, è stato ritenuto prevalente su doveri imposti da atti esecutivi di obblighi internazionali confliggenti (Kadi), ovvero, direttamente prevalente su obblighi internazionali confliggenti (Al Dulimi). Non può negarsi, inoltre, che, da un punto di vista formale, esse differiscono senz’altro dalla decisione della Corte costituzionale, avendo ad oggetto un conflitto fra obblighi internazionali, laddove quest’ultima concerne, invece, un conflitto fra obblighi internazionali e principi costituzionali. Altrettanto innegabile è, però, da un punto di vista sostanziale, che tutti i giudizi in questione tendono a configurarsi come espressione di una ratio comune, costituita, per l’appunto, dall’esigenza di dare attuazione a valori fondamentali degli ordinamenti venuti in rilievo, riguardanti, per l’appunto, la protezione di diritti umani. Né può trascurarsi, con specifico riferimento ai giudizi Kadi e Al Dulimi, che la tendenza da essi espressa è corroborata dalla circostanza che nessuna, rilevante reazione contraria risulta esser stata adottata, né nell’ambito delle Nazioni Unite, né all’esterno dell’organizzazione. Stimolare, ove se ne desse la possibilità, una pronuncia della Corte internazionale di giustizia su questo punto, potrebbe dunque risultare significativo, non solo per la controversia in esame, ma anche, com’è ovvio, per ragioni di carattere più generale.
No Comment