Su Gaza. Tre obiezioni a Lorenzo Gradoni
Gabriele Della Morte è ricercatore confermato di diritto internazionale presso l’Università Cattolica di Milano
Sollecitato dalle questioni poste nel corso di questo appassionato dibattito, nonché da un invito pubblicamente posto da Lorenzo Gradoni, propongo qui alcune riflessioni a margine di una Joint Declaration che condanna i fatti di Gaza, e alle critiche che a tale dichiarazione sono state mosse, e ribadite, da quest’ultimo.
Cercherò di essere sintetico, e di non sovrapporre le mie ragioni a quelle già espresse da Marco Pertile (che, come pubblicamente dichiarato, condivido). Perciò, le riflessioni qui avanzate si concentreranno essenzialmente su tre profili, rispettivamente: 1) Sulle premesse da cui muove il discorso di Gradoni; 2) Sulle conclusioni indotte da alcune esperienze di ‘giustizia penale internazionale’; 3) Sulle conseguenze dedotte in tema di diritto internazionale umanitario.
Mi si permetta di aggiungere che le osservazioni sin qui svolte mi hanno offerto numerosi spunti di riflessione. Ciò nonostante, non ho maturato un’opinione diversa. Lo dichiarerò dunque amichevolmente: caro Lorenzo, questa volta proprio non siamo d’accordo. Tuttavia, sono certo che questo non rappresenti un problema, né simbolizzi alcuna «chiusura comunitaria». Anzi.
Fin qui le ragioni della critica, d’ora innanzi la critica delle ragioni.
1) Sulle premesse del discorso di Gradoni
Le premesse del discorso di Gradoni, per come l’ho inteso, sono quelle per cui il diritto internazionale, lungi dal contribuire a risolvere le questioni, è «parte del problema». Si tratta di un’osservazione incontrovertibile, che in termini strutturali potrebbe essere estesa ad ogni ambito di conoscenze, persino al di fuori del perimetro delle scienze sociali. Non è forse la scienza medica… («le sue norme, le architetture»), parte del problema che concerne la salute? Ma la ragione per la quale tale premessa mi appare fuorviante è più specifica: attraverso di essa si altera l’oggetto dell’analisi abbozzata nell’appello, traslando il piano argomentativo da un discorso di diritto (quello delle violazioni sommariamente indicate nella Joint Declaration) ad un discorso sul diritto (quello dei due post di Gradoni), salvo poi ricondurre da quest’ultimo piano effetti che si manifestano sul primo (v. infra, punto 3).
Né mi convince la valutazione negativa che si attribuisce all’appello «savant alla comunità internazionale e al suo diritto, perlomeno con riferimento ai settori evocati nel documento». Infatti, di enfasi retorica è impregnato tutto il linguaggio del diritto internazionale, a partire proprio dai «settori evocati nel documento», dal «determined to save succeeding generations from the scourge of war» del 1945, al «concerned that this delicate mosaic may be shattered at any time» del 1998 (corsivo aggiunto). A tal riguardo, non mi sembra fuori luogo rammentare che la medesima nascita del diritto internazionale umanitario è dovuta al successo di… un appello! È con una petizione che si chiude la galleria degli orrori narrata in Un souvenir de Solferino (I ed. 1862), attraverso il quale il trentaquattrenne Heny Dunant diede origine al movimento che portò alla nascita della Croce Rossa: «bisogna lanciare un appello […] al maresciallo di campo, come al filantropo o alla scrittore […] per formulare qualche principio internazionale, sacro e convenzionale che, una volta accolto e ratificato, serva da base alle Società di soccorso…».
In sintesi, a me sembra del tutto plausibile che nel corso di un conflitto armato si invochi il parere dei giuristi esperti di tali conflitti (ius ad bellum e ius in bello), così come mi sembrerebbe ragionevole se, nel corso di un’epidemia, si invocasse il parere degli epidemiologi (e questo indipendentemente dal discorso del se l’epidemiologia, nell’intenzione di trasformare il mondo, non l’abbia addirittura peggiorato).
In alcune splendide pagine di Tristi Tropici (VI capitolo, ritorno sul volume in replica ad un commento di Gradoni al I post), Lévi-Strauss ricorda con grande libertà di quanto gli fosse presto giunta a noia la tecnica dell’argomentare e del contro-argomentare… senza mai intaccare il nocciolo – il vero? – delle questioni («avevo appreso che ogni problema, grave o futile, potesse essere liquidato attraverso l’applicazione di un metodo che consiste nell’opporre due visioni […] per giungere infine ad una terza che rivela il carattere egualmente parziale delle precedenti attraverso il ricorso ad un vocabolario che si riferisce ad aspetti complementari della stessa realtà: forma e contenuto, continuo e discontinuo, essere e apparire […]»). Il nostro, che aveva iniziato studiando diritto e filosofia, abbandonerà ogni interesse di questo tipo in favore dello strutturalismo (et alia). Ma, fintanto che si decide di restare nell’ambito del discorso giuridico, non mi sembra vano adoperarne il linguaggio e le categorie.
2) Sulle conclusioni indotte da alcune esperienze di ‘giustizia penale internazionale’
Nel corso del luglio 1998, all’epoca dei negoziati sul Trattato istitutivo della Corte penale internazionale (approvato con 120 voti a favore, 21 astensioni e 7 voti contrari – vale la pena rammentare quali: Cina, Libia, Iraq, Israele, Stati Uniti, Qatar e Yemen), si è certamente assistito ad un eccesso di aspettative relativamente all’emersione del ‘diritto internazionale penale’ (preferisco denominare il settore in questo modo, in omaggio al sistema di fonti, di diritto internazionale, appunto).
Le ragioni di tale esuberanza erano diverse e numerose. Da un lato, si concretizzava un progetto che – fra alterne fortune – aveva attraversato tutto il corso del Novecento; dall’altro, si trattava di un settore à la page. Beninteso, nulla di cui sorprendersi. Il diritto internazionale, come ogni altro ambito, genera periodicamente temi che per un arco di tempo catalizzano un interesse maggiore: basta menzionare, per limitarci al primo decennio di questo nuovo secolo, la lotta al terrorismo, le questioni sottese al cambiamento climatico, le misure di contrasto alla crisi economica internazionale. Oggi, per quanto concerne il diritto internazionale penale, non è più così. Al contrario, il settore gode di «pessima salute», anche perché la sua più compiuta interpretazione istituzionale (la famosa ‘Corte penale internazionale africana’, che tuttavia è già un poco meno africana… se si osserva la situazione dal punto di vista delle Preliminary Examination), ha avuto tutto il tempo per mostrare i propri limiti, strutturali e funzionali. Tra questi ultimi vanno certamente ascritte – come ricordato da Pasquale De Sena in un articolato intervento – le ipotesi in cui la Corte è stato attivata via Consiglio di sicurezza (si citano, al riguardo, i casi Al Bashir e Gheddafi). Alla luce di tali considerazioni, si teme una sorta di eterogenesi dei fini. Se ho compreso correttamente l’obiezione, nella vexata quaestio israelo-palestinese, un ipotetico intervento del Procuratore internazionale potrebbe addirittura radicalizzare gli antagonismi, in luogo di consentire una più facile risoluzione della questione.
L’obiezione è conosciuta da chi si occupa di tali questioni, avendo rappresentato il ‘rumore di fondo’ che ha accompagnato tutti i lavori negoziali sino all’approvazione dello Statuto di Roma, e oltre (se ne udiva ancora l’eco nel 2010 quando, a Kampala, si è discusso di aggressione). Nel corso dei negoziati di Roma ne circolava persino una versione più radicale: era noto l’esempio di una crescente tensione tra due potenze dotate di armamentario atomico che alla vigilia di un accordo di pace venivano a conoscenza dell’intenzione del Procuratore di sottoporre i rispettivi leader a processo (facendo saltare il tavolo dei negoziati). L’organo d’accusa non poteva essere dotato di un potere incontrollato, rectius, incontrollabile! Ed è precisamente sullo sfondo di simili argomenti che si è consumato il Package Deal presentato negli ultimi giorni dei negoziati di Roma, da accettare, o rifiutare, in blocco (in luogo di una discussione articolo per articolo, le questioni relative alla potestà giurisdizionale della Corte sono state oggetto di una proposta unitaria avanzata dal Committee of the Whole, da prendere o lasciare, senza possibilità di modifica). È sulla base di questa rappresentazione dei problemi che – ad esempio – si è abbandonata la lungimirante e condivisa proposta coreana (79% di preferenze nelle votazioni informali) che estendeva – nelle ipotesi in cui la Corte fosse attivata dal Procuratore oppure da uno degli Stati parte al Trattato – l’esercizio della giurisdizione oltre i confini dello Stato territoriale o di quello della nazionalità della persona accusata (includendo anche lo Stato di nazionalità della vittima o ancora quello di detenzione della persona accusata, cfr. A/CONF.183/C.1/L.6). Ed è sempre sulla base di questo tipo di argomentazione che è stato introdotto l’art. 16 dello Statuto di Roma, che attribuisce al Consiglio di sicurezza, «acting under Chapter VII», il potere di sospendere per un periodo di 12 mesi, rinnovabile alle stesse condizioni, «ogni indagine o procedimento».
Gradoni ipotizza una possibile applicazione di quest’ultima norma per impedire il rischio di un «aggravamento del conflitto», domandandosi se se non sia anche questo «diritto internazionale». Certamente lo è. E mi preme aggiungere: è certamente diritto internazionale persino la Risoluzione n. 1422 del 12 luglio 2002 (reiterata con la n. 1487 del 12 giugno 2003) con la quale, meno di due settimane dopo l’entrata in vigore dello Statuto di Roma, si sospendeva ogni azione per i casi concernenti il personale di uno Stato non parte che partecipava ad un’operazione «stabilita o approvata dalle Nazioni Unite» (salvo che… al momento dell’adozione di tale provvedimento non erano nemmeno state avviate le procedure di nomina dei giudici e dell’organo d’accusa! In cosa poteva consistere la ‘minaccia alla pace’, allora, se non in una sorta di minaccia ‘auto-inflitta’, una ‘meta-minaccia’?).
Sono dunque ben d’accordo: tutto questo (e molto altro) è diritto internazionale! Ma come atteggiarsi, in relazione a questo assunto? La posizione critica di Gradoni, se da un lato gli consente di scartare «la celebre dicotomia ormai assurta a ‘icona pop’ degli apologeti versus gli utopisti», dall’altro gli permette di scrutare il fenomeno da una prospettiva in cui «tutto è tenebra», addirittura una «tenebra che l’appello non rischiara. Anzi». Ma questa notte così hegelianamente scura rende davvero tutte le vacche nere e indistinguibili, mentre il lavoro di distinzione mi sembra una condizione imprescindibile del mestiere di giurista. Così, in luogo di accontentarmi di un «anche questo è diritto internazionale», mi associo volentieri ad una produzione di distinzioni in grado di rilevare – ad esempio – che l’uso sino ad oggi compiuto dell’art. 16 destruttura il concetto di «minaccia alla pace» in un modo forse mai raggiunto prima. E desidererei anche aggiungere che tale alterazione è gravida di conseguenze, a partire dal medesimo Statuto di Roma (sino ad espandersi in chissà quali ambiti): se nel corso dei negoziati plenipotenziari si era stabilito –attraverso il cd. Singapore Compromise – che la Corte potesse agire a meno che il Consiglio non ne decidesse la sospensione (in luogo di richiedere un’autorizzazione preventiva al Consiglio)… attraverso il rinvio ad una «minaccia» che non ha alcun riscontro oggettivo, si ritorna ad uno status precedente: la Corte può agire… solo se il Consiglio ne autorizza l’azione.
Ecco, dal mio punto di vista la Joint Declaration si muove in questo solco, allorquando si pone come scopo «to denounce the grave violations, mystification and disrespect of the most basic principles of the laws […]». Illustrare i gangli dell’argomento giuridico, significa indicare le tensioni, le torsioni, persino gli elementi di rottura che rifondano il discorso, ma non significa rinunciare all’uso di una bussola.
Così, diversamente dall’autore della critica, leggendo l’appello non ho ravvisato alcun «culto» della «giustizia penale internazionale» (sulla quale, peraltro, suggerirei una maggiore apertura, non certo di giudizio, ma di angolo di osservazione). Piuttosto, un quanto mai opportuno bisogno di segnare confini e distinzioni, che oggi mi sembra riaffiorare anche nell’esigenza di produrre ‘mappe’, dottrinarie come satellitari.
3) Sulle conseguenze dedotte in tema di diritto internazionale umanitario
Un ulteriore profilo che non mi ha convinto del discorso di Gradoni è quello relativo all’interpretazione offerta del ‘principio di distinzione’, che ho stigmatizzato, in un commento probabilmente troppo repentino (e del quale mi scuso, se ha urtato la sensibilità del mio interlocutore) come «su base tecnologica». Più esattamente, l’autore argomenta in questo modo: «[l]e offensive israeliane causano molte vittime civili, queste però non sono altro che “danni collaterali” – potrebbe arguire l’attaccante – provocati da un’azione bellica che, anche grazie alla precisione delle armi, e perlomeno nelle intenzioni (non sempre sondabili!), si mantiene conforme al principio di distinzione».
Mi sembra, qui, di scorgere un equivoco in parte simile a quello che si riscontra talvolta nel dibattito sulla, anzi ‘sulle’ (perché sono diverse: in tempo di pace, in tempo di guerra, ecc.), qualifiche del crimine di terrorismo, allorché si fa discendere la finalità dalle modalità esecutive della condotta criminosa (il kamikaze, insomma, sarebbe sempre un terrorista: ma ciò non è necessariamente vero, perché costui può immolarsi anche contro un obbiettivo militare).
Mutatis mutandis, anche articolando un discorso (che in ogni caso non è stato prodotto) sulla separazione tra mezzi e metodi di combattimento, il principio di distinzione, con il quale si richiede di differenziare «at all times» tra popolazione civile e combattenti, non può in alcun modo ritenersi soddisfatto, ex se, dalla «precisione delle armi». Si può distinguere, o non distinguere, con una baionetta come con un lancio di missili. Ed è sulla base di simili ragionamenti che la Camera d’appello del Tribunale ad hoc per l’ex Iugoslavia ha avvertito l’esigenza di smentire la Camera di prima istanza considerando che quest’ultima sia incorsa in «error of law» quando ha ritenuto che «[t]argeting civilians or civilian property is an offence when not justified by military necessity […] The Appeals Chamber underscores that there is an absolute prohibition on the targeting of civilians in customary international law», (Blaškić, Judgement on appeal, 29 luglio 2004, par. 109).
Né ho compreso la portata del richiamo che Gradoni ha segnalato, quando nel suo II post rimanda – in risposta a questa critica – al sito delle forze armate israeliane. Tanto più che, come riprodotto in una sezione dello studio sul Customary International Humanitarian Law condotto dal Comitato internazionale della Croce Rossa sulla prassi degli Stati in materia di attacchi contro la popolazione civile, se nel Israel’s Law of War Booklet del 1986 si prevedeva che «[a]ttacks on civilians are strictly prohibited», nel più recente Manual on the Rules of Warfare (2006) si sancisce che il principio di distinzione «imposes the duty to refrain from attacking civilians as far as possible» (corsivo aggiunto).
Da ultimo, sorprende che a ricorrere a tale criterio di discernimento sia proprio chi opportunamente rimarchi la non coincidenza tra diritto e giustizia, sottintendendo, si parva licet, come il primo non sia uno strumento ‘buono’ di per sé, ma innanzitutto una regolamentazione dei rapporti di forza soggiacenti. Non è forse anche la perizia (τέχνη), una sorta di ‘regolamentazione precisa’ di quanto giace sotto? O la ‘tecnica’ applicata al mondo militare, diversamente – a questo punto – da quella applicata al mondo del diritto è, di per sé, buona? Sono persuaso che scavando tra le pagine del Novecento, e in particolare ‘nei campi’, si possano attingere notevoli risposte a tale quesito («nel sistema della biopolitica nazista [i campi] non sono soltanto il luogo della morte e dello sterminio, ma, anche e innanzitutto, il luogo di produzione […] dell’ultima sostanza biopolitica isolabile nel continuum biologico» (Agamben, Quel che resta di Auschwitz – l’archivio e il testimone, Torino, 1998, p. 79).
In conclusione, non saprei dire (anche se mi piacerebbe dibatterne) se i razzi che Hamas oggi orienta contro le città israeliane rappresentino il ‘ramo caduto’ dello storico discorso ‘del ramoscello d’olivo’ tenuto da Arafat dinanzi all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite oramai 40 anni fa («…sono venuto portando un ramoscello d’olivo, in una mano, e la pistola di un combattente per la libertà, nell’altra. Non lasciate che il ramoscello d’olivo mi cada dalla mano»). Né saprei dire (ma anche di ciò mi piacerebbe dibattere) se quel ramoscello sia stato deliberatamente lasciato cadere, oppure se il pugno che lo stringeva sia stato obbligato ad aprirsi per la brutalità della morsa che cingeva tutto intorno il braccio. Ma il tema che oggi si propone è: chi può raccogliere quel ramoscello? A leggere Gradoni si ha l’impressione che la comunità internazionale – e il diritto che essa esprime e dalla quale è espressa – non possa… perché è essa stessa l’arbusto che ha dato vita al ramo. Osservazione che merita la più alta considerazione. Ma che non mi ha persuaso, perché argomenta troppo (il diritto internazionale può tutto ciò?), o troppo poco (il diritto internazionale non può nulla?).
Ciò premesso mi auguro, con la presente, di avere reso un corretto omaggio allo spirito critico di Lorenzo, cercando di illustrare in modo cordiale, e nell’angusto spazio di un blog, gli elementi del suo discorso che mi hanno lasciato più perplesso. Se non ci sono riuscito me ne rammarico, e spero che mi concederà una nuova opportunità (magari davanti a un buon bicchiere). Ma se posso congedarmi con un auspicio, è che si torni a dibattere dei temi dai quali siamo partiti. Ricominciare da Gaza.
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Ringrazio Gabriele Della Morte per l’attenzione dedicata ai miei due brevi interventi dei giorni scorsi. Rispondo rapidamente, per punti (6), senza la pretesa di raccogliere tutti gli stimoli (e tanto meno di mettere a frutto le colte allusioni) della sua complessa risposta. Complessa ma tesa, più che a contrastare il dissenso nel merito, a negargli sotto vari aspetti il diritto di interloquire, ritendendolo volta a volta – e in termini più o meno espliciti – illogico, confuso, non abbastanza dotto, ribelle ai canoni del mestiere, immorale (perché più incline a “teorizzare” che a piangere le vittime nel modo che conviene al giurista: l’attenta e pietosa qualificazione di fatti criminosi). Nel mio secondo intervento (http://www.sidi-isil.org/sidiblog/?p=1033) ho cercato di spiegare – e di spiegarmi – il “serrer-les-rangs” dottrinario che implicitamente accompagna il lancio di un appello da parte di esperti e che un eventuale dissenso finisce per rendere esplicito. Non posso quindi dirmi stupito; deluso, un po’, sì.
1. Secondo Gabriele, i miei interventi sarebbero inficiati da un errore categoriale. I firmatari dell’appello avrebbero svolto dotte considerazioni “di” diritto, mentre io discorrerei “sul” diritto. È un primo tentativo di escludere in limine la pertinenza delle mie obiezioni: parlerei d’altro. Io resto però convinto che non esista discorso “di” diritto che non ne presupponga uno “sul” diritto (implicito e talvolta inconsapevole). E d’altra parte, persino la dicotomia “di”/“su” lascia intravedere una ben precisa concezione del diritto, tutta imperniata sul possesso di una solida expertise. Scrive Gabriele: “fintanto che si decide di restare nell’ambito ‘del’ discorso giuridico, non mi sembra vano adoperarne ‘il’ linguaggio e ‘le’ categorie”. La prima enfasi (‘del’) è suo, le altre no (‘il’, ‘le’), ma tutte valgono a sottolineare la traccia di un compatto dottrinarismo. E in che senso, poi, io avrei parlato d’altro? Solo perché la mia coscienza mi ha imposto di considerare, dopo un attento esame, illusoria e controproducente la prospettiva internazionalpenalistica acriticamente additata dall’appello? Non sarebbe intellettualmente più onesto riconoscere il dissenso per quel che è (il che ovviamente non significa aderirvi), invece di bollarlo come errore incapacitante?
2. Gabriele sembra accusarmi di ritenere in qualche misura giustificabile il “targeting of civilians”, giungendo persino a impartirmi la lettura di una sentenza Blaškić che ribadisce in termini puramente manualistici il principio. Ecco un altro dispositivo di esclusione: come può, colui che cosparge il proprio testo di errori blu, criticare un appello sottoscritto da esperti? Su questa base Gabriele offre, di ciò che ho scritto a proposito della superiore tecnologia bellica israeliana, la seguente interpretazione (veicolata da un interrogativo retorico): “la ‘tecnica’ applicata al mondo militare, diversamente … da quella applicata al mondo del diritto è, di per sé, buona?” Aggiunge alcune considerazioni (citando Agamben) sulla tecnologia dei campi di concentramento nazisti. Chi ha letto ciò che ho scritto sa bene che Gabriele travisa le mie opinioni, sia quando mi imputa una certa incompetenza (un po’ troppo grossolana persino per chi, come me, non è esperto della materia), sia quando mi ascrive (pur conoscendomi bene) un’assurda ammirazione per le armi intelligenti. Qui mi fermo, salvo dire che considero l’evocazione dei campi di concentramento fuori luogo, come del resto tutti gli accostamenti – più o meno obliqui e oggi purtroppo di moda – tra Israele e il nazismo.
3. Gabriele ritiene che spetti al giurista discutere se il Consiglio di Sicurezza abbia accertato correttamente una minaccia alla pace. Poiché sono d’accordo – nonostante io sia rimproverato di non voler più distinguere giuridicamente alcunché (altro dispositivo di esclusione: se fosse come lui dice, è evidente che dovrei cambiare mestiere!) – gli chiedo, con sincera curiosità, per comprendere meglio il suo pensiero e forse, di riflesso, il senso dell’appello: se il Consiglio non deferisce la questione della Palestina alla Corte penale internazionale, allora omette di accertare una minaccia alla pace e/o non individua correttamente i mezzi per farvi fronte? Questo il giurista “lo sa” dottrinariamente, proprio come “sa” che la risoluzione n. 1244 (2002) è “illegittima”?
4. Mi chiedo perché Gabriele senta forte il bisogno di rappresentare l’appello che ha firmato come un… referto. Continuo a chiedermelo quando in realtà mi sono già dato una risposta (nel secondo post): la retorica dell’expertise lo esige. L’appello – è ovvio – è un atto politico (sebbene persino nella sua parte “operativa” tenti di ricondurre quasi tutto, formalisticamente, all’esigenza di adempiere obblighi internazionali reali o presunti). Ed è soprattutto in quanto atto politico che l’appello mi è parso poco convincente; non perché “fazioso” (cfr. la risposta di Marco Pertile) ma perché serve una – per i miei gusti – insipida pietanza internazionalpenalistica con contorno di “rispettare e far rispettare”, ecc., insomma, per le ragioni che ho già illustrato e riassunto alla fine del mio secondo post. Credo che valga la pena chiedersi: per un internazionalista che interviene nel dibattito pubblico in veste d’esperto è politicamente suicida criticare il diritto internazionale (ossia certi suoi comparti o istituzioni e non, evidentemente, l’idea stessa di diritto internazionale)? Ho l’impressione che una risposta affermativa a tale domanda sia implicita nell’azione di chi ha sottoscritto l’appello. Io – s’è capito – non sono d’accordo.
5. A Gabriele basta poco per mettere fuori gioco la mia critica, meno di due righe (perché dunque, mi chiedo, questa “protratta” attenzione?): “argomenta troppo (il diritto internazionale può tutto ciò?), o troppo poco (il diritto internazionale non può nulla?)”. Ed eccolo – inesorabile – il quarto dispositivo di sterilizzazione del dissenso: la caricatura della critica; caricatura duplice in questo caso, perché funzionale a far apparire la critica contraddittoria oltre che eccessiva. È vero che il diritto internazionale è (rovinosamente) presente sulla scena del delitto – la Palestina – almeno sin dai tempi del mandato britannico conferito dalla Società delle Nazioni… ma chi ha mai sostenuto che il diritto internazionale è “colpevole” di tutto, per esempio di aver causato il conflitto israelo-palestinese? E chi mai ha sostenuto che il diritto internazionale “non può nulla”? All’inizio del suo scritto, Gabriele traccia un parallelo tra giurisprudenza e medicina. Ebbene, il senso della mia critica, ridotto in… pillole, sarebbe: l’appello formula una diagnosi superficiale e indica rimedi inefficaci o dannosi. Questo significa che inviterei i palestinesi di rivolgersi a un rude cerusico o un guru new age? Certo che no. Consiglierei però di stare alla larga da professionisti inclini ad accanimenti terapeutici internazionalpenalistici.
6. Infine, Gabriele invita la “comunità” a “riprendere” il dibattito su questioni più concrete, su Gaza, i suoi morti e le pertinenti qualificazioni giuridiche (insomma, a parlare “di” diritto). Altra mossa delegittimante e strettamente collegata a quella sub 1: avrei divagato, insensibile al dolore delle vittime? Dei miei scrupoli di coscienza ho detto nel mio secondo intervento; per il resto ognuno si faccia l’idea che vuole. Ma il dibattito, prima, dov’era?
L’intervento di Gabriele Della Morte mi stimola anzitutto una osservazione di fondo, avendo io stesso scelto l’angolo visuale di Lorenzo Gradoni, e cioè, quello di riflettere “sul” diritto internazionale.
Mi chiedo: la riflessione “sul” diritto non costituisce un’espressione tipica, ancorché non necessariamente esclusiva, del lavoro del ricercatore? Se la risposta è positiva, come io ritengo, non è del tutto legittimo, quindi, sul piano metodologico, connettere riflessioni “di” diritto a riflessioni “sul”diritto? A me pare proprio di sì; e mi pare, altresì, che il fatto stesso di aver sottolineato questa circostanza (sottolineatura che, ripeto, mi coinvolge, pur avendo parlato io, non di diritto internazionale “tout court”, ma di giustizia penale internazionale e diritto internazionale umanitario) sia riconducibile, anch’esso, ad una sorta di resistenza ad una riflessione critica più ampia, che sembra accomunare l’intervento di Della Morte a quelli di Marco Pertile e Fabio Marcelli.
Nel post si fa inoltre rilevare –a sostegno della prassi della presentazione di appelli da parte di esperti – che è proprio ad un appello, quello di Henry Dunant, che sarebbe (anche) riconducibile la nascita del diritto umanitario. Mi sembra possibile osservare: a) che Dunant, più che un “savant” (= un esperto di Diritto internazionale), fosse un uomo d’azione; b) che il passaggio di un secolo e mezzo sconsiglia di istituire un paragone fra i due appelli, se non altro sotto il profilo dell’incidenza comunicativa e politica; c) che l’appello di Dunant fosse un appello “de jure condendo”, mentre la “Joint Declaration” è un appello “de jure condito”, strettamente connesso a una vicenda storica concreta e particolarissima. In particolare, alla luce di quest’ultima notazione, mi chiedo se non sia maggiormente assimilabile allo “spirito” di quell’appello, proprio il … “grido di dolore”, levato sia da Lorenzo Gradoni che dal sottoscritto, a proposito della difficoltà del diritto umanitario a fungere da strumento efficace di regolazione di un conflitto come quello in questione. Pur non indicando soluzioni “de jure condendo” (è vero, ed in questo senso ci discostiamo sena’altro dalla prassi di Dunant), in tal modo poniamo entrambi un problema “concreto”, ancorché di fondo; o è troppo di fondo per poter essere considerato “concreto” dagli esperti di siffatto settore normativo?
Sempre con specifico riferimento alla prassi degli interventi di “savants” in campo giuridico internazionalistico, si fa poi rilevare che tale prassi non si discosta, in ultima analisi, da quella che si traduce nell’”invocazione” dell’intervento di esperti in campo medico, in ordine a situazioni rilevanti da quel punto di vista. Ma la “Joint Declaration” non è stata approntata autonomamente dai suoi estensori, cioè, in assenza di forme di “invocazione”? E se, invece, essa è stata “invocata” da una delle parti in conflitto, non rischia così di fuoruscire dalla categoria dell’intervento dei “savants” allo stato puro, per ricadere, piuttosto, in quella dell’intervento “politico”, mirante però, non alla difesa della popolazione civile “tout court” – come ipotizzato dal sottoscritto (v. il primo commento al secondo intervento di Gradoni) – ma, piuttosto, alla difesa di una “parte”, come sottolineato da G. Sacerdoti, in un commento al primo intervento di Lorenzo Gradoni?
Infine: nel post di Gabriele Della Morte si afferma che le perplessità espresse, tanto dal sottoscritto, che da Lorenzo Gradoni, a proposito del funzionamento della giustizia penale internazionale universale e delle sue prospettive future, corrisponderebbero agli ostacoli fatti valere da molte voci – statali e non – già durante l’elaborazione dello Statuto di Roma, nonché successivamente, anche in tempi recenti. Ne prendo atto senza alcun problema, non avendo (io) avuto alcuna pretesa di originalità al riguardo (ed avendo anche cognizione di alcuni degli sviluppi indicati). Sottolineo, però, che tali perplessità sono state avanzate con specifico riferimento ai problemi finora posti dall’esperienza “concreta” del funzionamento della Corte. Mi chiedo allora, non retoricamente, che senso abbia l’affermazione di cui sopra. Si tratta di dubbi mal posti, inutili (o, addirittura, “dannosi”)? Si tratta, cioè, di dubbi sui quali oggi non ha senso interrogarsi? Oppure, si tratta di dubbi che, vertendo “sul” diritto, non si configurano come “di” diritto, e non hanno, quindi, diritto di cittadinanza nel presente dibattito?
Ancor più in quest’ultimo caso, sarei dell’idea (già prospettata nel mio secondo commento al secondo intervento di Gradoni) che sarebbe opportuno discuterne in altra sede.
Innanzitutto, ringrazio i miei commentatori per le stimolanti risposte. Permettetemi una rapida contro-replica, sull’intento e sul merito.
Sull’intento. Mi rammarica il disappunto di Lorenzo, ma la mia non è, né intende in alcun modo divenire, una critica «de-legittimante» dello stimato amico, al quale, anzi, va riconosciuto il merito di avere lanciato questo appassionato dibattito. Fatico a comprendere: sono stato pubblicamente menzionato proprio da quest’ultimo affinché prendessi parte a questa ricca discussione («amerei sinceramente che Gabriele intervenisse nel dibattito»), quale modo migliore per onorare l’invito, se non contribuendo seriamente – ergo criticamente – alla discussione? (tanto più che il dissenso, lungi dall’essere «sterilizzato», è esplicitato nella premessa al mio intervento : «caro Lorenzo, questa volta proprio non siamo d’accordo»).
Sul merito, cominciando da Lorenzo: per quanto concerne la distinzione ‘di/sul’ diritto, valga quanto riportato di sotto in risposta alle considerazioni di Pasquale De Sena. Sulle altre, in ordine sparso. Non credo che l’appello sia un referto, ma credo che sollevi delle questioni che sarebbe interessante approfondire. Non credo che se il Consiglio non accerti una minaccia alla pace… non via lo spazio per dibatterne comunque; non è questo il luogo per affrontare un tema così ricco, ma se dovessi riassumere la problematica delle delle interrelazioni tra ‘ius ad bellum’ e ‘ius in bello’ intorno ad un’unica, sintetica questione, mi sembrerebbe che l’ambito problematico all’interno del quale essa si pone è proprio quello relativo alla responsabilità del mantenimento della pace da parte del Consiglio di sicurezza: se sia essa una responsabilità di tipo esclusivo, o semplicemente primaria. Da ultimo, non ho presentato alcun accostamento, né orizzontale né obliquo, «tra nazismo e Israele» (ci mancherebbe!). Ho evocato la questione dei ‘campi’ – come trattata da Giorgio Agamben in un saggio che mi ha colpito per chiarezza e profondità – in merito ad un discorso sulla ‘tecnica’, di come quest’ultima possa servire addirittura fini ‘bio-politici’.
Per quanto concerne i punti sollevati da Pasquale De Sena, comincio da quello che mi sembra più rilevante (e che concerne anche la replica di Lorenzo): si, certamente la riflessione ‘sul’ diritto rappresenta una delle espressioni tipiche dello studio delle materie giuridiche. E sono ben d’accordo (anche) con Lorenzo: ogni speculazione ‘di’ diritto ha dietro di se una concezione, una weltanschauung (assunta o inconsapevole) ‘sul’ diritto. Tuttavia, il rilievo critico che ho avanzato nel post concerne il modo in cui la ‘connessione’ tra questi due discorsi è stata attuata nel corso di questo dibattito (o, più modestamente, il modo in cui sono stato in grado di coglierla). Non ho rilevato, nell’interpretazione del principio di distinzione elaborata da Lorenzo in contrasto con quella avanzata nella Joint Declaration alcun chiarimento – per me convincente – ‘di’ diritto. Piuttosto, un’induzione, che prende le mosse da un largo discorso ‘sul’ diritto. Ed è precisamente questa inferenza che ho inteso criticare.
Relativamente a Dunant, certamente Un souvenir de Solferino non è paragonabile alla Joint Declaration: altra epoca, altro diritto, in una sola espressione: un altro mondo! Ma la mia segnalazione non intendeva stabilire un parallelo; piuttosto, sottolineare come la forma ‘appello’, con potenzialità e limiti che gli sono propri, non sia aliena al discorso di/sul diritto internazionale, come potrebbe rilevarsi anche partendo da altri esempi più recenti (ex multis: l’opinione legale sugli ‘Effects of Palestine’s Recognition of the International Criminal Court’s Jurisdiction’, preparata da Alain Pellet nel 2010 e sottoscritta da autorevoli docenti (anche italiani).
Diversamente, mi persuade la critica avanzata in riferimento alla circostanza per cui la Joint Declaration, almeno per quel poco di cui sono a conoscenza, non è stata «invocata» da alcuna parte (e anche se lo fosse, lo sarebbe ad opera di una sola parte interessata). Alla luce di questa considerazione il mio parallelo con la richiesta di un chiarimento agli epidemiologi non regge, e se fosse possibile utilizzare il ‘bianchetto’ nel mondo della scrittura immateriale… lo cancellerei.
La replica di Gabriele – che ringrazio – mi offre l’occasione per ribadire un aspetto della mia critica che speravo potesse risultare chiaro sin dall’inizio. Non ho mai inteso – matita blu alla mano – contestare le “qualificazioni giuridiche” operate dalla Joint Declaration e tanto meno ho voluto, a monte, formulare una diversa interpretazione del principio di distinzione. I miei due interventi non intersecano mai questo piano del discorso. Se le mie obiezioni all’appello fossero state di questo ordine, me le sarei tenute per me. Mi tocca dunque ribadire, a costo di apparire stucchevole, che il mio dissenso concerne (tra l’altro) l’invocazione acritica, non problematizzata, ecc., di un corpo di regole al cospetto del quale, in generale (cioè secondo la logica di fondo di tale corpus iuris), il belligerante tecnologicamente sofisticato compare con piglio più sicuro, e forse persino con una coscienza più tranquilla, di quello che spara a casaccio, perché combatte alla disperata. Di qui a (farmi) dire che l’operazione “Protective Edge” rispetta in generale o nelle sue singole sortite il principio di distinzione in quanto “hi-tech” – e che quindi l’appello e i suoi firmatari “si sbagliano” – ce ne corre! (se potessi aggiungerei un altro paio di punti esclamativi). E poi c’è la critica alla ricetta internazionalpenalistica. Anche qui, lungi da me asserire che i promotori e i firmatari dell’appello hanno preso un qualche granchio “dottrinale”, per esempio sulle competenze rispettive della Corte penale internazionale e del Consiglio di Sicurezza. Non ho firmato l’appello soprattutto perché credo che il mondo internazionalpenalistico che campeggia sullo sfondo della Joint Declaration sia, in un certo senso e nonostante la sua evidente e persino ingombrante realtà istituzionale, un mondo “fantastico” – se si vuole, una sorta di “regno dei fini” kantiano – nel quale il popolo palestinese è invitato a entrare a rischio e pericolo (suo) di ulteriori sofferenze e umiliazioni. E tutto ciò per me significa parlare “di” diritto.
Gabriele non me ne vorrà se continuo a credere che, almeno sin qui, un ingrediente importante (e interessante) del nostro dibattito – e lo ringrazio molto di parteciparvi con il suo caratteristico stile nonostante il mio rude invito (del quale tardivamente mi scuso) – è stata la reazione difensiva degli esperti, delineata, “with a little help from Bourdieu”, nel mio secondo intervento e qui ribadita con nuovi succosi indizi alla mano (la distinzione “di”/”sul”). Una reazione che ritengo non del tutto inscrittibile nello scambio tra pari ma volta a squalificare in radice il dissenso (in quanto inintelligibile, banale, divagante, “sul” e non “di”, indisciplinato, irresponsabile, informato da una discutibile concezione del rapporto politica/diritto, ecc.). Intendiamoci: capisco bene, a parti rovesciate avrei probabilmente compiuto le stesse mosse e quindi non ne voglio a nessuno… tra l’altro è appassionante assistere a un esperimento “in vivo” di sociologia della scienza. E naturalmente mi auguro che il dibattito continui.
AI CURATORI. Questo non è un commento, ma una comunicazione: chiedo, se possibile, di rimuovere il PS che ho inserito nel mio commento precedente; se non preso con ironia da chi è intervenuto in precedenza potrebbe risultare offensivo, e mi spiacerebbe, non essendo quella la mia intenzione.
Anch’io vorrei ringraziare Gabriele Della Morte per aver attentamente considerato i miei commenti.
Ciò detto, mi pare però che la risposta da lui data alla questione concernente l’opportunità di riflettere anche “sul” diritto, oltre che “di” diritto, confermi l’impressione da me avanzata nel commento precedente.
Non si tratta tanto di ritornare su se l’argomento avanzato da Lorenzo Gradoni sul principio di distinzione costituisca, o meno, una mera deduzione dalle sue premesse di partenza (=la critica del ruolo attribuito al diritto internazionale in relazione alla vicenda di Gaza).
Si tratta di un’altra circostanza, la quale, a mio avviso, tradisce esattamente la resistenza a riflettere “sul” diritto”, che mi è sembrato di intravedere nel post; e cioè, il fatto che nessun cenno viene da lui effettuato alle due questioni di fondo poste nel mio intervento (riproposte nel primo commento, e largamente coincidenti con l’impostazione degli interventi di Gradoni), concernenti l’effettiva capacità del diritto umanitario, e del sistema della giustizia penale internazionale universale, ad offrire risposte per un conflitto come quello in esame. Mi si risponderà che si tratta di ampie questioni, che dovrebbero esser considerate in ben altra sede. Sono d’accordo (io stesso l’ho fatto notare), ma a mio avviso resta sintomatico che neppure una parola sia stata spesa al riguardo, in linea, ribadisco, con l’impostazione degli interventi di M. Pertile e F. Marcelli.
Quanto agli appelli, prendo atto delle osservazioni di Gabriele Della Morte. Non era mia intenzione svalutare “tout court” il genere, alla cui … sopravvivenza ho io stesso contribuito talvolta (per es., in relazione alla scandalosa situazione delle carceri italiane). Osservo, però, proprio in linea con l’esigenza di distinguere, da lui fatta valere, che bisogna, per l’appunto, … distinguere. In quest’ottica, mi sembra allora che poco abbia a che vedere con la “Joint Declaration”, un parere tecnico circostanziato (19 pagine e 69 note), opportunamente diretto a una precisa istituzione giudiziaria internazionale (l’Ufficio del Procuratore della Corte penale internazionale), quale l’opinione di Alain Pellet sugli effetti giuridici del riconoscimento della giurisdizione della Corte penale internazionale da parte della Palestina.
Nessuno mi ha chiesto di aderire a quel parere; ma se mi fosse stato chiesto di farlo, forse l’avrei firmato, a differenza della “Joint Declaration”. E questo, beninteso, non certo per la perizia tecnica che in esso è manifestata, né (tanto meno!) per l’autorevolezza dei suoi “sponsor”; ma solo perché l’avrei considerato, per le ragioni sopra indicate, come uno strumento complessivamente idoneo rispetto agli scopi perseguiti, a prescindere da come poi è andata a finire.
Non so se può rilevare come esempio, ma, a proposito del nesso tra politicità del diritto internazionale penale e idoneità del diritto internazionale umanitario a regolare i conflitti, mi pare utile richiamare quel controverso caso Gotovina in cui l’ICTY è stato vicino a stabilire uno standard utile a presumere il carattere indiscriminato di un attacco (i famosi 200 metri di distanza da un legitimate military target) che gli studiosi attendevano da anni. Stabilire quello standard avrebbe verosimilmente munito il diritto internazionale dei conflitti armati (personalmente credo che definirlo “umanitario”, proprio per le sue contraddizioni strutturali e la ferocia che esso consente, è già un eccesso di generosità) di una determinatezza piuttosto funzionale alla sua cogenza, o per lo meno ad un rafforzamento di essa.
Ebbene, per evitare che ciò accadesse, almeno secondo diversi osservatori e giornalisti, fu necessaria la mobilitazione di tutta la forza di persuasione di diverse potenze militari occidentali, affinché quello standard non fosse stabilito (da cui l’infuocata dissenting opinion di Pocar).
Perché l’acquittal di Gotovina rileva anche qui? Per esempio perché, alla luce di quello standard, la quasi totalità degli attacchi israeliani a Gaza sarebbero indiscriminati e qualificabili come crimini di guerra. Qui si pone un’altra questione rilevante. Infatti, anche se non tali alla luce dello Statuto di Roma (il cui Articolo 8 omette drammaticamente e “dolosamente” di criminalizzare gli attacchi indiscriminati), tali attacchi rimangono comunque crimini di guerra alla luce del diritto internazionale consuetudinario!
Ma, tornando al caso, esso mi pare esempio calzante di come, a fronte delle tracce di lotta per il diritto che possono trovarsi o meno nella JLD o in simili appelli, sarebbe bene tenere presente anche quella sorta di “lotta contro il diritto” che si svolge incessantemente nello scenario internazionale al fine di conservare l’assetto egemonico, diseguale e discriminatorio del suo diritto.
Se siamo passati, in ambito penalistico, dalla lotta dei ceti nobiliari, prima, e borghesi, poi, per imbrigliare il potere sovrano e lo ius puniendi entro le garanzie dell’illuminismo giuridico, alla lotta del potere sovrano per rimanere il più possibile legibus solutus quando muove guerra, chiederei come mai il diritto internazionale penale, oltre che parte del problema, non potrebbe presentare anche caratteri potenzialmente parte della soluzione (sempre storicizzandolo, criticandolo e mai sacralizzandone uno stadio di sviluppo, che tra l’altro, per approssimazione in termini di teoria generale del reato, susciterebbe il disappunto persino del tecnicismo giuridico più ostinato).
Insomma, se l’ICC spaventa al punto di diventare un nodo cruciale delle trattative, se si chiede ad Abbas di non farvi ricorso, se Netanyahu comincia a rivolgersi ad international lawyers per capire se ci sono margini di processo, mentre centinaia di migliaia di voci dalla società civile mondiale si mobilitano per la soluzione opposta, non sarà che essa, l’ICC, proprio in un contesto simile, potrebbe essere uno strumento utile per provare a scalfire la sicurezza dell’impunità e la ὕβϱις dei vincitori?
Mentre in tutto il mondo singoli e collettività cominciano, anche impropriamente, ad utilizzare il lessico del diritto internazionale dei conflitti armati sull’onda dell’indignazione, non vi è una grande occasione per una comunità scientifica critica e vigile per provare a contrastare, almeno un po’, il diritto della forza e la ragione delle armi? O meglio, in questo caso, per provare ad allontanarsi sempre più da quel diritto, come lo descriveva Vico, “col quale i vincitori regolano il cieco furore delle armi e la sfrenata insolenza delle vittorie, e i vinti ne consolano i danni delle guerre e la suggezione delle conquiste” ?
Se fosse esistita l’ICC al tempo del Vietnam, non sarebbe stato giusto utilizzarne le asserzioni normative per contrastare i massacri e chiederne la sanzionabilità?
Non vi furono forse grandi intellettuali critici e militanti ad animare il Russel Tribunal?
(Luigi Daniele-dottorando)
(Luigi Daniele – dottorando)
Vorrei ringraziare Luigi Daniele per essere entrato nel merito di alcune delle questioni sollevate in questo dibattito, in particolare del riferimento al caso “Gotovina”, che mi sembra appropriato.
E’ peraltro evidente che le perplessità, manifestate sia Lorenzo Gradoni che dal sottoscritto, erano di ordine più generale. Ci si può chiedere infatti se in un conflitto del genere – caratterizzato dall’esigenza di rispondere ad attacchi indiscriminati, in un teatro del tutto particolare (v. il mio primo post in questo dibattito) – parametri più precisi avrebbero trovato applicazione ugualmente. In senso negativo depone la circostanza, opportunamente segnalata da Gabriele Della Morte, per cui il “Manual on the Rules of Warfare” israeliano del 2006 richiede che il coinvolgimento della popolazione civile debba essere evitato “as far as possible”. Circostanza, quest’ultima, che sembra confermare esattamente l’ipotesi, avanzata dal sottoscritto, in base alla quale la possibilità di tale coinvolgimento è, in realtà, pienamente accettata da parte israeliana (con tutto ciò che ne consegue sul piano del modo di funzionare degli obblighi di diritto umanitario).
Quanto al ruolo svolto, in questo conflitto, dall’eventualità di un giudizio della Corte penale internazionale: certo, si può osservare, come fa Luigi Daniele, che la prospettiva non arride a Israele; e si può anche aggiungere che ciò costituisce un elemento positivo, in rapporto a quanto si è verificato, per esempio, col conflitto in Vietnam, da lui citato.
Per dare un giudizio ponderato al riguardo, attenderei però gli sviluppi successivi. Per ora siamo dinanzi a ad una tregua, nel cui ambito il ruolo attribuibile alla prospettiva di un intervento della Corte è assai incerto, pur essendo verosimile che essa (prospettiva) verrà agitata dalla dirigenza palestinese sul tavolo del negoziato.
Segnalo peraltro il rischio che una simile prospettiva possa rivelarsi un’ … arma spuntata. Nel mio primo intervento – di carattere volutamente generale – mi sono chiesto se un mandato di arresto nei confronti del primo ministro in carica di Israele possa apportare un contributo positivo alla soluzione della controversia. Mi permetto di porre ora una questione di carattere più strettamente giuridico, connessa alla circostanza che Israele non ha ratificato lo Statuto di Roma, pur avendolo firmato. Sarebbe applicabile, nei confronti di uno Stato non parte, l’articolo 27 di tale Statuto (che dispone l’irrilevanza della qualità ufficiale dei responsabili dei crimini previsti)? O dovrebbe piuttosto applicarsi nei confronti di tale Stato, la disciplina consuetudinaria, valevole per i giudizi intrapresi dinanzi a corti interne (v. paragrafi 61 e 62 della sentenza della Corte internazionale di giustizia del 2002 nel caso del mandato d’arresto)? La risposta non mi sembra scontata,in assenza (se non sbaglio) di precedenti al riguardo.
Quanto poi al fatto che il Tribunale Russell fosse composto da fior di intellettuali e alla circostanza che il diritto internazionale umanitario sia diventato il linguaggio della società civile internazionale: “nulla quaestio”, naturalmente; né io, né Lorenzo Gradoni (credo) abbiamo inteso negarlo!
Mi sembra però che queste circostanze nulla tolgano rispetto all’esigenza di assumere una prospettiva critica rispetto alle vicende in corso; esigenza imprescindibile per un autentico ricercatore, o no?
Assolutamente Professor De Sena, condivido. Anzi ingrazio io sinceramente lei e tutti per aver offerto così tanti spunti critici preziosissimi a novizi come me, bramosi di interloquire, al fine di apprendere, in tali occasioni di discussione.
Rispetto al punto che lei giustamente sottolineava, ovvero il coinvolgimento della popolazione civile negli attacchi come eventualità pienamente accettata da parte israeliana, aggiungo che, quando si passa dai manuali ufficiali alla letteratura scientifica, si incontrano affermazioni ancor più emblematiche e allarmanti. Penso al testo discusso da diversi autori in un analogo dibattito in merito alla Joint Declaration su Opinio Juris. In “Military Ethics of Fighting Terror: Principles”, di A. Kasher e A. Yadlin (insigniti di prestigiosi riconoscimenti scientifici in Israele), si legge, ad esempio (ripropongo la citazione utilizzata da Kevin Jon Heller su OJ): “the state has to give preference to saving the life of a single citizen even if the collateral damage caused in the course of protecting him or her is much higher in number”.
In sostanza sembra potersi affermare che Israele abbia sviluppato un strategia (ed anche un’etica) di conduzione delle ostilità che non solo tollera, ma addirittura prescrive, a determinate condizioni, l’attacco indiscriminato.
Ecco perché, forse, auspicare l’uso di un’arma spuntata rimane tra le poche possibilità di cui disponiamo di fronte al rischio di una riproduzione ciclica e rituale della medesima strage di civili e comunque meglio di un totale “disarmo” del diritto e della giustizia.
Il che, ovviamente, non esclude la necessità di sforzarsi di identificare altri meccanismi di controllo e di sanzione, così come, credo, abbia fatto lei nella riflessione relativa alla necessità del rispetto del Patto sui diritti civili e politici da parte di Israele. Solo che forse tali meccanismi, quanto alle problematicità teoriche e applicative alla base del discorso critico svoltosi sul blog, non sono meno “classicamente” internazionalistici della giustizia penale internazionale o meno figli di essa della storia culturale che ne é alla base e, dunque, gravidi di medesime contraddizioni.